Governo
La “non-sinistra” di Renzi e la “sinistra del non-governo”
Negli ultimi giorni, sull’onda dello scontro tra governo e sindacati, si è sviluppato sui giornali e nel web un interessante confronto dialettico tra due intellettuali molto rilevanti nel panorama politico e accademico italiano: Michele Prospero e Sergio Fabbrini. Il primo, profondo conoscitore della storia delle istituzioni pubbliche e del pensiero politico, insegna Filosofia del Diritto alla Sapienza e assurge da qualche anno al ruolo di guida intellettuale del mondo bersaniano. Il secondo, politologo di fama internazionale, di formazione anglosassone ed ispirazione liberale, dirige la School of Government della Luiss e collabora con il Sole 24 Ore. L’oggetto di discussione è il rapporto del PD, e più in generale della sinistra, con la sua costola sindacale, ovvero la CGIL. Nel suo editoriale intitolato “Liberare l’Italia dalla Guerra Fredda” (link: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-04/liberare-italia-guerra-fredda-063636.shtml?uuid=ABJyi59B) Sergio Fabbrini analizza la persistenza di una tendenza minoritaria all’interno della sinistra italiana anche in seguito alla caduta del muro del Berlino. A parere del politologo, la sinistra non sarebbe stata in grado di rinnovare la sua missione progressista appiattendosi sullo scopo esclusivo di combattere la diseguaglianza arginando le storture del mercato capitalistico e chiudendo gli occhi dinnanzi alle nuove tipologie di istanze sociali generate dalla globalizzazione. Tutto ciò avrebbe provocato un approccio di carattere statico, introverso, minoritario, risultante nella tradizionale identificazione con i gruppi sociali di riferimento e in una cooperazione acritica con il sindacato. In quest’ottica Fabbrini declina il rapporto sinistra-sindacato nelle ormai consuete dialettiche chiusura-apertura e conservazione-riforma celebrando la sinistra renziana per essersi modernizzata sia nel lessico che nella proposta ed aver trovato il coraggio di ampliare la sfera di rappresentanza assumendo caratteri maggioritari. Infine, secondo un Fabbrini che abbandona le vesti della neutralità e finisce per schierarsi con il nuovo corso renziano, l’azione riformatrice del premier rivolta alle istituzioni e al mercato del lavoro produrrebbe come effetto il superamento del bicameralismo simmetrico e della concertazione, infrangendo due vecchi tabù risalenti ad una configurazione istituzionale da Guerra Fredda ed espressione di una società bloccata, statica all’interno della quale la principale linea di frattura è tra insider e outsider. Le riforme di Renzi rappresenterebbero, quindi, l’unica soluzione possibile per sbloccare un paese sclerotizzato come l’Italia, allentando la pressione statale sull’attività economica e smontando le dinamiche di natura corporativa che ostruiscono l’accesso e la mobilità. In un intervento sul settimanale della CGIL Rassegna Sindacale intitolato “Quando il politologo ignora la storia” (link: http://www.nuovatlantide.org/i-padroni-descrivono-la-cgil-come-una-caricatura/), Michele Prospero ribatte alle accuse che Fabbrini rivolge alla coalizione “filo-sindacale”, rivendicando per la sinistra la funzione storica di argine contro le diseguaglianze e accusando Fabbrini di cadere in un ideologismo celebrativo del disegno renziano. Secondo Prospero, infatti, le tesi sostenute da Fabbrini sarebbero precostituite e poco aderenti alla realtà storica, così come l’eccessiva schematicità del metodo di analisi adottato dal politologo, che mal si concilierebbe con la complessità dei rapporti sociali e la loro evoluzione. Facendo riferimento alla storia degli ultimi vent’anni, Prospero sostiene che le affermazioni elettorali della sinistra siano coincise con l’adozione di una linea retorica e programmatica rappresentativa delle istanze del lavoro e veicolata dall’alleanza con i sindacati. Grazie a questa vocazione laburista, secondo Prospero, la sinistra sarebbe riuscita in più occasioni ad affermarsi elettoralmente scompaginando “la contraddittoria coalizione sociale edificata da Berlusconi”. Personalmente, ritengo che un confronto sull’attualità politica del Paese tra due intellettuali così pragmatici e incisivi nei rispettivi campi di analisi sia innanzitutto un grande passo avanti per la qualità di un dibattito pubblico italiano sempre troppo superficiale e poco articolato, che nella maggioranza dei casi lascia spazio solo ad esternazioni ideologiche e provocatorie, non argomentate e spesso poco credibili sul piano dello spessore di chi le pronuncia. Pur avendo sempre apprezzato le lucide analisi del Prof. Prospero, espressione fiera e coerente di quella sinistra che il renzismo intende spazzare via (promozione del sistema proporzionale, cultura del politically correct e della civiltà istituzionale, tutela degli interessi del lavoro dipendente, neokeynesismo) penso, in questa circostanza, che l’analisi del Professor Fabbrini si riveli più efficace nel descrivere la contingenza, o quantomeno nel delineare una cornice realistica all’interno della quale discutere. La contrapposizione delle due sinistre di Fabbrini, che