Sindacati
La società chiusa e i suoi amici. Quale meritocrazia per il sindacato? #2
Nel precedente intervento mi sono occupato di quel che mi è sembrato un agente ostativo primario al merito in Italia, ossia la famiglia o piuttosto certa sua conformazione antropologico- culturale. I fenomeni del familismo e del familismo amorale hanno molta incidenza nella società italiana come è noto, non ultimo per il semplice fatto che sono stati studiati in vitro proprio sul suolo della Penisola. Essi ci interrogano tuttora con la semplice domanda. Perché? Lo storico Paul Ginsborg nei suoi scritti qui e qui indaga i nostri comportamenti alludendo a una cultura “mediterranea” di fondo. Non è qui il luogo in cui approfondire questo scenario. Avanzo tuttavia l’ipotesi che oltre alla georeferenziazione occorra indicare qualche sfondo mentale aggiuntivo di base (The moral basis of backward society del resto è il titolo originale del libro di Banfield): ossia l’’influenza delll’ethos cattolico sulla coscienza collettiva. In questa prospettiva ha ragione Amalia Signorelli (nel suo saggio sul clientelismo meridionale Chi può e chi aspetta, Liguori, 1983) a enucleare il concetto di isomorfismo sociale ossia di specularità tra la visione del cielo e l’assetto delle cose in terra. Il cattolicesimo a differenza del protestantismo insiste sulla “salvezza vicaria”, non sui propri meriti acquisiti in terra, ma puntando sulla forza di intercessione e di mediazione dei Santi, i quali impetrano presso l’Eterno la grazia e il Paradiso per i loro protetti, raccomandandoli diremmo in linguaggio terreno. Non è un caso che nel linguaggio popolare la raccomandazione venga indicata con la locuzione “averci Santi in paradiso”.
Tutto ciò premesso, in un’ottica di mediatori e di santi protettori, è giunto il momento di trattare l’azione di un altro amico della società chiusa italiana e uno degli agenti sociali più ostili al merito: il sindacato, una organizzazione in sé meritocratica che però ha distrutto il merito laddove ha operato. Premetto che quando dico “sindacato” indico le OO.SS operanti nel settore pubblico allargato compresi gli ex enti pubblici in cui lo stato aveva la maggioranza o il controllo totale del capitale azionario (5-6 milioni di lavoratori secondo le mie stime) e non il sindacato industriale di fabbrica di cui poco so e che tendo a escludere dallo spettro della mia analisi. Ricordo solo incidentalmente che in un articolo sull’Unità del luglio del 2006 un sindacalista e intellettuale raffinato come Bruno Trentin contestò apertamente sia il merito inteso come premio in denaro elargito dalla direzione aziendale ai lavoratori da essa ritenuti “meritevoli”, subodorando che il fine aziendale fosse in realtà quello di “affiliare” i lavoratori ma anche quello, più subdolo, di contrapporli gli uni agli altri per meglio “amministrarli”, sia il merito inteso come «concetto (…) utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori ». Trentin temeva perciò la meritocrazia, ma fece l’errore di ritenere “qualificazione e competenza” contrapposti al merito, quando invece sono proprio le qualità costitutive del merito stesso spesso oltraggiate; ma il suo timore che potesse essere un’entità “superiore” ovvero l’azienda ( e chi altri se no?) a riconoscerla lo indusse a rifiutarla in blocco. E invece sarebbe stato meglio correre questo rischio piuttosto che appiattire per decenni il mondo del lavoro consegnandolo a un egualitarismo mortificante. Ma, ribadisco, dell’azione del sindacato nel mondo della fabbrica, ove molto probabilmente sono prevalse le genuine logiche di rappresentanza del sindacato in un momento di aspre e furiose lotte tra capitale e lavoro, non posso parlare, perché so molto poco e preferisco concentrarmi su ciò che è caduto sotto la mia esperienza diretta di osservatore. Che poi certe “logiche” qui descritte possano valere anche nell’ambito della fabbrica più o meno fordista lo diranno le esperienze dei lettori.
