Previdenza
Fondi pensione e Casse, il presidente della Covip dà la sveglia alla politica
L’assenza di un regolamento sugli investimenti delle Casse di previdenza professionali, un mondo che riguarda la pensione di 1,5 milioni di persone iscritte a enti come Enpam, Enarsarco, Inarcassa e molti altri. La situazione di istituti previdenziali troppo esposti sull’immobiliare o con i bilanci in rosso come l’Inpgi. Il rischio che l’industria nazionale della previdenza complementare resti spiazzata, per ragioni fiscali, dall’introduzione della “libera circolazione” dei prodotti pensionistici europei. Questi i temi al centro dell’intervista che Mario Padula, l’economista che dal 2016 presiede la Commissione di vigilanza sui fondi pensione (COVIP), ha concesso a Stati Generali. A un mese circa dalla presentazione della relazione annuale dell’Autorità di vigilanza, attesa per il 7 giugno alla Camera dei deputati, l’incontro è stato l’occasione per fare il punto sulla stato della previdenza complementare in Italia. Ne viene fuori un taccuino di appunti sicuramente utile per chi, a breve, dovrà assumere la guida del Paese. Chissà che si riesca finalmente ad avere un provvedimento atteso dal 2011 ma tenuto nel cassetto da ben quattro governi.
Professor Padula, cinque anni fa un rapporto Censis commissionato dalla Covip indicava che la previdenza complementare è sconosciuta ai più. Come è il quadro oggi?
A fine 2017 il numero complessivo di iscritti a forme pensionistiche complementari, al netto delle uscite, supera gli 8 milioni, di cui circa 6,2 milioni di posizioni sono adesioni di lavoratori dipendenti. C’è stata una crescita di circa il 7%, per un patrimonio complessivo accumulato di oltre 160 miliardi di euro.
Come siamo posizionati rispetto ad altri Paesi?
Quando si fanno questi confronti, è bene ricordare le profonde differenze negli assetti previdenziali, sia per quanto riguarda l’articolazione su uno o più pilastri, sia per il peso di ciascun pilastro. Per fare un esempio, nei Paesi Bassi, le attività della previdenza complementare sono pari al 181% del Pil contro il nostro 9,4 per cento. Ma parliamo di un Paese dove i fondi pensione fanno la parte del leone e il primo pilastro, quello della previdenza pubblica, è esiguo. L’Italia, pur avendo uno dei tassi di contribuzione del primo pilastro fra i più elevati – il secondo più alto dopo l’Ungheria –, occupa comunque una posizione di classifica intermedia.
Bisogna forse aumentare gli incentivi?
Da economista non posso che rispondere a questa domanda partendo dai numeri attuali. Oggi la contribuzione media alla previdenza complementare è di circa 3mila euro per i dipendenti e di 2mila per gli autonomi. Ben al di sotto, dunque, dal tetto di deducibilità di 5.164,57 euro previsto dalla normativa fiscale italiana. Gli incentivi attuali, in altri termini, non vengono sfruttati appieno.
Molti non sono in condizione di beneficiare delle deduzioni, non avendo reddito a sufficienza o occupazioni stabili.
In effetti, in un mondo in cui le carriere continue non sono più la regola, chi ha un reddito basso e non continuativo non solo avrà pensioni basse ma può non riuscire a sfruttare appieno la deducibilità dei versamenti. Nel Regno Unito chi non si avvale in tutto o in parte della deduzione in un certo anno fiscale può riportarla negli anni fiscali successivi.
In Italia i rendimenti maturati dai fondi pensione sono tassati, a differenza che in altri Paesi Ue.
È un tema di politica fiscale. Modelli diversi di tassazione hanno ricadute diverse sui saldi di finanza pubblica. Tuttavia, a questo proposito, è utile ricordare che l’introduzione dei PEPP (Pan-european Personal Pension, ovvero prodotti pensionistici individuali con caratteristiche standard a livello Ue) renderà possibile per i cittadini dell’Unione acquistare prodotti pensionistici in un Paese diverso da quello di emissione.
Succederà quindi che i risparmiatori italiani compreranno prodotti emessi negli altri Paesi Ue, o che le società italiane, pur di rimanere competitive, ricorreranno all’estero-vestizione dei loro prodotti?
