Sindacati
Digital Organizing, da Berlino uno studio su social media e lotta di classe
In un opuscolo pubblicato a ottobre dalla Rosa Luxemburg Stiftung due ricercatori del Weizenbaum Institut di Berlino analizzano opportunità e rischi offerti dai media digitali all’organizzazione dei lavoratori, a partire da alcuni esempi concreti: i lavoratori dell’industria eolica organizzati da Ig Metall, l’azione di Unite e Ver.di contro British Airways e Ryanair, fino ai driver di Uber.
Dell’utilizzo dei social network e dei nuovi strumenti di comunicazione digitale come strumento di mobilitazione sociale si parla diffusamente almeno dal 2011, l’anno delle cosiddette “Primavere Arabe”, ma finora nessuno, almeno in Europa, si era concentrato sul loro ruolo nello specifico ambito del sindacato e, più in generale, dell’organizzazione dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Il tema ha assunto un particolare interesse da quando le imprese hanno fatto leva proprio su quegli strumenti per accelerare il processo di frammentazione e controllo del lavoro, di cui le piattaforme di car pooling come Uber o di food delivery come Just Eat sono diventate forse l’esempio più eclatante. Ma investe un numero ben più ampio di lavoratori da quando la pandemia ha spinto molte aziende a ricorrere al lavoro remotizzato, un fenomeno destinato a essere riassorbito solo parzialmente nei prossimi anni. Molte imprese, infatti, in particolare nel settore privato, hanno già annunciato l’intenzione di far diventare la possibilità di lavorare da casa, almeno in parte, permanente. A ottobre, ad esempio, Amazon ha annunciato che i propri impiegati potranno scegliere quest’opzione e andare in ufficio solamente quando sarà necessario, una decisione che nei dintorni di Seattle, sede centrale del gruppo, riguarderebbe circa 50.000 lavoratori.
Ripartire dalla la forza organizzata dei lavoratori
Come è possibile restare in contatto con migliaia di lavoratori sparsi in piccole sedi differenti, a casa o addirittura, come è il caso dei rider o degli autisti di Uber, privi di uno spazio identificabile come “posto di lavoro”? E più in generale: quanto sono efficaci i media digitali in ambito sindacale, quali risorse utilizzare e con quali cautele? Ad affrontare questo tema, cercando di colmare il vuoto che abbiamo evidenziato sono due ricercatori tedeschi, Florian Butollo e Jobst Gaus, del Weizenbaum Institut für die vernetzte Gesellschaft (per la società in rete) di Berlino, in un opuscolo di 70 pagine intitolato Digital Organizing. Potentiale neuer Technologien für gewerkschaftliche Organisationsmacht (Organizzazione digitale. Potenzialità delle nuove tecnologie per la forza organizzata del sindacato). Lo studio, che trae spunto da alcuni casi concreti di utilizzo dei media digitali in campo sindacale negli USA, in Germania e nel Regno Unito, è stato pubblicato a ottobre dalla Rosa Luxemburg Stiftung, la fondazione legata al partito tedesco Die Linke, nata nel 1990 come organo di ricerca, formazione e “forum di discussione per il pensiero critico e l’alternativa politica”.
Si tratta di una lettura utile anche per capire il retroterra di alcune recenti lotte sindacali negli USA, perché i due ricercatori tedeschi prendono spunto anche dall’esperienza di Jane McAlevey, negli anni ’80 leader studentesca prima alle superiori, poi alla New York University a Buffalo, assunta a metà degli anni ’90 dalla AFL-CIO, la principale confederazione sindacale americana, come responsabile organizzativa. La McAlevey collabora col Berkeley Labor Center dell’Università della California, è corrispondente della rivista The Nation specializzata in temi sindacali e ha pubblicato quattro volumi, uno dei quali, No shortcuts. Organizing for Power in the New Gilded Age (2017) due anni fa è stato oggetto di una lezione tenuta proprio presso la sede centrale della Rosa Luxemburg Stiftung a Berlino (canale Youtube RLS).
