Partiti e politici
«Dagli al sindacalista!»
Non c’è niente di meglio di una polemica sulla macchina dello Stato – e relativa brutta figura internazionale – per dimenticare guai più grossi (una crisi che non finisce, un’emergenza umanitaria epocale, la minaccia del terrorismo islamista, il risorgere della destra radicale, ecc.) e tentare magari un bilancio parziale dell’esperienza renziana di governo.
L’episodio dell’assemblea dei lavoratori dei Fori, per nulla repentina, ma convocata per tempo, e che il MiBAC non ha provveduto a comunicare ai tour operator romani, ha tutta l’aria di una magnifica operazione mediatica studiata a tavolino. I turisti indignati, i titoli sui giornali, le centomila oche dei social network a starnazzare creano il clima ideale perché l’ineffabile Avv. Franceschini da F’rara (l’ideatore della «biblioteca degli inediti», ricordate?) potesse tirare fuori un decreto già pronto da mesi, quello che equipara musei e aree archeologiche a ferrovie ed ospedali e regolamenta l’attività sindacale di conseguenza.
Se ne sono lette davvero di magnifiche, sulla vicenda dell’assemblea. Si distinguono due sottosegretari: Francesca Barracciu – personaggio non nuovo alle reazioni scomposte – che nientemeno ha definito la convocazione di un’assemblea sindacale «un reato». Al secondo posto Ivan Scalfarotto, che vorrebbe il calendario delle assemblee sindacali pubblicato sul New York Times. In rete, pescando a caso, capita poi di leggere che i lavoratori cui non sono stati pagati gli straordinari dovrebbero smetterla con le assemblee e gli scioperi e semmai andare per avvocati e «chiedere il pignoramento dei beni della Pubblica Amministrazione».
Si ride per non piangere. Sappiamo bene quanto il sindacato sia da riformare – lo sanno gli imprenditori o i dirigenti degli enti pubblici, ma soprattutto lo sanno i precari, i sottoccupati e i disoccupati, cioè tutti quelli di cui il sindacato non si interessa. Sappiamo bene quanto siano antipatici gli scioperi del servizio pubblico, ad esempio nel settore dei trasporti. Sappiamo bene come a questo Paese non resti altro da vendere che le sue antiche rovine, e non sta bene far aspettare chi paga per vederle. Sappiamo bene come i dipendenti pubblici godano di tutele superiori a quelle dei dipendenti privati – situazione questa confermata dal Jobs Act, peraltro.
Sappiamo tutte queste cose, ma crediamo che sia davvero sciocco farne un bel frullato e concludere, secondo la vulgata renziana, che tutti i nostri problemi siano causati dal sindacato. Per quanto frequenti siano, non riesco ad abituarmi alle sparate del leader di un grande partito di sinistra che se la prenda non solo contro sindacati criticabilissimi da ogni punto di vista, ma contro l’idea stessa di rappresentanza dei lavoratori, in nome della famigerata disintermediazione.
Il nodo di tutta la faccenda sta a mio avviso qui, in questa orrenda espressione mutuata dal gergo finanziario. Il grande cavallo di battaglia del renzismo piace molto a ceti e categorie professionali per le quali la competizione senza limiti e la contrattazione individuale sono lo standard, e d’altronde come volete che possano ragionare il consulente finanziario freelance o l’addetto stampa del tal politico o l’artigiano alle prese con la crisi? Oggi il governo ricerca il consenso di queste categorie – che è cosa diversa dal favorire concretamente – anche o soprattutto attraverso l’attacco frontale ai già declinanti sindacati.
Sì, perché è evidente quanto il sindacato sia in crisi, in parte per gravi responsabilità proprie. Nella generazione successiva alla mia è quasi incomprensibile l’idea che gli interessi dei lavoratori possano essere rappresentati collettivamente. A un ventenne di oggi la parola sindacato suona, come dire, antica. Non ci sarebbe bisogno di maramaldeggiare, insomma, ma Matteo Renzi è un po’ fatto così, gli piace vincere facile, magari colpendo per primi i più deboli: il sindacato, prima di Confindustria. I dipendenti privati, prima di quelli pubblici. All’interno del pubblico impiego, i lavoratori del settore culturale, prima che di altri settori più ricchi. I subordinati, prima dei dirigenti, e così via. Dal giorno della “staffetta”, questo modus operandi era del resto già chiarissimo, ed è solo nel confronto coi suoi deprimenti oppositori di sinistra che Renzi poteva – e può ancora, di tanto in tanto – apparire vincente.
Ovviamente la retorica renziana non colpisce mai direttamente i lavoratori – sindacalizzati o meno – che partecipano materialmente allo sciopero, ma soltanto i sindacalisti, una minoranza che terrebbe da decenni in scacco un’intera nazione attraverso il proprio potere di mediazione. Nel teatro della parola della politica renziana, si nega l’esistenza del “vecchio” conflitto capitale-lavoro, ma persino si nega qualunque non corrispondenza di interessi diversi. L’interesse è uno solo, quello nazionale. I conflitti, in questa visione, esisterebbero soltanto perché una minoranza di mediatori professionali – i sindacalisti – ne trarrebbe un vantaggio parassitario.
Eppure è proprio attorno ai conflitti tra le varie categorie produttive che Renzi ha conquistato i maggiori consensi: le partite IVA contro i dipendenti, i dipendenti privati contro quelli pubblici, i precari contro i tutelati. Da tempo sono convinto che non andremo lontano senza che prima si sia concepita una sorta di «conferenza di pace» tra questi mondi, e ingenuamente avevo pensato che il giovane Matteo potesse esserne l’iniziatore. Mi sbagliavo di grosso, e pazienza se avremo preso l’ennesima cantonata con l’ennesimo leader speranza-della-Sinistra-e-dell’Italia. Il problema è che, ridotti ai minimi termini i sindacati, non saranno ridotti ai minimi termini i conflitti sociali. Anzi.
Se Matteo Renzi non riesce proprio a trovare nemmeno una buona ragione per apprezzare il Sindacato, provi a farsi raccontare la storia di Guido Rossa.
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In copertina, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini
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