Previdenza
Il progetto di riforma delle pensioni di Tito Boeri bocciato. Peccato
“Se metti le mani sulle pensioni di gente che prende 2.000 euro al mese, non è una manovra che dà serenità e fiducia. (…) E dunque non si tagliano le pensioni”. Così, con una dichiarazione rilasciata a Bruno Vespa (che ha da promuovere il suo solito libro natalizio), Renzi ricusa le proposte di Boeri.
L’imbarazzante ministro Poletti, che data la sua dappocaggine viene ormai da mesi regolarmente surclassato da Boeri quasi non fosse più lui il ministro del lavoro e del welfare, aggiunge: “si mettono le mani nel portafoglio” – ancora quest’espressione orrenda, coniata a suo tempo da Berlusconi, il cui uso andrebbe bandito – “a milioni di pensionati con costi sociali non indifferenti e non equi (?)”.
Camusso, in un’intervista al Corriere della Sera, sostiene che Boeri è ossessionato dalle “pensioni d’oro” – termine giornalistico e demagogico che invece Boeri non ha mai adoperato – e gli imputa una mancanza di sguardo al futuro (commenta Marco Albertini: “non farebbe ridere nemmeno se fosse una battuta”).
Il piano di Boeri venne presentato al governo già a giugno e subito respinto. Così il presidente dell’Inps ha deciso comunque di diffonderlo, creando grande scompiglio nel mondo politico.
Il governo si è affrettato a precisare che la pubblicazione del progetto era concordata; difficile crederlo visto il clamore e le reazioni piccate che ha suscitato a destra e manca (da Alfano e Fassina, ai succitati Renzi e Poletti, seguitando con Camusso e Damiano).
La critica più ricorrente a Boeri da parte dei suoi (non pochi) detrattori non è comunque sul merito delle proposte ma sul metodo adottato dall’economista milanese: lo si accusa di travalicare il suo ruolo a discapito di parlamento, governo e parti sociali.
E in effetti il modus operandi di Tito Boeri alla guida dell’Inps denota un eccessivo attivismo mediatico e istituzionale. Partecipa a convegni, interviste televisive e giornalistiche, critica la legge di stabilità del governo. Come se non avesse mai dismesso i panni dell’economista intellettualmente onesto e libero qual era prima di accettare l’incarico. Un ruolo più defilato, una minore visibilità e protagonismo sarebbero quindi opportuni.
Non si può tuttavia pretendere che Boeri – che è un insigne economista e intellettuale, non certo un burocrate – si limiti alla mera amministrazione dell’ente pubblico, altrimenti avrebbero potuto scegliere chiunque altro.
Ha pertanto il diritto – e non solo la facoltà -, a maggior ragione date le sue alte competenze, di compartecipare al processo di policy making, di proporre e formulare proposte di policies; che poi starà al governo decidere se accettare o rifiutare.
Il progetto di riforma del sistema di welfare elaborato da Boeri è denominato “non per cassa ma per equità”, viene presentato come un articolato di legge che consta di 16 proposte e poggia su tre elementi portanti: l’introduzione di un reddito minimo; una modifica alla legge Fornero che introduce maggiore flessibilità in uscita; il taglio alle pensioni retributive in essere.
Non si vuole qui enucleare tutti gli aspetti, ancorché non marginali della proposta – dal riordino delle diverse forme di assistenza alla semplificazione per le contribuzione aggiuntive – ci si concentrerà dunque solo su questi tre.
Dal punto di vista formale, il documento, con tanto di note tecniche, stime finanziarie, è impeccabile.
In certi casi le proposte sono condivisibili, a tratti dirompenti, in talaltri discutibili.
Partiamo dal primo punto. L’introduzione di un reddito minimo di 500 euro, tenendo conto del reddito Isee, per la coorte compresa tra i 55 e i 65 anni.
Ad un convegno in Bocconi Boeri ne illustrò la necessità argomentando che negli anni della crisi (2007-2014), solo una persona su 10 in questa fascia d’età riusciva a trovare lavoro dopo averlo perso.
Si può rispondere come Ichino, secondo il quale una misura siffatta disincentiva le persone a cercare lavoro, oppure arrendersi alla realtà del mercato del lavoro in Italia – il peggiore in Europa scrisse Boeri un anno fa – e cercare di correggerne le storture.
Siamo, insieme alla Grecia, l’unico paese in Europa a non avere uno strumento di lotta alla povertà (la social card ideata da Tremonti non può essere considerata tale). Da qui la necessità di intervenire (nella legge di stabilità per la verità è prevista l’adozione di un reddito minimo).
Il numero di persone che si trovano in situazione di povertà assoluta diverge a seconda dei parametri utilizzati per conteggiarle. Si tratta di almeno 4 milioni (la crisi economica ne ha quadruplicato il numero).