La studiosa e organizzatrice sindacale fa parte di filone del sindacalismo USA che “di fronte all’atteggiamento fatalista per cui l’indebolimento del sindacato è la mera conseguenza degli effetti strutturali della globalizzazione o della crescente precarizzazione dei rapporti di lavoro e, dunque, essi appaiono irreversibili”, scrivono gli autori del rapporto, risponde che il declino può essere fermato “ponendo al centro della propria azione la costruzione della forza organizzata del sindacato”. Questa scuola di pensiero lamenta che “le ‘classiche azioni virtuose’ – reclutare iscritti e portare avanti l’iniziativa sindacale nel posto di lavoro – col passar degli anni siano state abbandonate perché i sindacati hanno scelto di basarsi sulla loro forza istituzionale, cioè sulla capacità di raggiungere compromessi al tavolo negoziale, piuttosto che sulla fiducia nella forza dei lavoratori”. Perciò per invertire la rotta serve “una combinazione di lavoro aziendale orientato agli iscritti e di nuovi metodi ispirati a un ‘sindacalismo basato sulla mobilitazione sociale’”.
L’organizzatrice e studiosa americana “guardando alle esperienza americane ha criticato il fatto che gran parte dei metodi organizzativi dei sindacati si fermino alla semplice ‘mobilitazione’, cioè che spingano i lavoratori all’azione per fare pressione sulle imprese, senza coinvolgerli nella pianificazione strategica e tattica delle azioni”, per cui l’iniziativa, anche nel migliore dei casi, resta sempre nelle mani dei funzionari sindacali. A questa concezione gli autori dello studio, attingendo alla McAlevey, contrappongono un modello organizzativo che mette al centro la conquista del consenso nel posto di lavoro e l’impegno a stimolare una maggiore capacità di iniziativa autonoma dei lavoratori (empowerment). I media digitali sono uno strumento utile a realizzare tali obiettivi, ma, precisano, non possono sostituirsi al lavoro di contatto e confronto fisico “in presenza”.
I rischi del feticismo tecnologico
Banalizzare il passaggio dall’online all’offline, dal virtuale al reale, infatti, espone il sindacato a sonore cantonate. Gli autori citano in proposito la campagna OUR Walmart (Organization United for Respect at Walmart). L’iniziativa, lanciata nel 2010 tra i dipendenti del colosso della grande distribuzione dalla United Food and Commercial Workers International Union (UFCW), a un certo punto portò alla proclamazione di uno sciopero che ottenne l’adesione di poche centinaia di lavoratori (su un milione e mezzo) esponendoli tra l’altro a rischi severi. “Uno sciopero – ha scritto la McAlevey – significa che la maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici ferma il lavoro e blocca la produzione con un’azione collettiva e resistente (…) Se invece uno o due lavoratori dopo qualche settimana in un posto di lavoro con un tasso di sfruttamento particolarmente alto mollano tutto e per questo si attirano le lodi di qualche gruppuscolo privo di seguito, si tratta semmai di evento di pubbliche relazioni”. Prendendo spunto da questa osservazione gli autori sottolineano ripetutamente nel corso dell’intero studio che sia per quanto riguarda le decisioni di strategia sindacale che per giudicare quanto i lavoratori siano effettivamente pronti all’azione è bene, se possibile, affidarsi a riunioni in presenza e che dunque i media digitali vanno intesi come strumenti integrativi piuttosto che sostitutivi dei tradizionali strumenti decisionali e di comunicazione.
I media digitali presentano anche altri rischi. In campo sindacale, infatti, spesso c’è il pericolo di esporre i lavoratori a ritorsioni aziendali, che in alcuni casi possono arrivare fino al licenziamento. Per questo il loro impiego in ambito sindacale presenta una specificità “perché le condizioni a cui si è soggetti utilizzando i dispositivi digitali in ambito aziendale possono essere molto diverse rispetto, ad esempio, a quelle per il movimento Fridays for Future. Per quest’ultimo, infatti, il pericolo di atti di repressione per un’esternazione fatta alla leggera sui social media è decisamente inferiore di quello che un lavoratore corre in un’azienda che adotta comportamenti antisindacali per contrastare la creazione di una rappresentanza sindacale al proprio interno”.
