Famiglia

Reversibilità. È bene sapere che …

15 Febbraio 2016

Finalmente! Mi verrebbe da dire, sia pure con una certa amarezza. Finalmente è giunta agli onori della cronaca una tipologia di famiglia in genere assolutamente invisibile nel dibattito pubblico: la cosiddetta (definizione orribile, ma tant’è) «famiglia vedova».

Com’è noto, in questi ultimi giorni, a seguito dell’allarme lanciato dal segretario generale della SPI CGIL, Ivan Pedretti, si è fatto un gran parlare  di reversibilità (ovvero il trattamento previdenziale erogato ai superstiti del pensionato o del lavoratore – che ne abbia maturato il diritto – deceduto). In Commissione Lavoro alla Camera è in discussione un disegno di legge delega che, fra i tanti interventi previsti di razionalizzazione e riordino delle misure di contrasto alla povertà, contiene una proposta grave, dagli esiti potenzialmente disastrosi.  Leggiamo le parole di Pedretti, a partire dalle quali si è originata la polemica, fra attacchi al Governo e imbarazzate smentite:

Provo a spiegarlo con parole semplici, vista la complessità della materia: secondo questo disegno di legge le reversibilità vengono considerate prestazioni assistenziali e non più previdenziali. Che cosa significa e che cosa comporta tutto questo? Significa che l’accesso alla pensione di reversibilità d’ora in poi sarà legata all’Isee, per il quale conta il reddito familiare e non quello individuale. Di conseguenza il numero di coloro che vi avranno accesso inevitabilmente si ridurrà e saranno tante le persone che non si vedranno più garantito questo diritto.

Lo so. Quando si parla di vedovanza, ai più vengono immediatamente in mente  vecchiette curve e tristi, vestite a lutto, che passano i loro pomeriggi al cimitero o in tetra solitudine in appartamenti bui, colmi di ricordi polverosi. O magari in Chiesa, a biascicare giaculatorie con il rosario in mano. Accanto a questo stereotipo, oggi se n’è aggiunto un altro: la giovane e prestante badante dell’est che si sposa il vecchietto rincitrullito con l’intento di mettere al più presto le mani sulla sicura rendita costituita dall’assegno di reversibilità.

Come spesso accade, la situazione è assai più complessa e variegata di quanto il luogo comune lasci intendere. Nel 2015 i vedovi risultano essere 741.760, le vedove 3.782.095 (fonte). Sulla base dei numeri, è chiaro che, seppure l’iniziativa del Governo dovesse riguardare le prestazioni future e non quelle già in essere, sarebbero comunque colpite soprattutto le donne (notoriamente già discriminate rispetto agli uomini per quanto riguarda accesso al lavoro e retribuzione). E vedove non sono solo le vecchiette o le badanti di cui sopra: ma anche donne più o meno giovani, magari con figli a carico che, di botto,  si trovano costrette a far quadrare non solo i conti emotivi rispetto al lutto che le ha colpite ma anche quelli ben più prosaici del bilancio familiare.

Già ora, dal punto di vista fiscale, le «famiglie vedove» sono  soggette ad una vera e propria tassa sulla vedovanza, per effetto del comma 41 dell’art. 1 della legge 335/1995 (Dini). Non entro nei dettagli tecnici (si veda qui, direttamente alla fonte, come funziona attualmente la reversibilità),  mi limito alle conseguenze. Quando uno dei coniugi muore, le spese del nucleo familiare, soprattutto in presenza di figli minori o comunque non ancora autosufficienti, non diminuiscono affatto: il mutuo o l’affitto vanno pagati, le bollette restano quelle, le spese per i figli sono sempre impegnative, etc etc. Ma il reddito sì, diminuisce in modo significativo, e in linea generale ciò che viene penalizzato di più dal punto di vista fiscale, per effetto del divieto di cumulo fra reddito e pensione ai superstiti,  è proprio il lavoro femminile (di fatto può persino accadere che una vedova che lavori percepisca complessivamente di meno rispetto ad una vedova che non abbia mai lavorato).

