Startup
Leggi, innovazioni e lobby: l’Italia è un paese per startup?
Un fenomeno esotico nato nella Silicon Valley o reale possibilità di risollevare le sorti dell’economia italiana, per tradizione basata sulla piccola e media imprenditoria? Per ora è difficile dare una risposta a questa domanda, ma di sicuro di startup in Italia si è parlato molto negli ultimi anni: si sono creati network, siti e fondi di investimento, la politica se n’è occupata e perfino il piccolo schermo ha rivolto il suo sguardo a questa rete di imprese che, secondo l’Osservatoria Cerved – Italia Startup, ad oggi risultano essere oltre 3 mila, regolarmente iscritte alla sezione speciale del Registro delle Imprese, delle quali 1.256 sono nate nel solo 2014 (+36% sul 2013).
Le “startup” operano prevalentemente nell’informatica e nella ricerca scientifica, con un buon numero che si occupa di meccanica e produzione di beni hi-tech. Principalmente (57%) sono dislocate al Nord, il 21% si trova al Centro e il 22% al Sud. Trento è la provincia a più alto tasso di innovazione: 6,6% di società innovative rispetto al totale delle società di nuova costituzione. Le startup italiane, però, non sono solo il sogno di qualche giovane imprenditore (oltre la metà dei fondatori ha meno di 35 anni) o aspirante tale ma anche una fonte di impiego in un’Italia divorata dalla disoccupazione: dai dati dell’ultimo rapporto InfoCamere si evince che nel 2015 sono oltre 20mila le persone che lavorano nelle startup, in media tre per ogni impresa, il 30% in più rispetto al 2014.
Nell’ottobre del 2014 secondo il Registro delle Imprese le startup italiane che fatturavano dal milione di euro in su erano 35. L’ecosistema, dunque, si sta sviluppando e sta facendo crescere le proprie radici in un terreno sempre più fertile di investimenti: stando al rapporto di Italia Startup Who’s Who nel 2014 sono stati investiti ben 118 milioni di euro nelle startup hi- tech italiane. Mentre secondo Startup Italia nei primi tre mesi del 2015 si sono contati 29 investimenti di venture capitals per un totale di 33,96 milioni di euro.
Ma chi investe? Business angels, family office e venture incubator privati e istituzionali. Sempre secondo Who’s Who gli investitori italiani sono oltre cento. I maggiori e più conosciuti sono H-Farm di Riccardo Donadon a Treviso, Digital Magics di Enrico Gasperini a Milano, Industrio Ventures a Trento, D-Pixel del celebre shark Gianluca Dettori, Nuvolab di Francesco Inguscio a Milano, United Ventures di Massimiliano Magrini e Paolo Gesess e la più istituzionale TIM Ventures, primo Corporate Venture Italiano. Tutto questo ha portato a ben sette exit di successo solo nei primi sei mesi del 2015 (dati Startupitalia) a partire da quella del ventenne Gianluigi Parrotto che ha venduto la sua GPRenewable, che produce turbine eoliche ad asse verticale, ad un fondo statunitense per 5,5 milioni di euro. Fino a qui sembra quasi di aver raccontato la favola di una piccola – e giovane – parte dell’Italia che lavora, inventa, rischia, si muove e in qualche modo genera guadagni, ma per avere il quadro completo occorre analizzare anche il quadro normativo entro il quale tutto ciò avviene.
Sono passati ormai tre anni dalla Legge 221 del 2012, varata dal Governo Monti per regolamentare la materia e dare un impulso all’innovazione italiana, che è stata modificata e aggiornata negli anni dalla Legge 99 del 2013 e dalla Legge 33 del 2015. Ad oggi si definisce “startup innovativa” una società di capitali (Srl, Spa, Sapa) che ha quale oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico.
La società che voglia essere riconosciuta come startup e quindi iscritta nell’apposito elenco del Registro delle imprese, inoltre, deve essere nata da meno di 5 anni, non aver distribuito utili ed essere residente in Italia o avervi almeno una sede operativa qualora sia nata in un paese dell’UE. Per quanto riguarda i cosiddetti Requisiti alternativi, la startup innovativa deve possederne almeno uno tra questi: sostenere spese di ricerca e sviluppo in misura almeno pari al 15% al costo o al valore dell’intera produzione; impiegare, come dipendenti o collaboratori, personale altamente qualificato; essere titolare o depositaria o licenziataria di almeno un brevetto, un marchio, un modello di un’invenzione industriale, biotecnologica, una varietà vegetale oppure di un programma per computer o elaboratori in generale.
Le maglie della rete che circoscrive il sistema startup, dunque, sono piuttosto strette, ma una volta entrati nell’ambito recinto si ha diritto a diversi privilegi. Innanzitutto a partire dal 2015 si è stabilito che la startup si possa costituire anche senza atto del notaio e sia sufficiente la semplice firma digitale dei soci. Questo tipo di società sono inoltre esenti dal pagamento delle imposte di bollo e godono di un regime fiscale relativamente di favore e una disciplina del lavoro su misura. Per le startup è prevista dalla legge anche la possibilità di remunerare i propri collaboratori con stock options e di raccogliere capitali tramite crowdfunding.
Ma davvero la vita degli “startuppari”, come vengono definiti in gergo, è tutta in discesa? Abbiamo chiesto a due esperti legali che seguono diverse startup italiane lungo tutto il loro percorso, di raccontarci quali sono i problemi e le difficoltà quotidiane. Entrambi sono concordi nel dire che, dal punto di vista normativo quello che è stato fatto dal 2012 al 2015 rappresenta un buon punto di partenza e pone l’Italia all’avanguardia in Europa rispetto alla tematica delle startup, soprattutto considerato un certo disinteresse delle istituzioni verso questo fenomeno prima dei provvedimenti del Governo Monti.