I nuovi media nelle lotte sindacali
I media digitali possono aiutarci a compensare gli effetti della frammentazione lavorativa alimentata dalle aziende, di solito per esigenze produttive o economiche (misure sanitarie o riduzione dei costi, ad esempio, nel caso del cosiddetto smart working), ma a volte anche per mantenere i dipendenti una condizione di isolamento. In alcuni casi tuttavia si è osservato che proprio quel modello di organizzazione del lavoro finisce inopinatamente per creare occasioni di incontro e, dunque, processi di aggregazione dei lavoratori. Lo studio cita il caso dei driver di Uber: “Un fattore di compensazione dell’isolamento dei lavoratori citato spesso (…) deriva da un aspetto tecnico del modello di business di Uber. Il principio del just-in-place adottato dall’azienda, cioè l’idea di utilizzare i Big Data in modo che i guidatori si trovino sempre nel luogo giusto al momento giusto per poter raggiungere il cliente nel più breve tempo possibile ha determinato la creazione di luoghi in cui essi trascorrono molto tempo insieme. Questi luoghi, individuati dagli algoritmi, ad esempio il parcheggio davanti a un aeroporto, possono diventare l’equivalente di uno di quei luoghi in cui nelle aziende tradizionali i lavoratori si incontrano per fare due chiacchiere o scambiarsi informazioni, creando delle vere e proprie reti sociali. Queste reti in seguito possono essere consolidate grazie a Whatsapp o strumenti analoghi”. Gli autori sottolineano che in questo modo non soltanto si crea un canale di comunicazione utilizzabile sindacalmente, ma si stimola anche la percezione di un’identità collettiva essenziale per far sentire i lavoratori parte di una stessa comunità e innescare una solidarietà attiva al loro interno.
A volte gli stessi strumenti di comunicazione aziendale fungono non solo come canale comunicazione e coordinamento sindacale, ma persino come mezzo di lotta. Gli autori citano gli “scioperi della connessione” degli autisti di Uber iscritti alla United Private Hire Drivers (UPHD), aderente alla piccola ma combattiva confederazione IWGB. I driver si scollegano tutti insieme dalla app tramite cui ricevono le prenotazioni, una forma di “protesta digitale” a cui spesso seguono azioni fisiche come cortei di auto per fare pressione sull’opinione pubblica e sulla politica, Nel 2019 la UPHD adotta questa tattica per chiedere un aumento delle tariffe, una riduzione delle commissioni da versare alla piattaforma e il riconoscimento ai conducenti del rapporto di lavoro subordinato, inclusi salario minimo e ferie pagate. Di queste forme di “picchetto digitale”, come li chiamano i due ricercatori tedeschi, vengono offerti anche altri esempi. Nel 2018 i lavoratori della University and College Union (UCU), 120.000 iscritti, per bloccare una riforma previdenziale che prevede tagli dell’11% alle loro future pensioni, decidono di lanciare una campagna che chiede piuttosto di aumentare i contributi previdenziali a carico delle università. I “picchetti digitali” messi in atto da questi lavoratori in questo caso consistono nel rifiuto collettivo di rispondere alle mail di lavoro, usando i media digitali, invece che per fornire informazioni sulle attività degli atenei o sulle pubblicazioni scientifiche, per attirare l’attenzione sulla vertenza e sull’azione del sindacato.
La possibilità di comunicare, coordinare, coinvolgere i lavoratori nella pianificazione delle azioni molto rapidamente grazie ai media digitali permette anche di organizzare veri e propri blitz come i Rein-Raus-Streiks, scioperi “mordi e fuggi” (letteralmente dentro e fuori) nei magazzini tedeschi di Amazon, coi lavoratori che escono alle 8 di mattina e riprendono il lavoro alle 10, un grande danno con poco sforzo, ma anche di lanciare rapidamente scioperi internazionali, come quelli dei driver di Uber in decine di città in tutto il mondo, tra cui Nairobi, Dayton, Parigi, Glasgow, San Paolo e Brisbane.
Nell’iniziativa lanciata nel 2008 da IG Metall per entrare in Enercon, multinazionale tedesca dell’eolico, la tecnologia digitale viene usata al servizio di un’inusuale strategia sindacale: invece di partire dai grandi stabilimenti in cui si concentra l’80% della forza-lavoro, si comincia dalle 140 squadre di tecnici sparsi su tutto il territorio tedesco, prima con un lungo lavoro preparatorio “clandestino” in vista di un blitz di due settimane in cui 180 militanti della IG Metall incontrano il maggior numero di lavoratori possibile di tutte le sedi aziendali, organizzando riunioni e gettando le basi per la creazione di un Betriebsrat, l’organo di rappresentanza sindacale aziendale. Parallelamente va online un blog contenente informazioni legali e video in cui la IG Metall si presenta e si mette a disposizione dei lavoratori di Enercon (un’iniziativa che ricorda quella indirizzata da IG Metall nelle scorse settimane ai lavoratori delle gigafactory Tesla di Grünheide, nei pressi di Berlino).