Di fronte a questi numeri che descrivono una vera e propria emergenza sociale, la lotta alla povertà – assoluta e relativa – dovrebbe essere la priorità di qualunque forza politica, senza distinzione di ideologia politica.
Due aspetti della proposta Boeri perplimono. Innanzitutto, un reddito minimo di questo tipo cozza con le politiche attive del lavoro promosse dalla riforma del lavoro da poco approvata che già prevedono la concessione di un sussidio di disoccupazione per i disoccupati poveri (l’asdi).
In secondo luogo, il reddito minimo è uno strumento universale di contrasto alla povertà. Che senso ha riservarlo solo a lavoratori in quella fascia d’età ed escludere altri eventuali beneficiari? La spiegazione fornita da Boeri a questa obiezione è che non ci sono le risorse per estenderlo ad altre categorie sociali.
Veniamo al capitolo della flessibilità in uscita.
La riforma Fornero è una delle più incisive riforme degli ultimi 20 anni e ha indubbiamente contribuito a salvare un paese sull’orlo del default. Garantisce risparmi per 80 miliardi fino al 2020 (anche se finora sono stati spesi circa 11 miliardi per salvaguardare gli esodati) e va difesa contro i tentativi di smantellarla (operati dalla Lega Nord, dal Movimento 5 Stelle, dalla CGIL e da una parte non indifferente del pd).
A partire dall’estate Poletti ha iniziato a vaneggiare di prepensionamenti e di “staffetta generazionale”, e pazienza se questa è nient’altro che un mito, un’impostura scientificamente indimostrata: per Poletti il mercato del lavoro è un sistema fisso, se un lavoratore in età da pensione se ne va prima, libera un posto per un giovane lavoratore…
Il dibattito è stato rinverdito da Renzi, che ha promesso di realizzarla nel 2016.
I prepensionamenti li smaniano sia i sindacati per ovvie ragioni, sia le imprese, che non vedono l’ora di liberarsi di lavoratori ormai poco produttivi.
La riforma Fornero viene da più parti criticata per l’eccessiva rigidità in uscita e lei stessa ha auspicato una modifica in tal senso.
Il problema è il solito. Ugo La Malfa chiederebbe: chi paga?
Introdurre flessibilità in uscita è accettabile e sostenibile solo se non viene finanziato, come è stato fatto in passato, attraverso la fiscalità generale, ovvero se ha un impatto neutro sui conti nel lungo periodo.
Damiano e Baretta hanno depositato una loro proposta di legge che è troppo onerosa per le finanze pubbliche (costerebbe almeno 6 miliardi). È ovvio che più bassa è la decurtazione dell’assegno e più vantaggioso è per il lavoratore che vuole andare in quiescenza. In questo caso, dato che è irrisoria, si rischia di produrre una platea elevatissima di persone che vogliono avvantaggiarsene (a spese dei contribuenti).
La proposta Boeri è l’unica fattibile: Boeri propone che si possa andare in pensione prima, con correzione attuariale, a 63 anni e 7 mesi di età, avendo maturato almeno 20 anni di contributi, con una penalizzazione che varia dal 3 al 10%.
Finanziata in parte anche attraverso il ricalcolo delle pensioni retributive sopra una certa soglia, compresi i vitalizi di politici e le pensioni dei sindacalisti.
E siamo al terzo pilastro del progetto.
Le pensioni superiori ai 5.000 euro lordi al mese verrebbero interamente ricalcolate col metodo contributivo; stesso discorso per quelle retributive tra i 3.500 e i 5.000 ma in questo caso il ricalcolo è più cadenzato nel tempo. Il taglio ai 4.000 vitalizi dei politici, invece, è una misura puramente simbolica, di giustizia sociale; produrrebbe un risparmio annuo di 100 milioni (su 400 di spesa).
Le pensioni calcolate col metodo retributivo costituiscono l’88% del totale delle pensioni erogate dallo stato e il loro valore totale (rispetto ai contributi versati) ammonta a 46 miliardi annui (dati del Sole 24 Ore).
Il sistema retributivo ha garantito pensioni molto più generose di quelle concesse oggi dal contributivo (in media del 30%).
Per ragioni di equità intergenerazionale sarebbe quindi doveroso intervenire per correggere questa disparità di trattamento, tuttavia è tecnicamente quasi impossibile ricalcolare tutte le pensioni retributive dato che la banca dati dell’Inps risale al 1974.
Ma, soprattutto, c’è da superare il vaglio di una Corte Costituzionale chiaramente politicizzata e da sempre erta a tutela dei cosiddetti “diritti acquisiti” intangibili, riservati esclusivamente alla categoria dei pensionati.
Non esiste nessun patto previdenziale tra i cittadini e lo Stato che non sia reversibile, trattandosi di materia di policy, dunque non si capisce come si possa parlare di diritti acquisiti.