In effetti, I PEPP aprono la strada anche alla possibilità di arbitraggi fiscali. Il risparmiatore cercherà di avvantaggiarsi delle differenze di trattamento fiscale di prodotti sostanzialmente simili. Per fare un esempio, un PEPP di una società lussemburghese sarà assoggettato alle regole fiscali del Lussemburgo, dove i rendimenti sono esenti, indipendentemente da dove il prodotto è acquistato. Se quel PEPP venisse venduto in Italia, i risparmiatori italiani si troverebbero di fronte ad un prodotto simile ai PEPP di società italiane, ma con più favorevole trattamento fiscale dei rendimenti.
Che impatto si può prevedere allora sull’industria previdenziale nazionale?
Questa situazione potrebbe determinare un effetto di spiazzamento a favore dell’industria finanziaria di altri Stati membri, con prevedibili ricadute occupazionali su cui non voglio entrare ma che certamente in una riflessione ampia vanno tenute in considerazione. L’industria finanziaria ed assicurativa italiana rischia di trovarsi in una situazione di potenziale svantaggio competitivo rispetto ai concorrenti europei. Va perciò valutata l’opportunità di superare le differenze nei regimi fiscali anche in funzione della possibilità dell’industria italiana di affacciarsi su altri mercati Ue.
Negli ultimi anni, sull’onda di scandali che hanno coinvolto alcune Casse di previdenza professionali, si sono levate molte voci critiche sull’attività di vigilanza.
[Il Presidente tira fuori dal cassetto un raccoglitore contenente tutta la normativa di vigilanza su Fondi pensione e Casse. È alto come una risma di fogli A4. Poi, con l’indice solleva la parte relativa ai fondi: fa quasi i 4/5 del totale]. Questo faldone chiarisce molto di cosa fa e può fare oggi COVIP. Gran parte del nostro lavoro è rappresentato da un’attività di vigilanza ad ampio spettro sulla previdenza complementare, i fondi pensione per intenderci. Più limitate sono le competenze sulle Casse professionali: queste ultime, solo dal 2012 rientrano nel perimetro di vigilanza della COVIP, e solo per il profilo degli investimenti.
Proprio gli investimenti di alcune Casse hanno causato danni agli iscritti. Per di più manca ancora il regolamento previsto da una legge del 2011.
Noi lo chiediamo ad ogni occasione pubblica e quasi in ogni missiva con le autorità ministeriali di riferimento. Purtroppo la procedura di adozione di questo regolamento, avviata da anni, non si è ancora conclusa. Allo stesso modo, non perdiamo occasione di ricordare che da quando alla COVIP sono stati affidati i compiti di controllo sugli investimenti delle Casse professionali, la dotazione finanziaria della Commissione non è stata adeguata. Il risultato è che al momento la vigilanza sulle Casse la pagano gli iscritti ai fondi pensione: e questo è iniquo. Ci sono perciò ragioni e di efficacia e di equità che suggeriscono di estendere anche alle Casse il medesimo meccanismo di contribuzione previsto per i fondi pensione (0,5 per mille dei flussi contributivi annuali, ndr).
Per quali ragioni le Casse si oppongono alla bozza del regolamento che dal 2014 è ferma al Ministero dell’Economia?
Le ragioni possono essere diverse, a volte di principio. Una lamentatio che si sente spesso riguarda l’eccesso di regole e di controlli. Ma opporsi è una strategia di corto respiro. Un sistema ben regolamentato aiuterebbe le Casse a dotarsi di strutture organizzative adeguate, a realizzare scelte di investimento più solide e a evitare il ripetersi di errori del passato. È finita la stagione in cui si acquistava un immobile e si ottenevano rendimenti dall’aumento dei valori immobiliari e dai canoni di locazione.
Proprio la concentrazione degli investimenti nel settore immobiliare è uno dei nodi che l’atteso regolamento dovrebbe affrontare.
È un’eredità del passato. Per un lungo periodo della nostra storia abbiamo convissuto con tassi di inflazione a doppia cifra. Allora l’investimento immobiliare poteva rappresentare un’assicurazione contro il rischio inflazionistico. Oggi le condizioni sono cambiate radicalmente.
Ma le Casse continuano a essere sovraesposte sul mattone.
Da quando la Covip ha acquisito le competenze di vigilanza sulle Casse, va detto che l’esposizione all’investimento immobiliare si è ridotta, pur lentamente, anno dopo anno. Tuttavia, pur nelle differenze tra le diverse Casse, l’investimento immobiliare rappresenta ancora una quota elevata ed è ancora molto concentrato geograficamente.
Può darci qualche dato?
