Sindacati
Smart working: piace ai lavoratori, ma…
Interviste a Riccardo De Angelis, RSU TIM Roma, Cobas e Paolo Plona, RSA Verti Assicurazioni Milano, Fisac CGIL
Che atteggiamento hanno avuto in questi mesi i lavoratori costretti dalla pandemia a lavorare da casa? E questo atteggiamento è cambiato col passare dei mesi? E le aziende? Hanno fatto resistenza o colto con favore la novità? E infine come fa il sindacato a tutelare i lavoratori quando questi non lavorano più tutti sotto lo stesso tetto, ma ciascuno seduto davanti a un terminale a casa propria? Sono alcune delle domande che abbiamo posto a due delegati sindacali che lavorano nelle due maggiori città italiane e che in questi mesi si sono confrontati direttamente con le conseguenze pratiche della nuova organizzazione del lavoro.
A Roma un gruppo di lavoratori, delegati sindacali e ricercatori ha approfittato dell’occasione fornita dal massiccio ricorso allo smart working imposto dalla pandemia per effettuare un’inchiesta sul campo. I dati raccolti con un questionario riguardano oltre mille lavoratori, in particolare a Roma e nel settore delle telecomunicazioni, verranno analizzati, pubblicati e presentati pubblicamente nei prossimi mesi e forniscono alcuni spunti di riflessione su un fenomeno che in alcune aziende era già da tempo in fase di sperimentazione. Ne parliamo con Riccardo De Angelis, RSU della TIM a Roma ed esponente dei Cobas, tra i promotori dell’inchiesta.
Chi ha promosso l’inchiesta e come e quando vi è venuta l’idea?
L’inchiesta è stata promossa dal Coordinamento Lavoratori Autoconvocati, un gruppo di lavoratori e di delegati con appartenenze sindacali diverse presente, oltre a Roma, in parecchie città italiane. E’ un collettivo che nei periodi di mobilitazione dei lavoratori tende a crescere intervenendo nelle vertenze, mentre nei periodi di riflusso rimane come gruppo di riflessione ed elaborazione più teorica. Nel coordinamento sono presenti anche alcuni ricercatori dell’ANPAL, l’Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro. Io invece sono un RSU della TIM e ho a che fare con lo smart working da tempo, perché la nostra azienda lo sta sperimentando da 4-5 anni e perché col Covid, un po’ per necessità e un po’ per scelta, si è diffuso nei settori più facilmente remotizzabili. In ogni caso solo due terzi dei questionari che abbiamo raccolto riguarda lo smart working conseguente alla pandemia. Un terzo era lavoro che era già stato remotizzato. L’incrocio tra la mia esperienza concreta e la disponibilità di chi fa ricerca sul lavoro ha fornito l’opportunità e i mezzi per strutturare questa inchiesta.
Nel complesso che immagine hanno i lavoratori dello smart working?
Nell’immaginario collettivo dei lavoratori è forte l’idea che sia tutto rose e fiori. I dati che abbiamo raccolto riflettono la percezione di questo mondo apparentemente dorato, ma allo stesso tempo fanno emergere che se fai le domande giuste questi lavoratori ne percepiscono anche gli aspetti negativi. L’inchiesta indaga sia gli aspetti indubbiamente positivi sia le controindicazioni del lavoro da casa.
Hai parlato di smart working e di ‘lavoro remotizzato’. Che differenza c’è?
Lo smart working è una condizione saltuaria e soprattutto volontaria, mentre lavoro remotizzato significa tutti a casa e si lavora da lì come se fossi in azienda. Noi però nell’inchiesta non abbiamo chiarificato il fatto che si tratti di due condizioni diverse e del resto non è una distinzione di cui ci sia consapevolezza nei luoghi di lavoro.
