Startup
L’ecosistema italiano per le start up sta prendendo velocità
Il sistema economico che ruota attorno alle startup italiane sta acquisendo progressivamente consistenza, ma è ancora molto acerbo, soprattutto se paragonato a quello di altri Paesi. Le cifre degli investimenti a beneficio delle startup stanno diventando sempre più ragguardevoli. Nel 2015 StartupItalia e Finsmes hanno contato investimenti per quasi 98 milioni di euro per un totale di 74 operazioni che vanno dai seeding iniziali di 100mila euro al round C di finanziamento da 16milioni di euro che si è aggiudicata MoneyFarm nel 2015.
Da chi arrivano questi soldi?
Sicuramente in gran parte dall’estero: per esempio, una cospicua percentuale del finanziamento arrivato a MoneyFarm è arrivata da Cabot Square Capital, un fondo di investimenti inglese. Il fenomeno startup, però, sta diventando sempre più interessante anche nel Bel Paese, tanto da aver attirato addirittura l’attenzione di un gigante statale come Cassa Depositi e Prestiti, società controllata dal Tesoro che gestisce la raccolta del risparmio postale.
Lo scorso dicembre la Cassa Depositi e Prestiti ha approvato il piano industriale 2016-2020 che prevede la messa a disposizione di risorse per 160 miliardi a supporto della crescita del Paese. Di questi, 117 miliardi di euro, circa il 73% in più rispetto all’anno precedente, saranno destinati a sostenere le imprese lungo tutto il loro ciclo di vita. Cdp, dunque, si conferma il principale venture capital d’Italia.
In prima fila c’è anche un’altra iniziativa statale: Invitalia, Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, di proprietà del Ministero dell’Economia. L’agenzia ha dato vita a Invitalia Ventures, la società di gestione guidata da Salvo Mizzi che gestisce il fondo Italia Venture I, con un capitale di 50 milioni di euro provenienti dal ministero dello Sviluppo economico e sottoscritti interamente da Invitalia.
Il Fondo opera solo in co-investimento con operatori privati, fino ad un massimo del 70% di ogni singolo round di investimento. A settembre 2015 è stata aperta la call per l’adesione all’investor network alla quale hanno aderito i più importanti ventures italiani e alcuni colossi internazionali come Keytone e Truffle.
Della squadra fanno parte fondi di investimento, incubatori e business angels che formano gran parte del tessuto di investitori italiani. Tra i più noti al grande pubblico ci sono sicuramente DPixel di Gianluca Dettori, lo squalo di Shark Tank, la United Ventures di Francesco Magrini, H-Farm Ventures di Riccardo Donadon e Digital Magics, fondata dal compianto Enrico Gasperini.
Alberto Fioravanti, fondatore e presidente Esecutivo di Digital Magics, parla dell’Italia come di un Paese rimasto indietro rispetto ad altre Nazioni in cui il sistema di business angel è decisamente più evoluto, ma che offre alle startup anche grandi opportunità. «Nel 2015 gli investimenti istituzionali sono diminuiti dell’8% – spiega Fioravanti – mentre i finanziamenti da Business Angels sono aumentati del 32% arrivando a 133 milioni di euro».
Certo, si parla ancora di cifre irrisorie se paragonate a sistemi come quello americano, in cui un solo round di investimento spesso si aggira intorno ai 100 milioni, ma qualcosa si sta muovendo. «Nel 2008 – racconta Fioravanti – io e Gasperini ci siamo resi conto che mancava completamente, in Italia, un supporto che aiutasse gli imprenditori, o aspiranti tali, a passare da un power point ad una vera azienda, dunque ci siamo messi al loro servizio».
Il modello di Digital Magics è “work for equity”, come per molti altri investitori, e ha come obiettivo quello di aiutare le startup a rendersi autonome, a maturare e ad avere un team di lavoro ben strutturato. Insomma, di passare dall’essere un’idea all’essere un’azienda.
Cosa ne pensano gli startupper italiani
Una delle startup che è riuscita nell’impresa di fare il salto e diventare una vera e propria impresa, è Musement: lanciata nel 2013 a Milano da Claudio Bellinzona, Paolo Giulini, Alessandro Petazzi e Fabio Zecchini, è ormai prossima a superare brillantemente il fatidico traguardo dei primi tre anni.
Claudio Bellinzona, uno dei co-founders, racconta come il primo round di finanziamento sia arrivato alla fine del 2013 con un seeding di 1.3 milioni di euro da parte di 360 Capital, Micheli & Partners e IAG (Italian Angels) che ha permesso a Musement di far partire il business e raccogliere un secondo round di 5 milioni di euro, con gli stessi finanziatori insieme a P101, a inizio 2015.