Per prendere contatto coi lavoratori, passare da un primo contatto “virtuale” a un incontro diretto, comunicare con loro scambiandosi punti di vista in tempo reale e coinvolgerli nelle decisioni, sottolinea lo studio della Rosa Luxemburg Stiftung, è fondamentale un lavoro di mappatura per “raccogliere tutte le informazioni possibili e potenzialmente rilevanti per una campagna sindacale relative al personale. Oltre alle informazioni di contatto dei dipendenti la mappatura può registrare anche incarichi aziendali, grado livello di coinvolgimento e attitudine alla militanza sindacale. Le informazioni raccolte agevolano ulteriori contatti e la valutazione della forza del sindacato”. Gli autori sottolineano l’importanza di individuare quei lavoratori che possono essere considerati opinion leader in azienda (su questo aspetto i social network possono fornire molti elementi di giudizio) e quindi svolgere un ruolo chiave nel reclutare colleghi e diffondere le posizioni del sindacato.
Lo studio cita anche l’utilizzo di app come Action Builder, una piattaforma che permette di visualizzare con un clic tutti gli aderenti al sindacato o a una campagna sindacale in un’azienda, con le informazioni di contatto, dove si trovano, una valutazione del loro impegno – leader, supporter, indeciso, contrario – e di fare ricerche utilizzando dei filtri (per chi volesse approfondire su Youtube c’è un tutorial di 7 minuti con la possibilità di attivare i sottotitoli in italiano) e poi visualizzare una mappa dei contatti, una cronologia delle loro azioni (adesione al sindacato, partecipazione agli incontri ecc.), i temi che sollevano (salario, orario di lavoro ecc.), insomma un’applicazione del tipico pragmatismo tecnologico americano all’organizzazione dei lavoratori.
Web e social media consentono non solo di disporre di canali di comunicazione all’interno delle aziende, ma anche di un prezioso ausilio per comunicare all’esterno la posizione dei lavoratori e i contenuti di una campagna sindacale, interagendo con l’opinione pubblica e anche rispondendo a eventuali attacchi da parte delle aziende e in questo modo facilitano anche il compito di stringere relazioni e alleanze con altri soggetti sociali, associazioni, movimenti. La lotta dei dipendenti della British Airways tra il 2009 e il 2011 ce ne offre un esempio significativo. La British Airlines Stewards and Stewardesses Association (BASSA), aderente a Unite, all’epoca raccoglie l’adesione di circa 12.000 dei 14.000 dipendenti della compagnia, che devono fronteggiare circa 1.700 esuberi, decurtazioni salariali e un nuovo modello di business, indotto dalla concorrenza di Ryanair. British Airways si concentra su tratte a breve percorrenza e incoraggia il personale a stabilirsi nelle vicinanze degli aeroporti e ad abituarsi a effettuare un volo di andata e, dopo una breve pausa, un volo di ritorno nel corso del medesimo turno. Alla resistenza dei lavoratori il management risponde con una campagna volta a screditare il sindacato e pubblica su Youtube alcuni video in cui enfatizza le difficoltà economiche dell’azienda e dipinge le richieste dei lavoratori come inopportune, tentando di stabilire una comunicazione diretta con la clientela e di isolare il sindacato. Questa campagna propagandistica viene ripresa ampiamente dai media, su cui nel frattempo la compagnia aerea pubblica costose inserzioni pubblicitarie a pagamento. La BASSA a sua volta replica all’accusa di chiedere salari troppo alti diffondendo dei video che sottolineano la qualità del servizio offerto ai clienti dal personale di bordo. Inoltre lancia un sito ad hoc. chiamandolo ironicamente “Brutish Airways” (Aerolinee brutali invece di britanniche).
Se la vertenza con British Airways si conclude in modo contraddittorio – non si riesce a evitare i 1.700 licenziamenti, ma ci sono risultati positivi sul salario e altri aspetti – quella tra il sindacato tedesco Ver.di e Ryanair viene indicata da Butollo e Gaus come un modello virtuoso ed equilibrato di integrazione tra lavoro on e offline. Ver.di costringe Michael O’Leary, l’istrionico ad della compagnia irlandese, a rimangiarsi una delle frasi che lo ha reso famoso: “È più probabile vedere l’inferno congelare piuttosto che Ryanair trattare col sindacato”. Il sindacato invece non solo trascina O’Leary al tavolo negoziale, ma con una serie di scioperi nel 2019 lo spinge a sottoscrivere un contratto che fissa salari, condizioni di lavoro e prestazioni sociali.