Vorrei introdurre la complessa problematica con la scena di un film canadese: Le invasioni barbariche (2003) di Denys Arcand, una bella meditazione filmica condotta da sinistra sulle illusioni e fallimenti della sinistra. C’è un episodio in questo film in cui un giovane operatore finanziario, si suppone di destra, dai modi spicci e senza scrupoli, cerca inutilmente di fare ricoverare in ospedale il vecchio padre sessantottino gravemente ammalato. Ebbene, il finanziere d’assalto trova un letto per il vecchio genitor perso nei suoi idealismi giovanili solo corrompendo una cricca di sindacalisti (che icasticamente vengono raffigurati mentre giocano a carte come una truppa di lanzichenecchi nell’astanteria dell’ospedale) i quali, dettaglio non da poco, “hanno nelle loro mani” la direttrice dell’ospedale che a un solo cenno del capo ciurma del sindacato trova subito il posto al vecchio sessantottino. Quanto di questa raffigurazione canadese rispecchia la situazione italiana? Per quel che ho osservato io direttamente quella italiana sopravanza ogni immaginazione. Non mi ha sorpreso pertanto rilevare che il Premier attuale abbia scorto l’intermediazione aggressiva del sindacato individuando uno dei punti chiave della sua azione nella società e nelle strutture ove è infiltrato: “In un paese civile non può bastare l’iscrizione al sindacato per fare carriera”, ha dichiarato Renzi. Eppure è ciò che succede tuttora. «Valorizzeremo chi merita, senza guardare alla tessera sindacale», dichiarava giusto ieri al “Corriere” il neopresidente dell’INPS Tito Boeri, con ciò volendo dire che già sa che nel suo Ente la tessera si contrappone al merito.
Innanzi tutto dobbiamo chiederci: come è possibile che il sindacato controlli in maniera così stringente nel nostro film la dirigenza ospedaliera? È un episodio che riguarda solo il Syndicate all’americana di tipo quasi gangsteristico come si vedeva già nel vecchio film Fronte del porto (1954) di Elia Kazan? (nella foto in alto un suo superbo interprete sindacalista violento redento). No, non è un fenomeno che riguarda l’essenza di certo sindacato paracriminale americano, riguarda anche l’Italia. E come è potuto accadere? Tutto inizia dalle tessere, dalla raccolta del consenso attraverso il prelievo dalla busta paga del dipendente, operata dal datore di lavoro, di una quota del salario da conferire all’organizzazione sindacale. Si tratta di cifre dell’ordine di decine di milioni, facile da verificare se si sfogliano i bilanci pubblicati in rete dei sindacati (da prendere tuttavia con il beneficio dell’inventario). Il mercato delle tessere è il luogo economico del sindacato, la sua borsa valori; intercettare le tessere è il prius delle OO.SS: dalle tessere nasce il prestigio, il potere, e anche il benessere per gli apparatcik. Un sindacato che conquista tessere si rafforza; uno che le perde si indebolisce. Un sindacalista che garantisce l’incremento delle tessere è più efficiente di uno che le perde. Un sindacalista che controlla più tessere è più potente di uno che ne controlla meno. Come il boiardo russo di gogoliana memoria che controllava le “anime morte” dei contadini il sindacalista periferico, il piccolo ras di provincia, è il signore delle anime vive degli iscritti. Attraverso le tessere cresce il suo prestigio personale, sia economico che nell’organigramma della propria Organizzazione Sindacale, che sotto questo riguardo, essa sì, funziona come una macchina perfettamente meritocratica.