Si veda ad esempio il mio caso ( perché, per mia disgrazia, sto parlando di un tema che conosco direttamente). Come  accennato sopra, l’assegno di reversibilità, per effetto della legge Dini, è già legato al reddito. Il 60% erogato al coniuge, se quest’ultimo lavora o ha altri redditi pensionistici, viene decurtato fino al 50%. In altri termini, la sottoscritta che fa la prof di liceo (e non la capitalista), se non avesse un figlio studente universitario in pari con gli esami, percepirebbe il 30% del trattamento di reversibilità. Per ora arrivo all’80% : almeno fin quando mio figlio studierà (mantenendosi in corso) e non compirà 26 anni. Tuttavia, per quanto riguarda la quota parte spettante a mio figlio, pur essendo esigua, è sufficiente a non farlo ritenere a mio carico: per questo motivo non posso detrarre nessuna delle spese che sostengo per mantenerlo come studente universitario fuori sede, né le spese mediche che lo riguardano (l’altra figlia, che comunque studia e non lavora, è fuori dai limiti di legge e non percepisce un bel niente). Nè può farlo direttamente lui, dal momento che il suo reddito, essendo basso, non consente ritenute (e quindi nemmeno detrazioni).  Si aggiunga il fatto che in sede di liquidazione del 730, il conguaglio fiscale mi impone di pagare delle cifre esagerate (per dire, a novembre, del mio stipendio di insegnante è rimasta la fantastica cifra di 58 euro), dal momento che reversibilità e stipendio sono tassati diversamente e non c’è modo di convincere l’INPS a spalmare le tasse dovute sull’intero anno (la botta arriva tutta insieme). In sintesi: da quando sono rimasta vedova, sei anni fa, mi sono ritrovata a pagare, in proporzione, a fronte di spese (per la casa, per i figli etc) che sono rimaste le stesse, molte più tasse di quando eravamo in due, e con un reddito complessivo significativamente diminuito. Il che sta prosciugando i miei risparmi. E sì, ammetto di essere fortunata (si fa per dire): in fondo lavoro e in qualche modo la mia famiglia riesce a cavarsela. Per il futuro vedremo: la mia salute reggerà? i miei figli troveranno lavoro? diventeremo anche noi un ulteriore triste esempio dell’impoverimento progressivo e irreversibile del cosiddetto ceto medio? Chissà.

In ogni caso davanti alle difficoltà che già io affronto quotidianamente, non oso pensare a quelle nelle quali si troveranno in futuro le donne nelle mie stesse condizioni, o in condizioni peggiori,  se il provvedimento dovesse passare. Certo, la dichiarazione via Facebook di  Gianni Cuperlo, postata poco fa, sembrerebbe stemperare il clima:

È bene che questo punto [la riforma della reversibilità] sia stralciato dal provvedimento sulla povertà (richiesta rinnovata da Damiano al Tg3 immagino) perché interventi sulle prestazioni previdenziali non devono stare in un ambito come quello. E per una ragione di sostanza: non si possono più utilizzare le risorse della previdenza per altri fini che non siano un miglioramento e un consolidamento del sistema previdenziale, a partire dal superamento delle regole più dure e cieche che la legge del 2011 ha introdotto (soprattutto a danno delle donne).

Le pensioni ai superstiti sono trattamenti previdenziali e tali devono rimanere; è altrettanto vero che già nel passato sono stati stabiliti dei limiti per cumulare la reversibilità con i redditi propri del superstite (si veda la tabella F della legge 335 del 1995).

Si possono usare altri parametri? Risulta che anche per l’INPS e la Ragioneria dello Stato il riferimento all’Isee sia  un’operazione “particolarmente complessa” (a una richiesta della Commissione Lavoro di verificarne possibili effetti non è stata data risposta, adducendo appunto quella particolare complessità).