Su circa 5,8 miliardi di euro di investimento diretto delle Casse nell’immobiliare, il 65% è tutto a Roma. Anche se essere così esposti nella Città Eterna può assecondare la dimensione dell’eternità, che è pur sempre una dimensione rilevante per l’investitore istituzionale, resta il fatto che il patrimonio delle Casse, e quello immobiliare nello specifico, non è ben diversificato.
In attesa del regolamento sugli investimenti, come agite sui vigilati?
Ogni anno la Covip riferisce ai Ministeri che esercitano l’alta vigilanza (Lavoro ed Economia, ndr), informazioni sulle attività mobiliari e immobiliari detenute dalle singole Casse, sulla relativa redditività, sulla politica di investimento, sul sistema di gestione e controllo dei rischi. Si tratta di un’attività di referto a valle di un’attività ispettiva e delle segnalazioni da parte delle Casse stesse. In questi referti, viene sottolineato caso per caso se c’è un’esposizione eccessiva all’immobiliare.
Ci sono state sanzioni?
Sui fondi pensioni, la Covip ha una vigilanza a tutto tondo. Sono stabilite regole prudenziali che definiscono i limiti di concentrazione sui singoli emittenti o anche sul singolo strumento. Ma nel caso delle Casse, tutto questo manca, mancando il regolamento. Perciò, se un fondo pensione eccede un limite regolamentare, noi interveniamo, richiamiamo e, in assenza di correzione, sanzioniamo. Sulle Casse non c’è il presupposto per un intervento cogente o per una sanzione.
La diligenza professionale degli organi sociali non è sufficiente per applicare l’abc del risk management?
È ovvio che non si può tenere una porzione enorme del proprio patrimonio concentrato su pochi asset. Alcune Casse sono più avanti e hanno un buon assetto in termini di risk management. Molte casse si stanno mettendo su questa strada, autonomamente o rispondendo alle nostre sollecitazioni. Ma bisogna smaltire l’eredità pesante del passato che ci restituisce un quadro dove il patrimonio investito, non è ben diversificato, è troppo concentrato sugli immobili, che non sempre sono di qualità. A questo scopo, molte le Casse stanno destinando i nuovi flussi contributivi ad asset diversi dall’immobiliare, che in media conta poco meno del 24% dell’attivo.
Ci sono Casse che hanno conferiti i loro immobili in fondi immobiliari promossi da noti gruppi di costruzione. Non è un modo di far riuscire gli immobili dalla porta per farli rientrare dalla finestra?
Se non c’è un regolamento, come ho ricordato, non si può sanzionare per correggere un eccesso di esposizione all’immobiliare. Ciò detto, caso per caso, bisogna valutare come l’investimento si colloca in un portafoglio e se ne aumenta o ne riduce la rischiosità complessiva. Per chiarire, aumentare la quota di portafoglio investita in immobili da 10 a 11 percento non è come aumentarla dal 30 al 31.
Che cosa fate per evitare nuovi scandali nella gestione della Casse?
Gli “scandali”, di cui si occupa la magistratura secondo la rilevanza che assumono, sono soltanto la punta dell’iceberg. Bisogna guardare a tutto l’iceberg, anche quando la punta non si vede. La scarsa diversificazione di un portafoglio finanziario non configura una fattispecie di reato, ma tuttavia aumenta il rischio di quel portafoglio. Il punto è superare l’attuale quadro regolamentare che è datato e ancora incompleto. Il primo passo dunque è l’adozione del regolamento.
Come giudica gli attuali assetti di governance delle Casse professionali?
L’assenza del regolamento ha prodotto nel mondo delle Casse un quadro abbastanza frammentario per quello che riguarda la disciplina degli investimenti (la strutturazione del processo di selezione degli investimenti), per gli aspetti di governance (chi decide, chi propone l’investimento) e per l’adeguatezza delle strutture che presiedono a questi processi.
Come vede gli incentivi fiscali che spingono le Casse e fondi pensioni a investire nei Pir, nelle imprese e in crediti cartolarizzati?
Ci sono Casse con una grande parte del loro patrimonio in immobili: qui è difficile immaginare investimenti nella cosiddetta economia reale, tipicamente illiquidi. Più in generale, per governare un investimento alternativo, è necessario avere assetti organizzativi adeguati, un servizio finanza robusto, capacità di fare valutazioni appropriate.
La scelta dei gestori da parte di fondi pensione e Casse è un momento delicato del servizio offerto ai risparmiatori. Quali presidi sono previsti contro i conflitti di interesse?