Dicevi che in generale la percezione immediata è positiva…
Sì, poi però se fai delle domande più approfondite le contraddizioni vengono a galla. Siamo partiti chiedendo se il lavoro da casa porta via più tempo e soltanto il 20% ha risposto di sì. Alla domanda successiva, se porta via più energie, ha risposto di sì il 30%. Ma quando all’ultima domanda abbiamo chiesto se sono aumentati i ritmi di lavoro ce lo ha confermato quasi il 50% del campione.
Quindi la vostra iniziativa rientra nella tradizione dell’inchiesta politica, cioè l’obiettivo non è solo raccogliere dati, ma anche stimolare la consapevolezza?
Sì, ma è anche un’iniziativa alimentata da motivazioni molto pratiche. Come RSU la prossima settimana mi aspetta una trattativa proprio sullo smart working e portare al tavolo dei dati scientifici per me significa anche avere degli argomenti in più da spendermi.
Oltre mettere insieme le risposte alle domande a cui accennavi avete anche scorporato i dati in base alle caratteristiche dei lavoratori e delle aziende. Quali sono gli aspetti più interessanti che se ne possono ricavare?
Un aspetto su cui stiamo ragionando è che quanto meno a giudicare dai posti di lavoro dove siamo presenti lo smart working è uno strumento applicabile soprattutto a contesti di lavoro dipendente caratterizzati da processi ben strutturati, con personale prevalentemente a tempo indeterminato. Sono aziende perlopiù grandi e sindacalizzate come la mia. Se consideriamo il settore dei call center invece aziende come Comdata e Visiant all’inizio della crisi non volevano adottare il lavoro da casa e inizialmente ci sono riuscite, facendo leva sul fatto che la loro attività è stata riconosciuta come essenziale. In seguito, di fronte al rischio di focolai tra i dipendenti, prima hanno chiesto la cassa integrazione e poi sono state costrette ad adeguarsi e a remotizzare il lavoro, ma quando ce n’è stata la possibilità sono state tra le prime a far rientrare il personale in sede. La ragione di questo atteggiamento è che sono aziende che per la natura dei servizi che svolgono hanno bisogno di un controllo più stretto sui dipendenti e fanno leva sulla sollecitazione gerarchica degli operatori. E ciò richiede che questi e le gerarchie aziendali rimangano a stretto contatto.
Ci saremmo aspettati una percezione più negativa da parte delle lavoratrici, che sono soggette alla sovrapposizione del lavoro aziendale e di quello domestico, tanto più che nei due mesi di lockdown le scuole sono rimaste chiuse. Invece ci pare che questo aspetto non venga registrato dai dati che avete raccolto, non in modo significativo almeno.
No, non emerge, a mio avviso per due motivi. Il primo è che quelli che hanno risposto al nostro questionario erano all’incirca metà donne e metà uomini e tra gli uomini c’è una maggiore, diciamo così, astuzia nel rispondere. D’altra parte pesa anche il fatto che su 1024 lavoratori e lavoratrici che hanno risposto al questionario soltanto il 40% ha dichiarato di avere minori in famiglia.
Una delle riflessioni che abbiamo fatto nei mesi scorsi discutendone nella redazione è che lavorando a casa di fatto l’orario di lavoro tende a perdere significato, una sorta di ritorno al cottimo. Molti enti di formazione aziendale sottolineano che con lo smart working bisogna insegnare ai dipendenti a ‘lavorare per obiettivi’.
Credo che il ritorno a forme che ricordano il cottimo sia una tendenza generale, ma sull’equivalenza tra lavoro remotizzato e cottimo ci andrei più cauto, perché dipende molto dalla situazione concreta. L’idea che lavorando a casa sparisca la routine dell’ufficio e che uno si gestisca da solo è vera in parte, soprattutto per i livelli contrattuali più alti, ma per molti versi è propagandistica. Per le mansioni inferiori in realtà c’è già da tempo una pressione a introdurre forme di controllo e misurazione scientifica dei tempi, in stile Tmc-2. Questo metodo di regolazione dei ritmi di lavoro, introdotto a partire dal 2001 e in Italia adottato dalla FIAT, è stato sperimentato anche nel settore delle telecomunicazioni. Alla TIM, la mia azienda, esiste la cosiddetta ‘timbratura in postazione’. Significa che per alcuni dipendenti l’orario di lavoro inizia nel momento in cui accendono il computer, non quando entrano in sede. E c’è una forte pressione da parte di Confindustria per allargare questa pratica, tant’è che questo è uno degli aspetti sui cui si è arenato il rinnovo contrattuale delle TLC. E’ un tema tanto delicato che anche i sindacati confederali non se la sentono di cedere su questo terreno. E’ chiaro che il lavoro da remoto è soggetto allo stesso tipo di pressione.
