Sindacati
A che gioco gioca Mittal? Interviste a B. Manganaro (FIOM) e J.-L. Ruffin (CGT)
A rompere gli indugi sono stati i genovesi entrando in sciopero la scorsa settimana, subito dopo la notizia della nuova cassa integrazione, e poi lunedì, il primo giorno della fase 2, con un’assemblea e una ‘passeggiata civile’, circa 500 lavoratori diretti dal quartiere di Cornigliano, nel ponente cittadino, verso la prefettura, dove nel pomeriggio era convocato un secondo incontro, dopo quello di sabato disertato dall’azienda. Il primo corteo post-lockdown, con tanto di mascherine e distanze di sicurezza. Il giorno dopo anche a Novi Ligure è partito lo sciopero col blocco dei varchi e il prefetto di Alessandria ha convocato le parti. Mentre sono già annunciati un nuovo sciopero, questa volta articolato e con blocco delle merci, giovedì a Genova e venerdì a Taranto due presidi, uno di FIM FIOM UILM davanti alla prefettura e uno di USB davanti ai cancelli, qualcuno parla di un corteo.
ArcelorMittal ha avviato una nuova ondata di cassa integrazione, 200 a Genova, circa un migliaio tra Taranto e Novi, impianto. quest’ultimo, che di fatto rimarrebbe fermo. Succede poche settimane dopo che l’azienda aveva ripreso alcune lavorazioni, facendo rientrare parte degli oltre 8.000 dipendenti in ‘cassa integrazione COVID’, mentre altri avrebbero dovuto rientrare lunedì. A Taranto i lavoratori interessati venerdì mattina hanno scoperto di essere di nuovo in cassa perché i loro badge erano stati disattivati. Il ministro dello sviluppo Patuanelli, che il 25 maggio incontrerà le parti, ha dichiarato sagacemente che la scelta di ArcelorMittal indica che il colosso della siderurgia non ha intenzione di restare in Italia. Più di così evidentemente il Governo non riesce a dire a un’azienda che di fatto sta facendo naufragare l’accordo concluso faticosamente ai primi di marzo e che quanto meno ritardava l’uscita del gruppo franco-indiano a fine anno.
Dopo un recente comunicato in cui snocciolava dati finanziari positivi Lakshmi Mittal sembra intenzionato a usare la crisi sanitaria e il suo impatto sul mercato dell’acciaio per riorganizzare la propria presenza in Europa e adattare la sua strategia industriale al nuovo contesto. Il punto è: in che misura ai dipendenti del gruppo vengono addebitati i costi dell’effettivo calo della domanda e in che misura invece la riorganizzazione delle attività risponde a scelte di altra natura? Poiché quello dell’acciaio è un mercato globale è impossibile rispondere a questa domanda senza analizzare le scelte dei protagonisti almeno a livello europeo. Per questo ci siamo rivolti sia a Bruno Manganaro, segretario generale della FIOM di Genova, che a Jean-Luc Ruffin, rappresentante di CGT Métallurgie nello stabilimento di Fos-sur-Mer vicino a Marsiglia e membro del CAE, l’organo di rappresentanza sindacale europea all’interno di ArcelorMittal. E abbiamo scoperto che così come in Italia AM sembra intenzionata ad accelerare i tempi dell’uscita da ILVA, in Francia la pandemia potrebbe essere (e in parte è stata) l’occasione per anticipare la chiusura o il ridimensionamento di alcuni impianti.
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GENOVA ‘Prima le deroghe per produrre ora la cassa, ma gli ordini ci sono’
Intervista a Bruno Manganaro, segretario generale FIOM CGIL Genova
Oggi è primo giorno della fase 2 e gli operai dell’ILVA a Genova sono già in sciopero e costretti a sfilare in una ‘passeggiata civile’ con tanto di mascherine e metro di distanza. Perché?
