Terzo Settore

Quale terzo settore per salvare le fondazioni dal loro successo

1 Agosto 2022

Siamo nell’era delle fondazioni. Sono questi soggetti a fare da guida al terzo settore e non solo. Esercitano infatti un peso crescente rispetto alle strategie di responsabilità ambientale e sociale delle imprese (che spesso le figliano) e non da ultimo contribuiscono a indirizzare le politiche pubbliche. Niente di nuovo si dirà, ma quel che fa la differenza è il peso specifico assunto dal fenomeno. Lo si può valutare in termini quantitativi – la fondazione è la forma giuridica nonprofit che cresce di più negli ultimi anni secondo i dati Istat – ma anche guardando al primato assunto a livello politico culturale. Sono le fondazioni – con i loro staff e dirigenti, non di rado cooptati da altri ambiti e settori – a dettare la linea rispetto alle missioni e alle modalità d’intervento e non solo perché erogano risorse per finanziare progetti, ma anche perché hanno assunto una posizione dominante per quanto riguarda il sostegno allo sviluppo (formazione, consulenza, ecc.) attraverso strategie e azioni di capacity building. Ecco quindi fondazioni che agiscono in chiave sempre più sistemica, “adottando” organizzazioni e territori e che, a tal fine, combinano risorse proprie di natura filantropica ma in quota crescente anche finanziarie e provenienti da altri attori pubblici e privati. Per non parlare poi delle fondazioni che “si mettono in proprio” producendo direttamente beni e servizi, gestendo infrastrutture sociali, governando politiche e inoltre, attraverso il finanziamento della ricerca sociale, riproducendo il sostrato culturale del terzo settore e di più ampi segmenti della società.

Viene da chiedersi, da questo punto di vista, dove si scarichi questo importante investimento sociale o, in modo più preciso, quali impatti generi. Un tema anche questo non nuovo ma che merita di essere riproposto. Da sempre infatti per le fondazioni si pone la questione di come trasferire quanto sperimentato con le proprie risorse all’interno del tessuto sociale, economico e politico affinché diventi il “new normal” dei comportamenti individuali e collettivi, delle scelte organizzative e dei sistemi di governance. Perché se ciò non avvenisse, o avvenisse solo parzialmente, si creerebbe una sorta di collo di bottiglia che lascerebbe le fondazioni “col cerino in mano” rispetto a un’innovazione sociale che non attecchisce e che inoltre le potrebbe esporle al rischio di essere rappresentate come soggetti che generano ulteriori elementi di disuguaglianza e divario di sviluppo tra territori e soggetti che possono contare sulle loro presenza e altri che invece non ne dispongono o solo parzialmente. Una deriva di chiusura che potrebbe mettere in crisi la loro missione di perseguire obiettivi di interesse generale, in particolare in una fase storica in cui molte delle “passarelle” tra la sperimentazione sociale e la “messa a regime” si sono indebolite. Basti pensare alle difficoltà crescenti dei livelli locali della pubblica amministrazione e dei suoi partner sociali nell’integrazione operativa e di governo del welfare e di altre politiche, oppure al ridimensionamento del ruolo di elaborazione strategica e di disseminazione di buone pratiche esercitato dai corpi intermedi. Un indebolimento che probabilmente è riconducibile anche all’azione di soggetti, tra i quali non è difficile pensare a qualche fondazione, che intendono ripensare profondamente l’assetto dell’intermediazione sociale, considerando le sfide più recenti e future che “i territori” si troveranno ad affrontare, in particolare quelle legate a progettualità e politiche di “ripresa e resilienza” nello scenario post pandemico.

Proprio per queste ragioni, e anche correndo il rischio di assumere una posizione velleitaria, in questa fase è necessario aiutare le fondazioni a non essere vittime del loro successo. Ma questo aiuto, posto sia necessario, da chi dovrebbe arrivare? E soprattutto in quale forma? Rispetto al “chi” emerge piuttosto chiaramente che le fondazioni (e non solo loro peraltro) cercano sempre più nuovi interlocutori con capacità di infrastrutturazione sociale. Veri e propri developer di filiera e di area che oltre a competenze di tipo esecutivo (cioè rendere disponibili in forma “stabile e continuativa” beni e servizi di interesse collettivo) sono in grado di abilitare e “orchestrare” apporti di varia natura che intercettano rigenerando risorse locali anche non direttamente afferenti ai loro specifici settori d’intervento. Una sollecitazione che mette un po’ in crisi alcuni caposaldi strategici e organizzativi del terzo settore, in particolare delle sue reti e soprattutto nelle aree dove è più consolidato. Negli ultimi anni, infatti, sono prevalse esigenze di forte integrazione dei sistemi di offerta attraverso fusioni e accorpamenti e di rappresentanza e coordinamento finalizzate a “incapsulare” il mercato a vantaggio dei propri associati. Per questo molti programmi e modelli filantropici più recenti configurano il loro apporto innovativo proprio nel ricombinare le relazioni tra diversi soggetti dando vita a nuove partnership multi attoriali che svolgono sia attività di advocacy come “alleanze di scopo” rispetto a bisogni codificati all’interno di framework di missione (uno su tutti: gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030), sia come agenzie in grado di ripensare processi e azioni la dimensione locale puntando alle dinamiche hard dello sviluppo economico e della coesione sociale.