Il sindacato è perciò del tutto indifferente alla qualità dei suoi iscritti (se sono lavativi o meno, tanto meno se sono capaci e meritevoli) e punta solo al controllo delle tessere: gente fedele non gente brava, ma soprattutto gente che non revochi la tessera, la quale si rinnova tacitamente ogni anno (i radicali italiani, senza alcun successo, hanno proposto sia che si disimpegnasse il datore di lavoro dal trasferimento degli importi delle tessere, sia che queste ultime abbiano durata annuale: sarebbero dei provvedimenti esplosivi se attuati). Il lavoratore pagando la propria quota sottoscrive come una sorta di assicurazione sulla vita, e in cambio ottiene protezione ma anche favori (che non sono a somma zero: ogni favore elargito a un lavoratore è un sopruso fatto a un altro lavoratore non protetto). I favori sono innumerevoli: l’iscritto che ha cercato il “santo in Paradiso” e l’ha cercato presso il sindacato sa che questo è più potente della dirigenza e poi “pagando” la tessera vuole un servizio: primo fra tutti la soddisfazione dei suoi innumerevoli bisogni: turni favorevoli, ferie quando richieste, premi aziendali, trasferimento a casa, assunzioni dei figli adesso che i concorsi sono stati aboliti. Come fa il sindacalista ad assicurare protezione o la soddisfazione di tutti questi bisogni non essendo un dirigente? È successo semplicemente che alcuni sindacati hanno cominciato a infiltrare alcuni loro quadri (triangolando con la dirigenza complice o debole a sua volta in cerca di protezione) dentro l’organigramma aziendale. Succede pertanto che molti dirigenti dell’organigramma aziendale siano totalmente espressione dell’organigramma del sindacato, finanche ad altissimi livelli. Questo è il mezzo privilegiato attraverso il quale il sindacato estende il proprio potere dentro la struttura che dovrebbe avversare e nella quale dovrebbe “rappresentare” i lavoratori che nei fatti invece controlla e dirige esso stesso (la definizione sociologica di potere è la seguente: “quando i desideri, i bisogni, la soddisfazione delle volizioni di A -lavoratore- dipendono da B -sindacalista-, B ha potere su A”). Grazie alla debolezza strutturale della dirigenza (in Italia non esistono alte scuole ove formare una élite amministrativa prestigiosa e autonoma) e grazie alla connivenza di quella dirigenza collusa con il sindacato o sua diretta emanazione accade che il sindacato, spesso collaterale al potere politico com’è nella tradizione di tutti i sindacati, inizialmente di quelli bianchi poi di quelli rossi e neri, riesca a decidere le nomine e le promozioni degli alti papaveri. Accade insomma che la cogestione da molti sindacati invocata sul modello tedesco (Mitbestimmung) è già una realtà: solo che essa è occulta, non normata e non ufficiale, pur essendo quella reale.
Ma è successo anche che le OO.SS (specie quelle di ispirazione cattolica o autonome, ma quelle di sinistra, per effetto della legge di Gresham, si sono subito adeguate a molti comportamenti collateralisti) hanno compreso che non è con il consenso degli iscritti che si ottiene il potere ma, al contrario, è attraverso il potere che si ottiene il consenso. Più il Sindacato conquista autonomamente frazioni di potere dentro la struttura burocratico-amministrativa e più carpisce il consenso degli iscritti (e le sue ricche tessere), perché è in grado di dispensare favori e prebende essendo in verità alla guida (occulta) della stessa macchina. Il sindacato si mostra un mediatore perfetto: controlla sia la dirigenza (come abbiamo visto nel film di Denys Arcand) che è “nelle sue mani” perché ce l’ha messa lui, sia l’iscritto il quale teme sempre, se disdice la tessera, di perdere la protezione e finire in balia degli eventi. Solo chi ha rinunciato in partenza a fare carriera è indifferente all’ iscrizione al sindacato; mentre chi vuole fare carriera si iscrive e progredisce (da qui l’osservazione del Premier Renzi). Ma non è il più meritevole, è solo un soggetto che esegue in una struttura una musica scritta in un’altra (sindacato). Il sindacato ventriloqua insomma dentro la struttura burocratica o aziendale e parla in vece sua, ma obbedisce a se stesso, cura solo che la struttura dove vive da saprofita non collassi sotto il proprio peso: perché sarebbe come uccidere la mucca che gli dà nutrimento e che occorre invece mungere all’infinito in un incessante rapporto simbiotico.