Perché l’azienda venerdì scorso ha comunicato senza preavviso né possibilità di discutere che più di mille dipendenti dovranno tornare in cassa integrazione e questo a Genova significa che in 200 dovranno tornare a casa a 750 euro al mese. Una decisione per noi assolutamente inaccettabile.
Perché contestate questa decisione?
Per diverse ragioni. A Genova su mille dipendenti circa 650 erano tornati in attività e non dimentichiamo che è stata ArcelorMittal, poche settimane fa, a chiedere l’autorizzazione per riavviare alcune attività in deroga alle chiusure decise dal Governo e produrre latta e acciaio zincato per impieghi essenziali, come il confezionamento di prodotti alimentari. Come sindacato abbiamo firmato due accordi per permettere di riavviare queste linee di produzione e allo stesso tempo garantire il rispetto delle distanze di sicurezza e delle altre prescrizioni del Governo.
L’azienda ha giustificato la scelta adducendo problemi di mercato…
Inesistenti, perché sappiamo che ci sono le commesse. L’azienda dice che alcuni clienti non stanno ritirando i prodotti, ma se i contratti sono firmati e validi non si capisce perché un ritardo nel ritiro della merce debba pesare sui dipendenti. Le aziende spesso sono costrette a ‘fare magazzino’.
Quindi voi sostenete che in realtà ArcelorMittal sta usando la scusa del Covid per fare cassa.
Per fare cassa due volte. Primo perché lascia la gente a casa a spese dell’INPS, secondo perché la cassa autorizzata dal Cura Italia per le aziende è più conveniente di quella usata abitualmente per le crisi di mercato. Il Governo, infatti, vista l’emergenza, ha concesso alle imprese condizioni di maggior favore, ad esempio di non versare la quota di contributi normalmente a loro carico. Ma qui l’emergenza non c’entra, perché, lo ripeto, le commesse ci sono e quindi a nostro avviso di tratta di un vantaggio ingiustificato. A questo si aggiunge che l’azienda ha spedito le lettere ai lavoratori con la comunicazione che sarebbero tornati in cassa prima che il decreto che autorizza altre 9 settimane uscisse. A oggi quel decreto non è ancora in vigore. Per questo domani presenteremo un esposto alla magistratura per chiedere di accertare se sussistono quelle che secondo la FIOM sono evidenti irregolarità.
Come vivono questa situazione i lavoratori genovesi?
Con rabbia, da una parte perché si tratta di lavoratori che nel corso della lunga ristrutturazione aziendale e grazie all’accordo di programma strappato una quindicina di anni fa avevano già sperimentato lunghi periodi di cassa integrazione, ma con l’integrazione salariale al 100%, anche attraverso il coinvolgimento in progetti di lavori socialmente utili di cui ha beneficiato la città. Tra parentesi: a Genova c’è una lunga tradizione di intervento dei lavoratori dell’acciaieria a fianco della cittadinanza, come nel 2011, quando hanno formato delle squadre per liberare i quartieri dal fango dopo l’alluvione o quando, nelle scorse settimane, hanno preso parte a un’iniziativa organizzata da ANPI, CGIL e dall’associazione Logos per portare la spesa a domicilio agli anziani. E questo spiega la simpatia di cui godono da parte della cittadinanza. Per tornare alla domanda: proprio mentre sembrava che ci si stesse riavvicinando alla normalità è arrivata la doccia fredda. Andare avanti con 750 euro al mese significa una riduzione drastica degli stipendi, tanto più che nella siderurgia, viste le caratteristiche della produzione, si fanno i turni e quindi mediamente i salari sono più alti che nel resto del settore metalmeccanico.
Non è possibile trovare una mediazione?
Noi siamo sempre pronti a concludere delle buone mediazioni, il problema è che per fare una mediazione bisogna essere in due. Sabato all’incontro convocato dal prefetto, con la presenza nostra, del sindaco di Genova Bucci e del governatore Toti, l’azienda non si è presentata, dando uno schiaffo alle istituzioni locali e al Governo. Oggi pomeriggio, alla seconda convocazione in prefettura non sono venuti fisicamente. Hanno presenziato in collegamento telefonico, ma senza fornire risposte alle nostre osservazioni e senza recedere di un passo dalle loro posizioni.