Come è cambiato fare sindacato nell’era dello smart working?
Ovviamente ci sono molti problemi e tra le principali ragionic’è il fatto di essere distanziati. L’isolamento sociale fa insorgere anche problemi di comprensione tra lavoratori, perché i filtri che si interpongono tra l’uno e l’altro sono oggettivi. Noi ci siamo dovuti attrezzare perché la TIM ha colto la palla al balzo per spingere sull’acceleratore rispetto a un tipo di organizzazione che, come dicevo, stava già sperimentando e il risultato è stato che mai abbiamo prodotto tanti incontri e accordi come in questi mesi. Le trattative toccano anche temi molto delicati come l’utilizzo dell’intelligenza artificiale e i sistemi di controllo individuale e per questo è stato necessario industriarsi per cercare comunque dei momenti di confronto coi colleghi. Lo abbiamo fatto ricorrendo anche noi alle assemblee virtuali in videoconferenza, non senza difficoltà, perché c’è una diffidenza, anche giustificata, da parte dei lavoratori. Le riunioni virtuali di fatto sono aperte e i lavoratori ci fanno notare che non sai chi partecipa all’assemblea. Questo da una parte crea un clima che non è lo stesso di una riunione in carne e ossa e dall’altra alimenta dei timori. Tieni presente che veniamo da una stagione di lotta nel biennio 2016-2017, in cui abbiamo dovuto affrontare una pioggia di provvedimenti disciplinari perché l’Azienda andava a leggere quello che i dipendenti scrivevano sui social.
Avete altre iniziative o inchieste in programma?
Abbiamo lanciato, questa volta insieme ad altri soggetti, una ricerca analoga sul lavoro di cura e le badanti. Per quanto riguarda lo smart working in questa fase stiamo valutando i dati insieme ai compagni che lavorano all’ANPAL. L e valutazioni che faremo insieme finiranno in un documento ed è probabile che dopo l’estate faremo delle vere e proprie iniziative di presentazione dei risultati.
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Da Roma ci spostiamo a Milano e dalle telecomunicazioni alle assicurazioni online, ma l’osservazione della realtà, questa volta senza il filtro di un questionario, ci conferma sostanzialmente i risultati dell’intervista precedente: la reazione dei lavoratori al lavoro da casa in generale è positiva ma articolata, quella delle aziende dipende molto dal tipo di attività svolta. E’ quanto ci conferma Paolo Plona, delegato milanese della Fisac CGIL alla Verti Assicurazioni.
Qual è stato l’impatto della pandemia sul lavoro nella vostra azienda e che lavoro fate?
Io lavoro e sono delegato di Verti Assicurazioni, una compagnia assicurativa del gruppo spagnolo MAPFRE, che in Italia opera nel settore RC Auto. Devo dire che, apparentemente, la questione del Covid-19 e il relativo lockdown nel nostro caso non hanno creato grandi sconvolgimenti. In altri settori i danni derivanti dalla fermata delle attività produttive, sia in termini salariali che occupazionali, sono stati ben peggiori. Per quanto ci riguarda a inizio marzo tutta l’azienda è stata messa in ‘telelavoro’ e ha proseguito le sue attività senza particolari cambiamenti rispetto alla situazione normale. A oggi continuiamo a lavorare così e dalle ultime notizie dovremmo rientrare in sede a partire dal 15 settembre.