Ma com’è stato possibile infiltrare i propri dirigenti dentro l’organigramma formale? Per capire come sia successo occorre fare riferimento alle quattro funzioni esercitate dal sindacato nel settore pubblico allargato (e in alcuni istituti di credito come le banche popolari). Funzione di rappresentanza, di mediazione, di interdizione, di protezione/tutela. Se si dovesse assegnare una percentuale a tali funzioni probabilmente quelle più tradizionali e più “proprie” al sindacato esercitate verso il lavoratore – ossia di rappresentanza e protezione/tutela – a un osservatore attento e obiettivo sembreranno oscurate rispetto a quelle più “pesanti”, di mero potere, quali quelle di mediazione e interdizione. Con la mediazione il sindacato si interfaccia con la dirigenza con l’interdizione si contrappone. Ma se si guarda bene nel dettaglio o più da vicino queste funzioni si scoprirà che tutte si sono configurate nel corso del tempo in vere forme di puro potere. Quello più intrusivo e decisivo è senz’altro il potere di interdizione: impedire che si faccia o non si faccia qualcosa. Come? Con tutti i mezzi, anche utilizzando le norme di safety&security in un Paese sudamericano come il nostro che pur s’è dotato di leggi svedesi. In certe aziende pubbliche di erogazione di servizi (elettricità, trasporti aerei, navali, ferroviari, credito, sanità, poste ecc) i sindacati possono letteralmente “inchiodare” a un loro cenno la macchina amministrativa e mettere nel terrore la dirigenza: bastano una trentina di controllori di volo che incrociano le braccia per bloccare il traffico aereo, solo per fare un esempio. Sarebbe troppo lungo spiegare in questo luogo che cosa è successo negli ultimi 40-50 anni (almeno a partire dalla legge 300/70); basta sapere che oggi il sindacato in molti comparti è tanto potente che di fatto ne governa (sebbene in maniera occulta) molti settori e articolazioni quando non le stesse aziende nel loro complesso. Intuibile è a questo punto che il potere di interdizione a volte assume forme gangsteristiche.
Ambiguo è poi il rapporto dei sindacalisti con i lavoratori. Dicono loro che sono entrati nel pollaio per difendere le galline dalle volpi dei dirigenti, ma spesso sono essi stessi i mustelidi, e di quelle galline fanno strazio più dei datori di lavoro. Infine, romanzeschi sono alcuni esiti biografici. Accade spesso che allorché il sindacalista salta la barricata e accede alla dirigenza di articolazioni della struttura che fino a un attimo prima contrastava si comporta esattamente alla maniera di Sénécal, quel singolare personaggio dell’Educazione sentimentale di Flaubert. «Uomo di teorie, non considerava che le masse e si mostrava spietato verso gli individui». Diventato direttore di uno stabilimento di ceramiche obbliga gli operai a spazzare tutti i pavimenti e a fermarsi un’ora di più il sabato qualora non l’avessero fatto durante la settimana. Vessa «per sentimento del dovere o bisogno di dispotismo» un’operaia che mangia dalla “schiscetta” contro i regolamenti nello stabilimento e le infligge una terribile ammenda. Urla: «La democrazia non è la scostumatezza dell’individualismo.È il livellamento comune sotto la legge, la divisione del lavoro, l’ordine! ». Insomma impone a tutti la sua inflessibile volontà di capo spietato. In finale di romanzo Frédéric, il personaggio principale dell’Educazione, crede di individuarlo tra gli agenti di polizia che sparano contro i rivoltosi del ’48…
L’obiezione che giunti qui si potrebbe porre è: cosa ci guadagnano i sindacalisti da questo complesso intreccio di potere se poi restano dei semplici e modesti stipendiati? Rispondo che ne ricavano ricchezza e potere e un deciso confortevole insediamento nell’esistenza. Chiunque abbia una certa dimestichezza con queste tematiche o abbia letto con attenzione i giornali sa che il sindacato ha diversificato il proprio business e gestisce oggigiorno direttamente o indirettamente agenzie di viaggio o compagnie assicurative (ove piazza i suoi quadri migliori) e molti suoi alti papaveri sono soci più o meno occulti di società di informatica, di formazione, di consulenza che spesso sono destinatarie di lucrosi appalti pubblici assegnati da qualche dirigente infiltrato. Senza tacere, come ci informano le cronache, che sovente riescono a mettere le mani su appartamenti di pregio degli enti previdenziali “infiltrati”, il cui valore può determinare la loro stabile ricchezza. (vedi qui e qui)