E’ solo una questione di cassa o è un atteggiamento che rientra nel braccio di ferro col Governo che va avanti da ormai oltre un anno? Jean-Luc Ruffin, che abbiamo intervistato poco fa, osservava che sembra che AM stia facendo di tutto per disimpegnarsi dalla partita ILVA.
Sicuramente ci sono più aspetti che si sommano. Alcuni giornali, il Foglio per primo, hanno fatto notare anche che le lettere sono arrivate dopo che il Governo aveva rifiutato ad AM una garanzia da 400 milioni di euro. Non possiamo neanche escludere che ci sia un gioco di pressioni sui diversi governi europei per strappare condizioni migliori localmente. Qualche settimana fa, proprio a Fos-sur-Mer, l’azienda ha annunciato il fermo del secondo altoforno, ora arriva la riduzione dell’attività a Genova, Novi Ligure e Taranto. Per questo ci teniamo in contatto coi lavoratori di Fos-sur-Mer e negli anni passati è nato un coordinamento dei consigli di fabbrica della siderurgia europea che tiene dentro lavoratori di diversi paesi, tra cui Italia, Francia e Spagna. Poco fa abbiamo ricevuto un comunicato di solidarietà dai delegati della CGT di ArcelorMittal Méditerranée. Oggi problemi come quelli dell’acciaio non hanno soluzione se non vengono affrontati almeno a livello europeo e su questo però complessivamente il sindacato ha ancora molta strada da fare. Ma è una questione che credo valga più in generale: o c’è una risposta sindacale europea alla crisi, in questo come negli altri settori colpiti, o difficilmente i lavoratori ne usciranno bene.
Quali sono le prossime iniziative, a parte l’esposto di cui parlavi?
Domani ci sarà un’assemblea e i lavoratori decideranno quali iniziative prendere. Certo è che cercheremo di mettere in campo delle azioni compatibili con la situazione sanitaria e che allo stesso tempo ci consentano di colpire l’azienda nei suoi interessi.
A proposito di situazione sanitaria la ‘camminata’ di stamattina è stata un po’ una forzatura, cosa che vi è stata fatta presente dalle autorità.
La risposta è molto semplice, se è possibile andare a lavorare dev’essere possibile anche fare assemblee e manifestare. Per noi questa è la prima regola.
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FOS-SUR-MER ‘Impianti fermi, in gioco il futuro della siderurgia fancese’
Intervista a Jean-Luc Ruffin, rappresentante CGT nel CAE ArcelorMittal
Che impatto ha avuto il Covid sui lavoratori francesi in generale?
Dal 16 marzo il Governo ha messo in atto una serie di misure di contenimento che hanno colpito tutta l’economia, in particolare ad esempio gli alberghi e il comparto del turismo. La maggior parte dei francesi è stata sottoposta a misure di ‘confinamento’ a casa loro. Nella stessa settimana il Governo ha introdotto anche provvedimenti sul lavoro a orario ridotto, un sistema che prevede il pagamento del 70% della retribuzione lorda, cioè l’84% del salario netto (omologo francese della cassa integrazione, NdT). Nelle prossime settimane l’impatto sulle attività dipenderà dall’evoluzione della pandemia. In teoria il governo potrebbe intervenire per far ripartire bar e ristoranti a metà giugno. Oggi, ad esempio, sono stati aperti alcuni piccoli musei, sempre con alcune misure di sicurezza da rispettare.
E sui dipendenti di ArcelorMittal?