L’esperienza di Musement è particolare: «Rispetto ad altre realtà che si affacciano ai grandi investimenti, nel nostro caso la differenza credo l’abbia fatta la nostra esperienza: tutti noi proveniamo da almeno 10 anni come professionisti – racconta Claudio – abbiamo le idee chiare per quanto riguarda il business plan e la capacità di “cambiare in corsa” valutando di volta in volta le scelte più convenienti».
Il loro progetto, che ora è diventato realtà e conta circa 50 persone che ci lavorano, deve aver convinto gli investitori. “È stato un processo abbastanza lineare – spiega ancora Bellinzona – che ci ha portati dal pitch alla valutazione del business plan e alla conseguente decisione degli investitori”.
L’esperienza di Musement è positiva, Claudio riconosce che «gli investitori e i business angels italiani sanno mettere a disposizione i propri contatti, favorendo sinergie positive che portano alla creazione di un vero e proprio ecosistema all’interno del quale le imprese possono crescere agli alti ritmi che vengono richiesti dal settore, con un guadagno per tutti».
Diversa l’esperienza di Zikkio, una piattaforma che mette in comunicazione gli ecommerce e i distributori, facendo sì che i cataloghi di questi ultimi siano facilmente importabili all’interno dei siti dei rivenditori e che si possano saltare tutta una serie di passaggi tecnici che rendono difficile la sincronizzazioni tra chi distribuisce i prodotti e chi li vende online.
«Il nostro obiettivo è quello di far sì che in futuro sia possibile aprire un ecommerce con due semplici clic», raccontano Paolo Morello e Ivan Candela, due italiani che hanno deciso di basare la propria startup a Londra. «Abbiamo scelto il Regno Unito per motivi organizzativi – spiega Paolo Morello – e perché da qui l’accesso ai mercati internazionali è più facile».
Tra i fattori che hanno influenzato la scelta, però, c’è stata anche la maggiore apertura nei confronti delle startup: «Qui in UK – racconta Paolo – ti stupisce come, già all’inizio, ci siano molte agevolazioni, a partire dalla banca che ti garantisce un finanziamento senza nessun tipo di garanzia, se dichiari di voler aprire una startup. Anche se adesso la stretta nei confronti di chi non è cittadino britannico inizia a farsi sentire».
Paolo ha le idee chiare sul mondo dei finanziatori italiani: «È risaputo che i finanziamenti in Italia siano più esigui che altrove. Noi abbiamo rifiutato un round di che ci avrebbe garantito circa 30 mila euro in cambio di un ingresso in equity per cui, a quello stadio di sviluppo del progetto, avremmo dovuto prendere almeno 100 mila euro».
«In Italia – prosegue Morello – è più facile ricevere finanziamenti anche per progetti traballanti, appena all’inizio e spesso senza possibilità reali di sviluppo, ma le cifre sono troppo esigue per chi ha un business model ben definito e una startup ad un buon livello di avanzamento».
E all’estero? «Contattare gli investitori è più facile, c’è più disponibilità e le cifre sono decisamente più significative, ma la selezione è più alta, per accedere ai finanziamenti devi avere requisiti migliori», spiega Paolo. La facilità di accesso ai finanziamenti, insieme alla limitatezza delle cifre, rischia di trasformarsi in un boomerang pericoloso per chi decide di dar forma alla propria idee senza un progetto ben definito, ma anche per l’intero sistema che spreca risorse frazionando gli investimenti.
Le difficoltà tuttavia non mancano, secondo i dati diffusi sempre da Digital Magics, gli investimenti in venture capital in Italia rappresentano meno dello 0,002% del PIL, esattamente un decimo della media europea che è dello 0,024 per cento.
Nonostante questo, però, ci sono spazi di crescita. «L’Italia sta compiendo un lento ma inevitabile processo di digitalizzazione – spiega ancora Fioravanti – le aziende più tradizionali possono essere supportate, in questa fase, dalle startup che, quindi, possono assumersi l’incarico di colmare un gap in cui altrimenti si potrebbero infilare investitori stranieri». Le startup tecnologiche possono supplire alle mancanze di un sistema un po’ antiquato, che fatica a mettersi al passo coi tempi e, allo stesso tempo, usufruire della solidità del tessuto imprenditoriale tradizionale italiano.
Le eccellenze del made in Italy, con il boost tecnologico dello startup nostrane, potrebbero creare un ecosistema completamente nuovo, dagli sviluppi tanto imprevedibili quanto positivi. Si creerebbe così un circolo virtuoso per l’intero sistema imprenditoriale italiano.
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