attinge da una vasta letteratura giornalistica e accademica, può essere a mio parere utilizzata come punto di partenza per stimolare alcune riflessioni sull’evoluzione delle dinamiche interne alla sinistra. Innanzitutto, guardando al caso italiano, non condivido l’identificazione da parte di Fabbrini di “due sinistre”: la prima antica e conservatrice, incarnata dalla CGIL e dai suoi epìgoni all’interno del PD, e la seconda moderna e riformista interpretata da Renzi. A me sembra che attualmente in Italia si sia in presenza di una sola sinistra, per giunta esterna al PD e per certi aspetti anche alla CGIL, che orbita intorno alla personalità di Maurizio Landini: una sinistra di carattere laburista ma dalle tendenze corporative, di natura minoritaria, non-riformista e non di governo, dai toni fortemente carismatici e a tratti anti-politici. Non credo, infatti, che quella di Renzi possa essere catalogata come “sinistra”, benché “di governo”. E’ innegabile che l’azione politica di Renzi e del suo governo vada ben oltre la tradizionale distinzione tra destra e sinistra; quest’ultima sarebbe piuttosto definibile come “Agenda modernizzatrice di riforme che i mercati ritengono opportune per investire nel Paese”. Chi sostiene che la politica di Renzi assomigli alla Terza Via di Tony Blair ha pienamente ragione, ma si dimentica che la riproposizione di un messaggio affermatosi quindici anni prima lo svuota della connotazione “innovativa” e “di sinistra” che poteva avere negli anni Novanta. L’innovatività di Renzi è ravvisabile soltanto nelle forme, abbastanza inedite, della sua comunicazione politica, mentre nei contenuti il renzismo si traduce semplicemente in una rassegna di quelle ricette che più volte sono state spacciate per “cose di buon senso” dai media mainstream della seconda repubblica (abolizione delle province, lotta alla casta, tagli agli sprechi, riforma del lavoro, sburocratizzazione). Dall’altra parte, ad opporsi all’Agenda Renzi vi è la sinistra laburista di Landini, sostenuta dalla linea filo-sindacale dei vari Fassina, Civati, Vendola, che però non mostra di avere una proposta economica concreta, realizzabile e migliorativa per la crescita del Paese. Una sinistra che continua a proiettarsi tendenzialmente al suo interno, senza aggiornare i suoi paradigmi di interpretazione e partorire nuove proposte sul piano economico e sociale, e che rifiuta sistematicamente la messa in discussione delle sue certezze, delle sue strutture e dei suoi feticci ideologici. Basti pensare a come i sindacati, appoggiati dalla sinistra radicale, abbiano stigmatizzato la proposta di riforma del mercato del lavoro Boeri-Garibaldi, perpetrando un atteggiamento ostile nei confronti del giuslavorismo riformista dei primi anni Duemila e rifiutandosi di cogliere la sfida della flexicurity con la prospettiva di estendere le tutele effettive, per poi ritrovarsi qualche anno dopo a subire passivamente il decreto Poletti e la controffensiva filo-imprenditoriale dei governo senza disporre di contropartite negoziali adeguate. C’è un grande assente nella contrapposizione sopra delineata, ed è costituito da una forza intellettuale e politica di sinistra che, come sostiene Emanuele Ferragina nel suo libro Capitale Sociale e Riforma del Welfare. La terza via dell’Europa (OMP,2009), interpreti una “terza via” alternativa rispetto alla non-più-sinistra dalle connotazioni liberiste, espressa da Renzi, e alla sinistra-non-di governo di natura corporativista, interpretata da sinistra del PD, CGIL e FIOM. Una sinistra che diventi consapevole di come la nozione di ingiustizia sociale abbia subito una profonda evoluzione nel corso degli ultimi anni, e del fatto che questa possa essere ravvisabile non solo nel contesto delimitato della fabbrica ma tendenzialmente in ogni luogo e in ogni attività. Una sinistra che si incarichi di uno sforzo di innovazione della sua proposta politica introducendo nuovi canoni interpretativi della diseguaglianza e che estenda la sua base sociale di rappresentanza includendo i senza lavoro, i non protetti, i precari a vita, gli atipici, gli stagisti non pagati, e tutti coloro che chiedono al sistema pubblico di vedersi riconosciuti, o quantomeno tutelati, i propri diritti di cittadinanza nell’allocazione politica delle risorse. Una sinistra pragmatica, con una visione progressiva e trasformativa della realtà sociale, che si batta per l’eguaglianza delle opportunità e che non si arrocchi sulla difensiva ma giochi all’attacco la sfida redistributiva della costruzione di un nuovo welfare universale. Per mettere in atto quest’opera di rinnovamento, e sfuggire così alla logica dialettica della contrapposizione presentata nella prima parte dell’articolo, è necessario operare sul piano di una nuova prassi politica fondata su ascolto, approfondimento ed elaborazione, ma anche riformulare il piano teorico, valorizzando il contributo innovativo di nuove generazioni di intellettuali (da Thomas Piketty a Mariana Mazzucato) nella definizione di nuovi paradigmi di lettura delle contraddizioni economiche e sociali.
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