Per quanto riguarda ArcelorMittal, come la maggior parte delle imprese industriali ha continuato a lavorare, pur con una riduzione significativa della produzione, di circa il 50%. I nostri stabilimenti hanno continuato a funzionare e dal 16 marzo hanno dovuto rapidamente mettersi in regola con le prescrizioni sul distanziamento fisico dei lavoratori, quindi in una decina di giorni si è dovuto fare il minimo indispensabile per mettere in sicurezza i siti, ad esempio installare schermi di plexiglas per separare gli operatori, fogli di acetato sulle scrivanie, mettere a disposizione dei dipendenti gel detergenti e prodotti per l’igiene. In molti siti le organizzazioni sindacali, principalmente la CGT, hanno attivato le procedure di segnalazione di ‘pericolo grave e imminente’ previste dalla legge, perché all’inizio l’azienda non aveva messo a disposizione i mezzi necessari per mettere in sicurezza la salute dei lavoratori.
Ci sono stati degli scioperi come in Italia?
No, non c’è stato bisogno di scioperare, ma c’è stata una reazione dei lavoratori affinché la direzione intervenisse per mettere il più rapidamente possibile a disposizione i dispostivi necessari: le barriere, le mascherine, il gel detergente. E’ una fase che è durata una decina di giorni, dal 19 al 29 marzo all’incirca. Ci sono state situazione analoghe anche in altri settori, basti vedere le procedure che sono state depositate alla Renault in Normandia o in altre situazioni, dove i lavoratori si sono trovati a operare senza i mezzi adeguati per proteggersi dalla pandemia.
E dal punto di vista produttivo?
Dicevo prima che le imprese come AM hanno subito una perdita di circa il 50% della produzione. A Fos-sur-Mer, dove lavoro io, abbiamo perso una quota superiore e dopo il 23 marzo un altoforno è stato fermato. All’incirca nello stesso periodo anche l’acciaieria di Dunkerque, che ha tre forni, ha fermato il primo verso il 30 marzo e all’inizio di aprile il secondo, uno dei più grossi, che rappresenta all’incirca la metà della loro produzione. Negli stessi giorni a Fos-sur-Mer ci hanno annunciato che il nostro portafoglio ordini era orientato al 60% al mercato italiano e a quello spagnolo e che questi mercati erano totalmente fermi, per cui l’azienda avrebbe fermato anche il secondo altoforno. In termini operativi significa che dovrà installare un impianto misto, a gas naturale e azoto, per tenere in temperatura la cokeria ed evitare che il materiale refrattario che riveste i forni si deteriori. Mentre sul piano occupazionale vuol dire di fatto fermare l’acciaieria e mettere in attività parziale l’80% della forza-lavoro del sito, che in totale ammonta a 2.500 persone.
Cioè all’84% dello stipendio?
In realtà nel frattempo il Governo ha annunciato una riduzione dell’indennità al 57% della retribuzione lorda, il 70% di quella netta. Perciò questo ulteriore fermo avrebbe un impatto notevole sulla condizione dei lavoratori e potrebbe produrre delle complicazioni finanziarie a seconda della condizione economica delle loro famiglie. Al momento il 45% dei dipendenti è presente nel sito e operativo, circa il 10% in telelavoro, principalmente gli uffici commerciali e tutte le funzioni ausiliarie, mentre solo il 26% è stato messo in disoccupazione parziale. E la parte restante o è in malattia o usufruisce dei congedi a disposizione per badare ai figli piccoli, dal momento che molte scuole sono ancora chiuse.
Quali sono le prospettive?
Dopo l’annuncio del fermo i commerciali in una decina di giorni sono riusciti a recuperare delle commesse supplementari in Italia, Turchia e Spagna e queste ci permetteranno di rimanere in attività almeno fino a fine luglio, un altro paio di mesi. Ma l’inquietudine tra i lavoratori rimarrà alta fino a quando non riusciremo ad avere un livello di ordini sufficiente ad assicurare il lavoro anche nei mesi che seguiranno. Del resto se ci guardiamo attorno vediamo che a Florange i due forni sono stati messi in stand by e non sono più stati riavviati e la stessa cosa è successa ai nostri colleghi a Liegi in Belgio. Il nostro sito è stato creato nel 1974 e non è mai stato fermato e per questo oggi, di fronte a questa prospettiva, i lavoratori sono preoccupati.