In ogni caso il tema non è questo, visto che già si fa riferimento al reddito nella normativa vigente (non per determinare il valore della pensione di reversibilità, che appunto è un trattamento previdenziale, ma la percentuale di cumulabilità con il reddito proprio del superstite).

La cosa importante è questa: non è accettabile immaginare un intervento di riduzione, anche in prospettiva, delle pensioni di reversibilità.

Si tratta di pensioni basse, anche in caso di molti contributi versati, visto che per il coniuge la reversibilità si calcola al 60% del valore della pensione del defunto.

Chi ha solo quel reddito, molto spesso è spinto davvero sotto la soglia di povertà. Si tratta soprattutto di donne (che hanno una aspettativa di vita più lunga, ma non vale allo stesso modo per l’aspettativa di vita in salute).

Per chi ha un reddito proprio, la reversibilità è decurtata già ora in base al reddito.

Va aggiunto che le pensioni medie delle donne sono inferiori del 30% rispetto a quelle degli uomini: anche le quote di reversibilità che si aggiungono alla pensione propria di quelle donne non copre la disparità che si crea tra pensioni delle donne e pensioni degli uomini: per il divario retributivo, per i buchi di contributi dovuti alle interruzioni del lavoro per la nascita dei figli o per il lavoro di cura degli anziani. E questo non vale solo per il passato, ma in gran parte anche per il presente e il futuro.

E allora:

1) dalla previdenza non si possono portare via altre risorse.

2) le pensioni di reversibilità non sono prestazioni assistenziali, ma previdenza, frutto di contributi versati.

3) le pensioni di reversibilità non sono un regalo alle donne che hanno retribuzioni mediamente inferiori, anche per discriminazioni nelle carriere lavorative; il lavoro di cura le ha spesso costrette a lasciare il lavoro “fuori casa”; semmai, allora, le risorse spese in Italia per le pensioni ai superstiti compensano in qualche misura tutte le altre ingiustizie che le donne vivono nel lavoro e nel rapporto con la previdenza.

4) l’intervento sulle pensioni di reversibilità non ha nulla a che fare con un buon provvedimento per il contrasto alla povertà; e quindi che si tolga da lì.

Insomma, la posizione mi pare chiara e l’impegno a evitare qualunque intervento netto.

Una dichiarazione che consola, ma non rassicura: perché, ammettendo che il punto in questione venga stralciato (come chiedono  Cuperlo e Damiano), resta l’impressione che si sia tentato comunque il colpo di mano, fidando sul fatto che le vedove non sono una lobby e non hanno, come dire? forza contrattuale. Sono, come dicevo in partenza, praticamente invisibili e le loro difficoltà non fanno testo, nonostante il dibattito tutto ideologico sulla famiglia sia accesissimo***.

Inoltre il parere della commissione Lavoro non è vincolante: si tratta di una legge delega del Governo e già in passato, in circostanze simili,  l’esecutivo non ha tenuto conto dei suggerimenti del Parlamento. Per il momento il pericolo sembra scongiurato:  ma dobbiamo ricordare che Renzi già da sindaco aveva dichiarato guerra agli assegni di reversibilità (tirò strumentalmente in ballo persino sua nonna). Insomma, ci hanno provato, ci stanno provando, ci proveranno ancora.

 

*** A questo proposito va detto che il tentativo da parte di alcuni di legare la polemica sulla reversibilità alla discussione sulle unioni civili è, a mio avviso, frutto di uno sciacallaggio politico di bassissimo livello.  Estendere diritti a chi non ne ha (e in questo senso il ddl Cirinnà è davvero, come è stato detto, il minimo sindacale) non significa drenare risorse in ambiti già abbondantemente salassati in passato, e con la complicità della politica tutta, compresi coloro che oggi si indignano e frequentano abitualmente i vari family day. 

 

 

 

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