Se non è incostituzionale – e non lo è – la legge Fornero o le altre cinque riforme del sistema previdenziale che si sono susseguite dal 92 a oggi, non lo è nemmeno il ricalcolo contributivo.
A questo proposito, riporto stralci di un articolo illuminante scritto dall’economista Alessandro Penati. Penati ha giustamente osservato che per la Consulta “la pensione è diventata un diritto economico garantito per sempre dalla Costituzione: neppure lo Stato, una volta che l’abbia concesso, lo può più toccare. Sembra ineccepibile. Invece è incoerente”.
“Lo Stato concede a chi sottoscrive il suo debito pubblico il diritto a incassare gli interessi e ricevere il rimborso del capitale alla scadenza. Se lo Stato rischia l’insolvenza perché non ha risorse sufficienti per onorare il proprio debito, i Diritti Acquisiti, costituzionalmente garantiti o meno, devono essere subordinati a quelli dei creditori. Non è una questione giuridica, ma di buon senso: se per onorare i Diritti Acquisiti dei pensionati, rispettando la volontà della Corte Costituzionale, agli occhi degli investitori rischia l’insolvenza, lo Stato dovrà prima pagare più interessi, aumentare le tasse e ridurre le spese, scaricando il costo dei Diritti Acquisiti sul resto del Paese. Se poi si arrivasse al default, non ci sarebbero più i soldi neanche per le pensioni.”
(…) Se esistessero diritti acquisiti costituzionalmente garantiti, “allora lo stato ne viola altri in continuazione”. “Viola i Diritti Acquisiti dei risparmiatori che investono in Btp, se c’è poi un aumento imprevisto dell’inflazione che riduce il potere di acquisto del risparmio. Li viola anche quando aumenta le tasse sulla casa acquistata con i risparmi di una vita, riducendo il tenore di vita del proprietario. Oppure quando aumenta le imposte su un’attività, rendendo l’investimento non più economico rispetto al momento in cui l’attività era stata intrapresa. O quando impone contributi a chi aveva scelto liberamente di lavorare come autonomo, preferendo i rischi e le incertezze di questa attività all’onere della contribuzione previdenziale. In tutte queste circostanze, gli individui coinvolti si sarebbero potuti comportare diversamente se avessero saputo che lo Stato avrebbe violato diritti che, erroneamente, ritenevano acquisiti”.
In conclusione, il ricalcolo contributivo è una forma di redistribuzione del reddito, una scelta eminentemente politica, che spetta al policy maker, e che non pertiene alla Corte Costituzionale giudicare nel merito.
Giova ricordare che nel 2011 tra le proposte di Renzi (presentate tra gli undici punti della convention della Leopolda), figurava “il ricalcolo contributivo per tutti”.
Le proposte di Boeri andrebbero discusse seriamente, non respinte spicciativamente come ha fatto il governo. Tra l’altro pare che all’inizio le idee di Boeri sui tagli alle pensioni fossero molto più drastiche e che le avesse poi in parte annacquate, in questo documento di giugno, su richiesta di Renzi.
La motivazione un po’ speciosa accampata da Renzi per spiegare il diniego è che questo progetto di riforma ha dei costi eccessivi. Per l’Inps la spesa è di 150 milioni nel 2016, 1 miliardo nel 2017, 2,5 nel 2018, 3 nel 2019; stime che per il governo sono ottimistiche. Verrebbe da rispondere che sono costi molto inferiori a provvedimenti adottati dal governo alquanto discutibili: dalla regalia elettorale degli 80 euro costata 10 miliardi all’abolizione indiscriminata della Tasi (provvedimento sulla cui utilità discordano la quasi totalità degli economisti italiani) fino ai soldi pubblici (o meglio: dei contribuenti, direbbe M. Thatcher) scialacquati per far ripartire l’occupazione (13 miliardi solo per il 2015 e con risultati impercettibili).
Il vero motivo è che non si vogliono toccare le pensioni perché Renzi, aduso a compulsare quotidianamente i sondaggi, sa che se le idee di Boeri fossero attuate rischierebbe di perderebbe un milione di voti.
La costituency del pd è composta prevalentemente di pensionati, il cui voto non intende alienarsi.
Renzi, ormai è chiaro, mal sopporta Tito Boeri (come chiunque lo metta in ombra) e si dice si sia pentito della scelta, ottima, di nominarlo presidente dell’ente (scelta caldeggiata da Perotti e Nannicini suoi colleghi in Bocconi).
E’ possibile che, stando così le cose, prima o poi anche Boeri (come Cottarelli, e da ultimo Perotti) lasci l’incarico di sua iniziativa o che ne sia costretto direttamente da chi lo volle, inaspettatamente, su quella poltrona.
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