Questa lunga disamina è stata condotta al solo scopo di dire che in moltissimi luoghi di lavoro e in riferimento a milioni di lavoratori in Italia il merito è scoraggiato se non punito proprio da uno dei soggetti di rappresentanza che dovrebbe fiancheggiare le forze del lavoro nella loro conquista di migliori forme di vita in condizioni di equità. Grazie ai meccanismi di funzionamento dell’aggressiva mediazione sindacale è successo invece che da un lato, in basso, si siano negoziati i diritti con i favori nei modi tipici delle transazioni clientelari, e dall’altro si sia formata un’élite sindacale tanto potente quanto invasiva che ha massimizzato con spregiudicatezza e da vera “minoranza cosciente” tutta la propria forza di gruppo organizzato alla conquista principalmente del proprio particulare benessere e dei vertici della loro classe dirigente. Ancora fino a qualche anno fa i sindacalisti occupavano il terzo posto, dopo i magistrati e gli esponenti dei mass media, tra le categorie che contano di più, e avevano ben due uomini ai vertici delle istituzioni: Marini al Senato e Bertinotti alla Camera. Senza tacere che l’attivismo sindacale si assicurava un rigonfiamento spagnolesco delle carriere sommitali: una pletora di Segretari Generali, Segretari Nazionali, Segretari Generali Aggiunti, Vice Segretari Generali, ecc. Il risultato complessivo di questa intermediazione aggressiva è stato una sistematica distruzione dei migliori, un cecchinaggio permanente di molta intelligenza critica, la formazione di una sorta di fabbrica dell’obbedienza, l’appiattimento mortificante dei destini, un deciso contributo al depauperamento organico di molte forze vive della Nazione .
Gli organigrammi informali. Chiudo con una noterella che potrebbe aprire un altro capitolo che non è possibile qui trattare. Il sindacato ci ha fornito lo schema non solo della particolare perversione della mediazione e dei mediatori quando sviano dalla loro funzione originaria, ma anche di quell’azione altrettanto perversa esercitata dagli organigrammi informali dentro l’organigramma formale. È uno schema che può tornare utile per altri ambiti di indagine perché questi organigrammi informali sono altri agenti, potentissimi, distruttori del merito. E spesso sono occulti com’è nella loro natura. Si va dalla massoneria, al Vaticano (ancora oggi in Italia non si può diventare direttori del TG1 senza un tacito assenso da Oltretevere), alla mafia vera e propria, all’azione romanzesca di faccendieri messi all’apice di strutture o articolazioni aziendali (penso a ciò che è successo di recente in una grande banca popolare italiana) al solo scopo di servire padroni occulti che vivono fuori dall’organigramma formale ma che determinano tuttavia le folgoranti carriere di soggetti particolarmente squalificati ma “ammanicati”. Il fenomeno è in Italia poco studiato, ma a mio avviso meriterebbe l’attenzione che il mondo anglosassone ha dedicato al cronyism e al crony capitalism, ossia alla natura antimeritocratica delle clientele amicali, a tal punto da contrapporsi al liberalismo, ritenuto il luogo idealtipico ove i meriti e i destini si compiono esclusivamente in ragione delle capacità e dalle competenze dei soggetti.
L’azione degli organigrammi informali può raggiungere anche effetti grotteschi e per questo ancora più terribili sulla pelle degli esclusi dal “giro”. Cito dal libro di un personaggio totalmente squalificato ai miei occhi qual è Clemente J.Mimun cui debbo tuttavia un informazione preziosa. C’è stato un momento in cui il capo di una comunità di tossicodipendenti influenzava le carriere alla Rai. Scrive Mimun nel suo libro di memorie Ho visto cose (Ebook posiz. 498, Mondadori, 2012): “Durante la presidenza Moratti fu subito chiaro: bisognava essere bravi professionisti, sostenuti ovviamente dalla maggioranza di governo, ma occorreva avere anche un placet muccioliano”. Non solo lottizzati, dunque, ma anche… muccioliani.
Qui studio a voi Italia.
^^^^
Rimando al prossimo e ultimo intervento un resoconto del recente dibattito promosso in Italia da Roger Abravanel sulla scia del libro pioniere di Michael Young, riprendendo anche alcuni spunti offerti dalle riflessioni apparse su Gli Stati Generali di Matteo Saini, Umberto Cherubini, Andrea Quattrocchi).
Devi fare login per commentare
Accedi