E sull’azienda?
L’azienda per ora va a gonfie vele, c’è più lavoro di prima. Ovviamente i dati di bilancio, a oggi, risentono del mese e mezzo circa in cui, essendo tutto fermo, nessuno stipulava polizze, Ma a fronte di questo da un lato per circa due mesi c’è stato l’80% di sinistri in meno rispetto alla norma, dall’altro il ‘rimbalzo’ della fase 2 e 3 ha fatto sì che in parte si stiano recuperando i premi persi a marzo e aprile. Stiamo lavorando più che nei mesi precedenti al lockdown, in parte perché la crisi spinge la gente a cercare di risparmiare sulle assicurazioni, ma anche per altre ragioni. Insomma, è presto per trarre conclusioni, ma a mio avviso la nostra dirigenza avrà poco da piangere miseria. Salvo, ovviamente, sorprese nei prossimi mesi.
Come sindacato che atteggiamento avete espresso rispetto alla nuova modalità di lavoro?
Anche se già da fine febbraio era chiaro che il lavoro ‘da casa’ sarebbe stato l’unica forma di lavoro tutelante e sostenibile, come sindacato siamo sempre stati abbastanza scettici sulla questione dello smart working, almeno per quanto riguarda il suo utilizzo fuori dal contesto dell’emergenza sanitaria. Inutile sottolineare che tutti gli studi sull’argomento dimostrano che il lavoratore in smart working alle aziende consente un notevole aumento di produttività, dovuto sia a fattori ‘oggettivi’ – nessun ritardo accumulato negli spostamenti da casa all’ufficio, viene meno la socialità tra colleghi, la pausa caffè, si riducono le assenze per malattia – sia a fattori ‘soggettivi’ – lavori di più perché l’azienda ti ‘permette’ di stare a casa. Ma non è solo l’aumento dei ritmi che ci preoccupa, quanto la perdita di contatto con l’ambiente di lavoro, coi colleghi, e in una certa misura, purtroppo, anche col sindacato. Per qualsiasi problema, in qualsiasi contrasto, il lavoratore è più isolato e solo di fronte all’azienda. Da questo punto di vista credo che gli aspetti peggiori della modalità del lavoro ‘agile’, con le relative conseguenze, non si siano ancora del tutto rivelati. Ma possiamo già vedere il processo all’opera: dalle pressioni quotidiane dei capi verso i sottoposti ai problemi di natura organizzativa che dobbiamo affrontare come sindacato e che vanno dalla semplice comunicazione a colleghi e iscritti alle future scadenze contrattuali da gestire.
Lo smart working da voi era già presente prima del covid-19 o siete stati costretti a introdurlo a seguito della pandemia?
Lo smart working pre-Covid da noi era un’opzione ‘concessa’ a pochissimi colleghi, perché è una modalità di lavoro che certo non si adatta a turnisti e lavoratori delle frontline, sottoposti come sono a orari rigidi e uno stretto controllo da parte dei capi. L’azienda ha dovuto ‘digerire’ con molte riserve il fatto che a tutti venisse dato il PC da portare a casa e che l’attività lavorativa da marzo sia stata organizzata da remoto. Ci è arrivata anche impreparata, costretta a una brusca accelerazione dal fatto che sembrava avessimo un caso di contagio tra i dipendenti, e nella prima settimana i lavoratori si sono dovuti arrangiare utilizzando computer e connessioni proprie e addirittura organizzandosi con chat su WhatsApp per risolvere i problemi provocati da quest’accelerazione improvvisa e inaspettata. Ora però ci sembra che l’azienda cominci a vedere i ‘benefici’ di cui parlavo prima, primo tra tutti l’aumento di produttività, per cui non dubitiamo che farà tesoro di questa esperienza per usarla, ovviamente, a suo favore. Molti lavoratori però non vedono questo rischio. Si limitano a cogliere gli ‘aspetti positivi’ del lavoro da remoto. A nostro parere, comunque, a pesare maggiormente saranno le conseguenze negative derivanti dalla frammentazione e dall’isolamento a cui tutti di fatto sono stati sottoposti, sia in termini sindacali (contrattazione e organizzazione dei lavoratori) sia in termini personali (socialità, scambi con i colleghi, ecc.).