Questi pur parziali risultati sono l’effetto di una campagna di organizzazione dei lavoratori che in pochi mesi riesce a sindacalizzare una larga parte del personale di bordo. Ciò richiese un dialogo diretto coi lavoratori e le lavoratrici negli aeroporti e nei luoghi di lavoro, ma anche una strategia basata sulla persuasione degli opinion leader e una graduale creazione della capacità di sciopero dei dipendenti. Una larga parte di quest’attività ebbe luogo offline, con centinaia di colloqui individuali e una campagna sviluppatasi grazie a numerose riunioni informali ed eventi pubblici.”
Allo stesso tempo, scrivono gli autori:
Tutte queste azioni furono sostenute dall’uso di media digitali come gruppi Whatsapp, un sito della campagna e numerose videoconferenze. (…) All’inizio il sito della vertenza “Cabin Crew United” [personale di bordo unito] rivestì un’enorme importanza, proprio nelle sedi in cui non si era ancora instaurato un rapporto tra il sindacato e i membri degli equipaggi. La coordinatrice del trasporto aereo di Ver.di Mira Neumaier racconta: “I primi 50,100 dipendenti in Germania si sono organizzati intorno al primo nucleo militante grazie al sito (…) E il sito ci ha accompagnato lungo l’intera vertenza. Grazie al sito quando in una sede era difficile avere un contatto fisico coi lavoratori , perché lì non conoscevamo nessuno, è stato possibile avere rapidamente un contatto pubblicando un messaggio online.
Insomma la tecnologia mette a disposizione un canale per contattare nuovi lavoratori, effettuarne una prima mappatura, inserirli nei gruppi Facebook creati per ogni aeroporto in cui Ryanair è presente, organizzare videoconferenze su Zoom, creare anche situazioni conviviali, versione virtuale della pausa caffè in ufficio, utili, come si è detto, a creare e consolidare un’identità collettiva. Allo stesso tempo, però, da lì si cerca di passare all’organizzazione di incontri fisici, ad esempio presso le abitazioni dei dipendenti. E si usa sempre una grande cautela per evitare di sovrastimare l’efficacia dell’attività virtuale. Come osserva Luigi Wolf, coordinatore della campagna di Ver.di tra i lavoratori della compagnia irlandese: “È importante non correre il rischio di sopravvalutare le proprie forze. Avere un gruppo ben funzionante su Whatsapp, insomma, non è sufficiente per decidere che i lavoratori sono pronti a scioperare”.
Anche per questa ragione serve una solida formazione che permetta agli organizzatori sindacali di acquisire le conoscenze necessarie a usare in modo appropriato le nuove tecnologie, imparando a utilizzarle per integrare il più tradizionale lavoro sul campo senza farsi prendere da facili entusiasmi. L’ultima parte dell’opuscolo affronta proprio questo aspetto.
Imparare dalle lotte
Mi è sembrato utile ricapitolare, pur in modo non esaustivo, i contenuti di Digital Organizing non solo perché essi ci permettono, come si è detto in apertura, di capire in quali esperienze pratiche e in quali elaborazioni teoriche affondino le proprie radici alcune mobilitazioni sindacali significative di questi ultimi anni (rider, Amazon, la logistica in generale) , ma anche perché questo serve a sfatare uno dei tanti luoghi comuni ricorrenti nel dibattito politico e sindacale italiano. Non è vero che il sindacato tedesco è più forte del nostro solamente perché riflette una condizione economica generale più avanzata della Germania rispetto all’Italia. C’è anche – e questo studio lo testimonia – una superiorità di natura strategica. La burocrazia sindacale che guida organizzazioni come IG Metall e Ver.di, pur dentro un impianto largamente riformista e concertativo, e per ragioni che non abbiamo qui il tempo di approfondire, è consapevole che per difendere se stessa dovrà continuare a difendere, in qualche misura, la propria base sociale. Sa che per riuscirci, tanto più in anni di rapido cambiamento dell’economia globale, accelerato dalla pandemia, e di altrettanto rapida avanzata dei colossi asiatici, serve una strategia che le consenta di non restare inerme di fronte all’aggressività di imprese che reagiscono mettendo in discussione il costo del lavoro. E mostra di essere abbastanza umile da imparare dai movimenti sindacali di altri paesi, persino da quelli tradizionalmente più deboli.
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