Esiste una disciplina sulla professionalità e i conflitti di interesse. Inoltre, è importante che il sistema della previdenza complementare funzioni in modo efficiente, anche incentivando la competizione ed evitando che la scelta di un gestore finanziario sia guidata da logiche diverse da quella dell’efficienza ovvero del miglior interesse dei risparmiatori.
Qual è il modo migliore, a suo avviso?
Molto viene fatto dalla regolazione, che nel caso dei fondi presidia in modo abbastanza vincolante i processi. Ma molto altro può essere fatto sul versante dei costi. Infatti, scegliere un gestore finanziario in base a criteri diversi dall’efficienza può risultare in gestioni finanziarie più costose.
A parità di costo, si potrebbero scegliere però gestori di minore qualità, in termini di rendimenti.
C’è un’enfasi sui rendimenti, ma dei costi si parla poco. I dati ci mostrano che gestioni poco costose, come quelle passive, non rendono necessariamente meno di quelle attive, più costose.
Quindi fate leva sulla trasparenza dei costi?
I costi incidono direttamente sulle prestazioni. A parità di altre condizioni, anche pochi decimali di differenza nel tempo hanno un impatto sulle prestazioni. Se c’è trasparenza, se i costi vengono comunicati con chiarezza, se si è in grado di fare confronti, si riduce lo spazio per scelte non orientate alla massimizzazione del risultato pensionistico.
Come si fa a fare arrivare tutto questo al lavoratore-risparmiatore?
La trasparenza sui costi permette, a chi sceglie tra prodotti previdenziali alternativi, di scegliere consapevolmente. Perciò come Covip abbiamo accesso un riflettore sul tema dei costi. Abbiamo messo on line sul sito istituzionale uno strumento di comparazione dei costi delle diverse forme previdenziali e delle diverse linee di investimento, il cosiddetto comparatore dei costi. L’Italia è anche l’unico paese in cui, qualora un risparmiatore decida di trasferire il suo risparmio previdenziale da una forma pensionistica a un’altra concorrente, è fatto obbligo all’intermediario di fornire una schede dei costi sia del nuovo prodotto sia di quello di provenienza.
Nel 2017 il bilancio dell’Inpgi, ente di previdenza dei giornalisti, ha chiuso in rosso, con un disavanzo di 100 milioni.
Dobbiamo essere chiari sull’attività della Covip. Sull’Inpgi, come sulle altre Casse professionali, l’Autorità svolge un’azione di vigilanza solo sugli investimenti. E questo è comprensibile nell’odierna architettura di vigilanza che tiene conto della natura obbligatoria del risparmio gestito dalle Casse.
L’Inpgi sta consumando patrimonio dicono i critici, sottolineando che il bilancio attuariale è da rivedere, e in peggio. Ci sono i presupposti per il commissariamento?
Come ho appena detto, il compito della Covip sulle Casse previdenziali è di vigilare sull’attivo (gli investimenti). Ma non sul passivo (le prestazioni), e quindi non sull’equilibrio attuariale, da cui dipende se il patrimonio si sta “consumando”. Le scelte sul commissariamento delle Casse sono invece di competenze dei Ministeri che esercitano l’alta vigilanza. Naturalmente, a costo di essere pedante, vale la pena di ricordare ancora una volta che l’azione di vigilanza sugli investimenti delle Casse professionali è esercitata, sia pure in un quadro regolatorio datato e ancora incompleto. Detto questo, sarebbe auspicabile prevedere forme di “commissariamento ad acta” – affidati alla Covip – per l’adozione di atti specifici che le Casse dovrebbero adottare e invece non adottano. È un’idea che punta ad intervenire prima che i buoi scappino dalla stalla.
Entro il prossimo dicembre dovrà essere recepita la direttiva europea IORP II sui fondi pensione. A che punto siamo?
È in corso di recepimento in questi mesi e, sotto molteplici profili, non comporterà sostanziali novità per l’assetto regolamentare del nostro Paese, in cui si sono affermate buone pratiche di vigilanza, riconosciute anche a livello europeo.
Quali sono le novità più rilevanti per il settore?
Esistono profili di novità riguardo alcuni aspetti di governance e le politiche di remunerazione di chi svolge funzioni chiave all’interno dei fondi, specie in riferimento a quelle attività da cui dipende l’esposizione al rischio del fondo. Sarà necessario disegnare politiche di remunerazione in linea con gli interessi di lungo termine degli aderenti, renderle trasparenti e rivederle periodicamente. Su questo, come su altri fronti, la Covip ha già cominciato a lavorare.
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