Trasporti

Cosa significa nazionalizzare Alitalia

25 Febbraio 2020

Lo stato comatoso del trasporto aereo italiano ha riproposto nelle scorse settimane l’annoso dibattito sulla necessità di una compagnia aerea di ‘bandiera’, ossia di un vettore direttamente controllato dal governo e finanziato dalle tasse degli italiani. La reazione di alcuni sindacati e di molti politici all’annuncio di liquidazione volontaria di Air Italy, lascia però intendere le reali motivazioni della richiesta di nazionalizzazione.

Antefatto. Ai primi di gennaio 2020 Ernest Airlines ha chiuso i battenti, probabilmente per sempre, senza che nessuno alzasse un sopracciglio. Anzi, l’ente regolatore del settore, Enac, è stata alquanto solerte a sospendere la licenza di operatore aereo alla piccola compagnia. Non si è mossa foglia, manco un’interrogazione parlamentare che, come tutti sanno, è come il sigaro di Giolitti, non si nega a nessuno. Eppure il capitale di Ernest è tutto italiano.

Come ha più volte sottolineato Marco Giovanniello su Gli Stati Generali e come confermano i dati di traffico degli ultimi 20 anni (disponibili qui), il numero di passeggeri aerei in arrivo e in partenza dagli aeroporti italiani è in costante crescita ed è più che raddoppiato tra il 2000, quando furono registrati 92.441.619 viaggiatori e il 2019 anno in cui è stata toccata la punta massima di 193.102.660 passeggeri. In sostanza, scrive Giovanniello, “L’aviazione italiana va bene, Alitalia no”. E neppure le altre compagnie aeree italiane, aggiungo io.

Una compagnia aerea nazionale, argomentano i sostenitori di questa ipotesi, è strategica per alimentare il turismo del Paese con il maggior numero di siti Unesco al mondo. Per questo bisogna nazionalizzare Alitalia e consentirle di tornare ai fasti degli anni Sessanta e Settanta. Capisco la nostalgia dei dipendenti ed ex dipendenti Alitalia, ma se c’è oggi una compagnia aerea strategica per il traffico internazionale, in Italia è Ryanair. Secondo i dati di Enac aggiornati al 2018, il vettore irlandese sposta oltre 37,8 milioni di passeggeri l’anno, ed è il primo per distacco. Alitalia, al secondo posto, ne muove poco più di 22 milioni. Le altre compagnie italiane sono lontanissime: Air Italy in tredicesima posizione trasportava meno di 2 milioni di passeggeri, Blue Panorama 1,5 milioni, Neos 1,2 milioni, Air Dolomiti poco meno di 1, Ernest Airlines 610 mila, Mistral 92.866.

La fotografia dell’Enac sui dati 2018 è impietosa per le compagnie aeree italiane e conferma appieno le affermazioni di Giovanniello.

Del resto, in occasione della vicenda Air Italy, sono stati gli stessi sindacati ad esplicitare le reali ragioni per cui chiedono l’intervento dello Stato per una ‘soluzione di sistema’ come hanno edulcorato la pillola: secondo la Cgil, il sindacato di base USB e l’Ugl il governo dovrebbe “bloccare la procedura di liquidazione e garantire il lavoro a Olbia”. Dal che se ne deduce che la missione di Air Italy non è trasportare passeggeri da una città all’altra al minor costo possibile, ma assicurare posti di lavoro. E poco importa se le condizioni cambiano, i posti di lavoro devono rimanere lì, dove sono sempre stati. Già, Olbia, un sito improduttivo dove stanziano alcune centinaia di lavoratori che la compagnia ha tentato invano di spostare su Malpensa con l’idea di far diventare l’aeroporto lombardo un nuovo hub per i voli intercontinentali. La famiglia Aga Khan ha perso alcune centinaia di milioni di euro con Alisarda prima e Meridiana poi. Questa volta ha deciso di dedicarsi ad altro.

Discorso simile vale per Alitalia perché, come si capisce, la richiesta di intervento statale è una richiesta di protezione del posto di lavoro, anche se improduttivo, inefficiente, antieconomico. Tanto, sarà il contribuente pubblico a pagare il conto.

L’altra argomentazione è che nel mondo esistono tantissimi esempi di compagnie aeree statali. Vero, ma quasi tutte vanno male, generano perdite e vengono chiuse (una delle ultime è stata Adria Airways in Slovenia) oppure mantenute in vita per scopi diversi: rappresentanza come nel caso della russa Aeroflot, elemento di soft power per medie potenze ed è il caso di Turkish Airways, motore di sviluppo e affermazione della centralità per Paesi di ridotte dimensioni e desiderosi di partecipare al banchetto della globalizzazione come Bahrein (Gulf Air), Qatar (Qatar Airways), Emirati Arabi uniti (Etihad ed Emirates), Singapore la cui Singapore Air però si sostiene da sola e Viet Nam con Vietnam Airlines.

Tutte le altre hanno passivi pesanti e ce ne sono alcune che potrebbero non sopravvivere al 2020 dopo anni di dissesti. Tra queste le più grosse sono Malaysia Airlines, Thai International Airways e South African Airways, tutte e tre di proprietà dei rispettivi governi. Anche quelle piccole sono afflitte da gestioni altalenanti e frequenti incidenti, come Cubana de Aviacion di Cuba e la venezuelana Conviasa.

Ci sono poi le compagnie cinesi che grazie ai sussidi consistenti, a un mercato interno vastissimo e agli accordi di sorvolo sulla Siberia con la Russia per cui pagano tasse ridottissime rispetto ai vettori europei, riescono a mantenere un regime di quasi monopolio nelle rotte tra l’Europa e l’Asia.

In Europa, Nord America e Australia le compagnie aeree sono state privatizzate o sono fallite. Gli aiuti di stato eventualmente ottenuti sono finalizzati alla ristrutturazione o al mantenimento di rotte a fallimento di mercato o di continuità territoriale, per esempio per garantire i collegamenti con le isole. In Italia accordi di questo genere valgono per la Sardegna, per Pantelleria e Lampedusa in Sicilia e coinvolgono anche altre modalità di trasporto, in particolare quello marittimo.

Per quanto esistano partecipazioni statali anche in Europa, SAS, Air France e KLM ne sono degli esempi, Alitalia rimane un unicum. Secondo un’indagine del Sole 24 Ore negli ultimi 45 anni la compagnia è costata alla fiscalità generale l’equivalente di 9 miliardi e 200 milioni di euro, 310 mila euro per ciascun addetto, di cui oltre 5 miliardi solo nel periodo dal 2008 ad oggi. Una fortuna, soprattutto se si pensa alla totale mancanza di politica industriale italiana sul trasporto aereo. Contemporaneamente, infatti, molte amministrazioni pubbliche sussidiano le compagnie aeree che offrono relazioni dai piccoli aeroporti italiani, gran parte dei quali gestiti da società controllate da Regioni, Comuni e Camere di Commercio. E per concludere senza farsi mancare nulla, vanno aggiunte le imposte sugli imbarchi che l’Italia applica dal lontano 2003 nella misura attuale di 6,5 euro a passeggero (7,5 euro per gli scali romani) e che l’attuale governo vorrebbe rimpolpare con un altro balzello.

@partodomani

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