Dall’inizio a oggi l’esperienza concreta del lavoro a casa non ha portato qualche lavoratore a rivedere il proprio giudizio?
E’ un fenomeno che è emerso, ma, devo dire, in misura inferiore al previsto. Lavorare da casa è indubbiamente alienante, a mio avviso più che in ufficio, ma molti colleghi lo vedono come una cosa positiva. Tuttavia ci sono posizioni contrastanti. I colleghi a tempo pieno sono più critici perché subiscono maggiormente gli aspetti negativi e sono costretti ad attenersi ai ritmi imposti dai propri turni senza potersi gestire come meglio credono. I ritmi imposti dall’attività lavorativa non ti lasciano alternativa: se entrano mail e telefonate vanno gestite nei tempi previsti dalle regole aziendali. Chi invece lavora part-time tende maggiormente a vedere lo smart working in modo positivo, ad apprezzare il tempo risparmiato perché non deve raggiungere il posto di lavoro e che magari può trascorrere coi figli. Aspetti a cui si somma questa passione a mio avviso insana di chiudersi in casa, che il lockdown in qualche misura ha alimentato.
Un altro aspetto è la condizione delle lavoratrici, costrette a lavorare a casa coi figli che seguivano le lezioni a distanza, più il consueto carico del lavoro domestico. Come hanno reagito?
Questo da noi è un aspetto rilevante, perché siamo un’azienda con una presenza femminile preponderante, circa il 75%, e tante sono lavoratrici madri, quindi, dal punto di vista sindacale, coi problemi normalmente connessi a questa condizione: figli da accudire e quindi necessità di permessi e altre agevolazioni. Ma anche in questo caso le opinioni sono le più diverse, ci sono colleghe che vorrebbero andare avanti col lavoro da casa e altre che invece stanno impazzendo e non vedono l’ora di rientrare in azienda.
In sostanza mi pare di capire che la pandemia potrebbe determinare atteggiamento aziendale diverso da quello di iniziale diffidenza.
In generale possiamo dire che le dinamiche messe in moto dalla crisi del Covid-19 sono, in buona parte, la repentina accelerazione di processi già in corso da tempo. La sempre maggiore digitalizzazione, che ormai riguarda tutti i settori, nessuno escluso, in questi anni aveva già provocato sostanziali modifiche nella nostra attività lavorativa, con una quota crescente di attività in gestione diretta sul web, una perdita netta di posti di lavoro e una riduzione dei salari.
Ovviamente la crisi non peserà su tutti in egual misura. Anche nel nostro settore il contesto altamente concorrenziale nel quale le compagnie di assicurazione sono inserite determinerà una nuova spartizione delle quote di mercato: qualcuno perderà terreno e profitti e altri si rafforzeranno. Le dinamiche di ogni crisi in effetti in questo senso funzionano come potenti catalizzatori. In generale se qualcuno soccomberà, qualcun altro andrà a stare meglio, prassi assolutamente normale nel capitalismo e ancor di più in un contesto economico dove si attende una riduzione del PIL mai vista su base annua. Ciò detto, a mio avviso occorre evitare qualsiasi tipo di visione catastrofista e demagogica: le conseguenze ci saranno e saranno pesanti, ma la corsa al recupero è iniziata ed è frenetica. Chi lavora ‘in produzione’ lo sa bene: anche nella nostra azienda, la dirigenza preme sulla forza lavoro affinché ‘recuperi’ quanto è stato perso nei mesi del lockdown. Perciò da un punto di vista sindacale si può aprire un periodo molto intenso, dagli esiti niente affatto scontati.
Le intervistesono tratte dalla newsletter di PuntoCritico.info del 14 luglio.
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