A fronte di questa apertura verso la modernizzazione del modo di fare impresa, però, la burocrazia rimane eccessiva: la semplificazione è solo “nominale”, in realtà, spiega Massimo Simbula, avvocato, “le norme innovative confliggono con altre leggi preesistenti e mancano di adeguamento pratico” e ciò rende i processi inevitabilmente più farraginosi del dovuto. Per esempio: la riduzione dei costi prevista dalla legge viene meno già nel momento in cui si deve passare dal notaio per cambiare lo statuto. Massimiliano Caruso, legale specializzato nel settore, fa calcoli più precisi: «Per ottenere una licenza edilizia servono in media 233 giorni, ossia otto mesi (che diventano dieci, se si considera che in una settimana si lavora 5 giorni su 7). Affinché una delle numerose società che si affannano nella contesa del mercato dell’energia si degni di concedere un allacciamento alla rete elettrica passano 124 giorni (quattro mesi). Il pagamento di tutti i balzelli tributari, che rendono l’Italia anticompetitiva dal punto di vista fiscale, richiede ben 269 ore di lavoro».
Confrontarsi con queste tempistiche quando si è a capo di un progetto che può essere promettente, ma deve fare i conti con player provenienti da tutto il mondo che si muovono in maniera molto più snella, può determinare il fallimento. L’Italia, ancora una volta, deve fare i conti con la sua mancanza di competitività: ci piazziamo al 49° posto nell’ultimo global Competitiveness Index, come spiega ancora Caruso, dopo Paesi come l’Estonia (29°), Porto Rico (32°), il Cile (33°) e l’Azerbaijan (38°). Un peso che condanna ormai da decenni il nostro Paese ad essere poco attrattivo per gli investimenti. Caruso spiega che per quanto riguarda i possibili investimenti dei Venture Capital internazionali nelle startup italiane “dal punto di vista prettamente giuridico, un punto di sfavore è rappresentato dal nostro sistema societario, profondamente diverso da quello adottato dai sistemi di common law: spesso l’investimento di un fondo internazionale richiede la pianificazione di sovrastrutture societarie”. Una complicazione che spesso scoraggia gli investitori.
Per gli stranieri investire nelle startup italiane rimane proibitivo, anche per la burocrazia e per le norme legali che prevedono che qualsiasi controversia pendente sia risolta in Italia, precisa Simbula. Un Paese a due velocità, quindi: da una parte il legislatore, dall’altra i giovani che vogliono fare impresa. «Nella situazione di crisi in cui ci troviamo, con il sistema economico che si sta modificando radicalmente, non si può rimanere ancorati a vecchie norme», rincara la dose Simbula. «Se l’innovazione italiana viaggia a 100 km/h, la legge viaggia a 10 km/h e rallenta eccessivamente lo sviluppo. Si dovrebbe fare di più, sostituire la vecchia logica di diffidenza verso gli imprenditori con una maggiore apertura che consenta loro di essere al passo con i tempi».
Caruso concorda perfettamente sul bisogno di “sovvertire lo schizofrenico modus operandi del nostro legislatore. Da un sistema basato sul prevedere cosa un soggetto può fare e come deve essere fatto, bisognerebbe passare ad un sistema che si limita a dire quello che non può essere fatto, lasciando totale autonomia all’imprenditore su come fare il non vietato”. “Il sistema Paese deve mirare ad una maggiore competitività internazionale”, conclude Caruso, evidenziando il vero nodo di una questione che non riguarda solo le startup. Lo stesso Caruso è del parere che «le deroghe alla normativa societaria e le agevolazioni avrebbero potuto essere più spinte. Anche se, in linea di massima, la legislazione in materia è ben percepita da startupper ed investitori. Il malcontento regna sovrano soprattutto tra coloro che non hanno la possibilità di far assumere alla propria startup la veste di startup innovativa e tra pochissime startup innovative: quelle maggiormente internazionalizzate ed evolute, alla ricerca di maggior flessibilità».
Le agevolazioni, dunque, fanno gola anche a chi rimane ai margini del sistema delle startup innovative ma avrebbe comunque la volontà di fare impresa. A questo proposito Caruso ha le idee ben chiare: “L’innovazione non è un qualcosa che può essere imbrigliato. Non si può cucire una veste specifica da far indossare a chi ha le misure adatte”. Quindi innanzitutto via i requisiti accessori: non si può valutare il grado di innovazione in base a quanta parte del fatturato si investe in ricerca, a quanti laureati sono assunti o a quanti brevetti si possiedono. «Toglierei, poi – spiega Caruso – il riferimento al necessario ‘alto valore tecnologico’ dall’oggetto sociale, limitandomi a chiedere un oggetto sociale che miri allo sviluppo e alla commercializzazione di prodotti o servizi innovativi». La regolamentazione in materia di imprese innovative, dunque, non è tutta da buttare, ma sicuramente si percepisce la necessità di una maggiore apertura e una minore rigidità burocratica. Rimanere ancorati a vecchi schemi in un mondo che corre sempre più veloce può rappresentare una zavorra mortale.
In conclusione risulta ancora difficile rispondere alla domanda posta in apertura: startup sono un sogno o saranno la salvezza del Paese? La verità, probabilmente, sta nel mezzo. Quello che più importa, però, è che questo mondo fatto di giovani che viaggiano, studiano all’estero, incontrano e conoscono grandi realtà internazionali, abbiano mosso le acque e fatto rumore, mettendo in imbarazzo i difensori di un sistema ormai obsoleto.
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