Come sindacato come vi state muovendo?
Oggi siamo intervenuti sulle autorità locali e nazionali attraverso i deputati di qui, ma anche quelli eletti nel nord della Francia, che dovrebbero premere sul Governo perché intervenga su ArcelorMittal France, ma soprattutto perché difenda la siderurgia francese, che è un’attività strategica per numerose filiere – auto, edilizia, robotica ed elettrodomestici sono tutti settori che dipendono dall’acciaio. Il Governo ha predisposto un piano da 100 miliardi di euro per difendere l’industria e permetterle di superare questa che è iniziata come una crisi sanitaria ma sta proseguendo come crisi economica. Mercoledì i deputati eletti qui incontreranno le autorità locali, cioè il sindaco, il prefetto e la regione e se è confermato ci dovrebbero essere anche i sindacati e la direzione dello stabilimento e sarà un’occasione per discutere il futuro dello stabilimento di Fos-sur-Mer e della siderurgia a livello nazionale.
E’ solo un problema di mercato o la crisi è anche l’occasione per una riorganizzazione interna?
In questi giorni AM ha fermato definitivamente la cokeria di Sèremange, quella che alimentava i forni di Florange. I piani che l’azienda ci aveva comunicato in realtà prevedevano che lo spegnimento sarebbe avvenuto da qui al 2022 in base alla congiuntura economica. Dunque i due forni di Florange sono fermi e la cokeria che doveva alimentarli è stata spenta definitivamente e questo comporta una ricollocazione dei dipendenti nella cokeria di Dunkerque e nelle attività a valle presenti a Florange, mentre altri avranno la possibilità una riqualificazione per mettere su un’attività autonoma.
Puoi descriverci brevemente il peso di ArcelorMittal in Francia? Quanti stabilimenti e quanti dipendenti lavorano per il gruppo?
Oggi AM in Francia ha circa 16.000 dipendenti, nel 2006 erano 27.000, una diminuzione significativa, così come, più in generale, a livello europeo al momento della fusione tra Arcelor e Mittal c’erano 132.000 dipendenti che oggi sono ridotti a 78.000. Per quanto riguarda i siti ci sono decine di piccole sedi con 30-40 dipendenti, mentre gli stabilimenti più importanti sono quelli da cui escono i prodotti in acciaio piatto al carbonio. Nel nord fanno parte di ArcelorMittal France, che ha otto siti produttivi, di cui Dunkerque e Florange sono i più grandi, più altri minori distribuiti in tutta la fascia settentrionale del paese. Tra questi c’è un impianto vicino a Nantes che opera nel settore del packaging alimentare e quindi ha visto la produzione crescere, in controtendenza, trainato dalle spese fatte soprattutto all’inizio della pandemia, quando le famiglie sono state spinte ad accumulare delle riserve alimentari nelle loro dispense. Per quanto riguarda il sud della Francia, dunque ArcelorMittal Méditerranée, ci sono Fos-sur-Mer e Saint-Chely d’Apcher, nel Lozère, a circa 350 chilometri da noi, dove si produce acciaio utilizzato principalmente per costruire motori elettrici. Anche qui c’è stato un periodo di riduzione dell’attività, ma ora ha ripreso al 100%, perché il settore dell’auto elettrica non ha avuto gravi contraccolpi a causa della pandemia.
Tu fai parte anche del CAE, la struttura sindacale che rappresenta i dipendenti europei di AM. Che ruolo svolge e perché è fondamentale agire a livello almeno europeo?