Guardando invece al “come”, una prima modalità, già in parte in atto, potrebbe consistere nell’utilizzare il nuovo, o relativamente nuovo, campo della coprogettazione introdotto dalla riforma del terzo settore come arena nella quale le fondazioni possano agire il loro approccio di innovazione sistemica, misurandosi con un quadro di interessi, risorse e aspirazioni forse meno artificialmente costruito e gestito su misura dei propri obiettivi. Così operando potrebbero anche contribuire a fare da contraltare rispetto a un approccio alla coprogettazione che può correre il rischio di essere monopolizzato dal proceduralismo della Pubblica Amministrazione (e assecondato da segmenti non residuali del terzo settore), piuttosto che animato da esigenze di vera e propria innovazione sociale. Una seconda modalità consiste nel riportare la responsabilità dello sviluppo nelle mani, e nella testa, delle organizzazioni beneficiarie facendo in modo che diventi per loro un investimento e non una specie di “commodity” utilizzata a volte forzatamente e che quindi rischia di indebolire il potenziale di trasformazione di tali attività. Con un esempio un po’ banale si può pensare che uno stesso percorso formativo può essere fruito da un ente di terzo settore come precondizione per poter accedere a un grant filantropico, oppure voluto dalla stessa organizzazione magari investendo risorse proprie oltre a quelle messe a disposizione da parte di altri attori. L’intensità della “spintarella gentile” (nudge) potrebbe probabilmente sortire impatti diversi. Da questo punto di vista si potrebbe prevedere, ad esempio, un potenziamento degli sgravi fiscali (credito d’imposta) per soggetti di terzo settore, anche di piccole dimensioni, che si accollano oneri e onori del proprio sviluppo. E inoltre si dovrebbero incentivare i soggetti dell’ecosistema (società di consulenza, think tank, università, ecc.) a dialogare direttamente con i propri committenti e non solo per “interposta persona” cioè attraverso i programmi di accompagnamento delle fondazioni.

C’è infine un’ulteriore e più radicale sfida per “salvare le fondazioni” da un eccesso di interventismo, ovvero ridisegnare le basi del sistema sociale. E’ fuor di dubbio che in questi anni le fondazioni hanno contribuito, con merito, a stendere “la glassa sulla torta” nei loro ambiti di intervento (welfare, cultura, ambiente) ricoprendone gli strati interni composti da beni e servizi standard che solitamente corrispondono all’offerta pubblica e rispetto ai quali, nel migliore dei casi, si è intervenuti per mantenerli in vita, confidando nella capacità di annidamento dell’innovazione sociale. L’impressione è che tutto ciò non stia avvenendo, o almeno non con le aspettative d’impatto previste. Un po’ perché la componente basica dell’offerta di beni pubblici è ormai da anni alle prese con meccanismi di ingegnerizzazione e spending review che la rendono sempre più difficile da “smontare” in un’ottica di cambiamento. Un po’ perché la componente di innovazione sociale ha preferito a volte “rimanere alla larga” rispetto a trasformazioni più profonde limitandosi a costruire nicchie che, non a caso, vengono tacciate di inconsistenza non appena si tratta di “fare sul serio”. Che fare quindi? Forse bisognerebbe prendere il toro per le corna chiedendo alla Pubblica Amministrazione, ma anche alle imprese e al terzo settore più strutturato di trasferire in modo consapevole e complessivo alcuni loro asset e segmenti di offerta affinché possano essere ridisegnati non solo a livello di efficienza della produzione, ma anche e soprattutto a livello di logiche sottostanti e, non da ultimo, di assetti di governance. Ciò significa per tutte le variegate espressioni di innovazione sociale che operano lungo il continuum tra l’informalità radicale e la trasformazione dei modelli capitalistici passando per la società civile organizzata del terzo settore, saper sfidare con le loro capacità di progettazione e gestione missioni che in modo sempre più chiaro e però anche predeterminato intestano le politiche pubbliche e le strategie filantropico-finanziarie, evitando un effetto di trascinamento che, inevitabilmente, porterebbe più all’imitazione che alla trasformazione.

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