Sindacati
La lotta di classe della nuova epoca
Questa mattina, il Corriere della sera constata che l’”ascensore sociale si è fermato”. Nondimeno, il problema qui è che si sono fermate pure le scale a piedi. E non da oggi, da circa venti anni.
Per contribuire a comprendere e discutere i perchè e i percome di questa realtà, oltrechè a non rovinarsi la colazione con inutili rodimenti, è molto più utile l’articolo qui pubblicato da Cristian Sesena, Conflitti sociali: dobbiamo imparare dai Francesi? (http://www.glistatigenerali.com/euro-e-bce_sindacati/conflitti-sociali-dobbiamo-imparare-dai-francesi/), che, a partire dai fatti francesi di questi giorni, contiene un’analisi impeccabile.
Analisi che vorrei contribuire a collocare. Gli avvenimenti degli ultimi anni, quelli della Grande crisi, sono la conseguenza diretta, il prodotto materiale, di fatti storici di lungo periodo e di connesse azioni umane. I fatti storici sono l’onda lunga del processo di globalizzazione, con le sue cause e le sue conseguenze che, piacciano o no, non possono che essere assecondati, in quanto inarrestabili. I comportamenti che li hanno accompagnati, la gestione di questi processi, tuttavia, potevano e potrebbero essere ben diversi.
Le politiche dissennate di impronta neoliberista che per un trentennio hanno alimentato gli spiriti peggiori delle economie internazionali, dopo un palese momentaneo rinculo avvenuto all’inizio della crisi, quando tutti ne hanno visto gli effetti, in seguito hanno lanciato una controffensiva violenta e, al momento, inarrestata.
Le recenti politiche economiche europee, comunemente definite “austerità”, sono state il prodotto di tali idee e visioni che avevano segnato il periodo precedente. Solo che, se prima queste idee avevano oppositori, questi ultimi nel corso della crisi, in preda a uno sbandamento culturale per molti versi incomprensibile, piegandosi alle ragioni del “non ci sono alternative” hanno smesso di affermare un’alternativa, di combattere, si sono arresi imbelli, come in preda a sindrome di Stoccolma.
Ovunque, le culture progressiste si sono sfaldate come neve al sole, lasciando soli i pochi profeti armati di parole e soluzioni sempre citate, mai ascoltate; le organizzazioni politiche e i corpi intermedi, che a quelle culture progressiste corrispondevano, hanno alzato le mani anch’esse, ripiegando deboli in malsicure ridotte; l’opinione pubblica, che doveva fare?, si è adeguata.
Un giorno studieremo e capiremo di chi sono le colpe, e se vi sia stato dolo nell’assecondare gli interessi dei più forti, abbandonando al loro destino i più deboli.
Però oggi, dopo anni di dati stratificati, è evidente che cosa è successo, è davanti agli occhi di tutti, ed è più palese proprio perchè avvenuto al centro del mondo, nella vecchia Europa culla di civiltà, diritti, eccetera eccetera.
I tassi di disoccupazione, i crolli della produzione e dei pil, l’innalzamento dei debiti, e così via, descrivono chiaramente che le politiche economiche austere hanno celato (!?) un consistente, anzi enorme, processo di redistribuzione delle risorse dal basso verso l’alto: dai poveri ai ricchi, dalle periferie al centro, dalla produzione alle banche, insomma, al contrario.
Ora l’alternativa è la stessa dal primo giorno: o l’applicazione di questo modello è avvenuta casualmente oppure è stata perseguita con tali finalità.
Non sono il solo a pensare che le cose non avvengano per caso, e non certo in virtù di famigerati complottoni, ma di un fisiologico confronto fra interessi materiali – di cui nella storia le idee sono strumento più che causa – che è il fondamento dell’evoluzione delle comunità umane.
E, soprattutto, non ci si può scandalizzare se chi persegue il proprio interesse lo fa nel modo più convinto ed efficente, e con tutti gli strumenti che ha a disposizione. Il contrario, piuttosto, stupisce. Ossia che chi subisce ci metta così tanto tempo ad organizzare la propria difesa, a tutelarsi, a proteggersi, ad alzare la guardia.
In pratica: è naturale che chi ha da guadagnare dall’aumento delle diseguaglianze ne benefici; sconvolge che chi subisce l’ingiustizia sociale non vi si opponga. Certo, le masse disorganizzate, le avanguardie organizzate, e altri simili assiomi.
Gli avvenimenti di questi giorni, ossia la dura reazione del sindacalismo francese a una riforma del lavoro altrove bevuta come un bicchier d’acqua anche da ceti politici sedicenti progressisti – che però del manuale del progressismo non hanno mai letto che la quarta di copertina – contribuisce, se non altro, ad indicare un segnale.
Nel giorno in cui i sindacati si scagliavano contro la destrutturazione della contrattazione nazionale, un ministro italiano raccoglieva applausi a scena aperta alla riunione degli industriali auspicando la destrutturazione della contrattazione nazionale.
Questo non è che un passaggio ulteriore, e non l’ultimo, dell’applicazione del sopra citato modello. Un modello che ha al suo fondamento un epocale conflitto tra capitale e lavoro, si sarebbe detto, per lo stesso motivo di sempre: la equa, o meno e da che punto di vista, distribuzione delle risorse disponibili.
In questo quadro, l’analisi proposta nell’articolo di Sesena è stimolante; perchè richiama all’esigenza che le organizzazioni “tradizionali”, i corpi intermedi storicamente formati per tutelare i ceti prima esclusi, poi subalterni, poi parte a tutti gli effetti dei processi di sviluppo economico e sociale del nostro continente, si riattivino anch’essi, tramite sforzi che già stanno compiendo, nel modo piu convinto ed efficente, e con tutti gli strumenti a disposizione, per tornare in campo a giocare la partita. Partita che è basata, oltrechè sulla “rappresentanza del conflitto”, sulla rappresentanza di interessi e bisogni che ha nell’eventuale conflitto uno strumento.
Quello che è mancato in questi anni è che una cultura progressista, alternativa a quella mainstream, venisse assunta e diffusa da corpi organizzati per condividere soluzioni coerenti con la effettiva rappresentanza di bisogni e interessi schiacciati da un pensiero unico dotato, esso sì, di strumenti potenti e prevaricanti.
L’unione delle organizzazioni sindacali, e delle loro strategie e pratiche, a livello nazionale e “multinazionale”, sarebbe certamente un lungo e fermo passo nella giusta direzione: quella di entrare nella “lotta di classe” della nuova epoca.
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