Al momento abbiamo in corso una rinegoziazione che riguarda il funzionamento stesso del CAE e quindi dovremo riunirci per discuterne, ma la posizione della direzione è di ridurre sia il numero dei membri sia le risorse a disposizione. La crisi sanitaria ci ha impedito di riunirci. Inizialmente c’era la proposta di organizzare incontri virtuali, ma su questo sono stato uno dei primi a intervenire e sono stato seguito dalla maggior parte dei membri del CAE, che non pensa assolutamente che si possano fare della trattative in videoconferenza. Stiamo lavorando con IndustriAll per formulare posizioneuna unitaria che rappresenti tutti i lavoratori ed è chiaro che in una trattativa virtuale non è possibile, ad esempio, chiedere delle interruzioni per discutere tra noi, sarebbe troppo complicato, per cui questo genere di trattative non può avvenire che con la presenza fisica. Dunque abbiamo detto semplicemente che non è possibile andare avanti a negoziare in questo periodo di crisi. Quindi penso che la prossima riunione avverrà sicuramente dopo l’estate.
E per quanto riguarda il coordinamento e lo scambio di informazioni?
Da questo punto di vista i mezzi digitali ci hanno consentito di avere degli scambi più regolari per condividere informazioni su ciò che avviene nei diversi paesi in cui AM è presente. Ma il problema principale con la direzione riguarda lo scambio di informazioni. Al momento infatti non abbiamo nessuna idea di quale sarà la strategia del gruppo, almeno per il secondo semestre 2020. Di recente abbiamo avuto delle informazioni sulla situazione economica grazie a un comunicato del signor Mittal, che ci ha detto che i debiti sono diminuiti, che il gruppo ha ottenuto nuove linee di credito, che il livello di cash flow è sufficientemente elevato, quindi la situazione è più stabile che nel 2008-2009, ma ciò che manca è che non sono sufficientemente visibili le scelte fondamentali.
A Genova oggi si sciopera. Sei al corrente e che idea ti sei fatto della situazione?
Ho letto alcune notizie che arrivano dall’Italia anche attraverso il materiale interno che circola in azienda e so che a Genova e a Taranto ci sono delle forti riduzioni delle attività e a Novi Ligure il fermo totale e ho l’impressione che l’azienda stia cercando con tutti i mezzi di disimpegnarsi anche se questo significherà dover pagare delle penalità.
E a conferma che da Fos-sur-Mer si osserva con attenzione l’Italia poche ore dopo il nostro colloquio veniva diffuso un comunicato dei delegati della CGT:
‘Cari compagni,
Di recente abbiamo appreso degli ultimi eventi che hanno interessato i metalmeccanici dell’ex ILVA e gli annunci di un maggiore uso della cassa integrazione con il pretesto della crisi sanitaria.
Siamo profondamente scioccati dalla brutalità dei metodi utilizzati dal gruppo Mittal in questo periodo di crisi sanitaria.
Come temevamo, nei nostri rispettivi paesi, coloro che di solito chiedono sempre tagli alla spesa pubblica e ai contributi padronali chiedono ora maggiori aiuti pubblici. Ciò non è accettabile: per loro si tratta di privatizzare i profitti e nazionalizzare le perdite.
Siamo lieti della reazione immediata della FIOM di Genova, che da venerdì 15 maggio pomeriggio si è espressa per denunciare le manipolazioni del gruppo: la mobilitazione di questa mattina per le strade di Genova è anche il segno di una ferma determinazione.
Appena possibile, gli operai di Fos sur Mer marceranno assieme agli operai di Genova.
Siamo naturalmente impegnati con voi per porre fine a questo ricatto sul lavoro legato agli aiuti del governo, e siamo consapevoli che le risposte a tutti questi problemi devono essere prese al giusto livello, che è quello dell’Europa, per questo possiamo solo sperare in un intervento forte e rapido che verrebbe dal nostro Coordinamento europeo.
Sappiate che i lavoratori di Fos-sur-Mer vi offrono tutto il loro sostegno e la loro solidarietà, saremo al vostro fianco nei prossimi mesi.
Fraternamente.
Delegati CGT, ArcelorMittal Méditerranée’
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