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Pubblicato il Decreto Rilancio: pane e cicoria per le PMI?

20 Maggio 2020

Il “Decreto Rilancio” pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 19 maggio conferma la bozza già circolata e lascia le più varie opzioni a disposizione dei Decreti ministeriali attuativi per definire in dettaglio gli interventi a sostegno delle imprese, ma non per le PMI, per le quali il rilancio rischia di tornare indietro come un boomerang.

Il precedente “Decreto Liquidità” rispondeva a esigenze di cassa di breve periodo, ma non era evidentemente idoneo a salvaguardare il patrimonio delle imprese, compromesso dai danni ingenti provocati dalla crisi epidemiologica Covid 19, con ripercussioni sul rating negli anni a venire.

Per rimediare al danno reddituale e patrimoniale subito dalle imprese serve intervenire sul capitale sociale delle imprese, mediante versamenti a fondo perduto (poco graditi per l’immediata pubblicizzazione del danno privato e per la perdita secca a carico delle casse dello stato), o più auspicabilmente mediante l’impiego di strumenti che si possono variamente immaginare: versamenti in conto futuro aumento di capitale, assegnazione di azioni al finanziatore pubblico ma voto plurimo alle azioni dei soci privati che avrebbero conservato le decisioni strategiche; azioni riscattabili con opzioni, strumenti finanziari partecipativi (in breve “SFP”)[1].

Il Decreto Rilancio, da questo punto di vista lascia la porta aperta a qualunque soluzione per le grandi imprese. L’Art. 27 rubricato “Patrimonio destinato” prevede infatti per le imprese con fatturato sopra i 50 milioni di euro, l’intervento di Cassa Depositi e Prestiti SpA con un patrimonio destinato denominato “Patrimonio Rilancio”. Si prevede che i requisiti di accesso, le condizioni, criteri e modalità degli interventi del Patrimonio Destinato vengano definiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, sentito il Ministro dello Sviluppo Economico. Cassa Depositi e Prestiti S.p.A., a valere sul Patrimonio Destinato, potrà effettuare ogni forma di investimento, comunque di carattere temporaneo, ivi inclusi la concessione di finanziamenti e garanzie, la sottoscrizione di strumenti finanziari e l’assunzione di partecipazioni sul mercato primario e secondario. Il Patrimonio Destinato effettuerà in via preferenziale i propri interventi mediante sottoscrizione di prestiti obbligazionari convertibili, la partecipazione ad aumenti di capitale, l’acquisto di azioni quotate sul mercato secondario in caso di operazioni strategiche.

L’art. 38, rubricato ecologicamente “Rafforzamento dell’ecosistema delle start up innovative” prevede la costituzione di un «Fondo di sostegno al venture capital» che, expressis verbis, potrà operare “anche mediante la sottoscrizione di strumenti finanziari partecipativi”.

Lo strumento più versatile a disposizione del legislatore, che peraltro proprio per questa sua versatilità spesso si presta a diventare una fumisteria, è proprio quello degli strumenti finanziari partecipativi, istituto introdotto dalla Riforma del diritto societario del 2003 all’art. 2346 c.6 c.c. La scarna disciplina legislativa consente di adattare gli SFP a varie situazioni secondo l’immaginazione dell’emittente, che sovente viene coadiuvata da quella del sottoscrittore che concorda il regolamento di emissione nell’ambito di accordi di ristrutturazione. Infatti gli SFP, ideati per la crescita delle imprese, sono stati frequentemente applicati nei casi patologici della ristrutturazione del debito delle imprese in crisi, specie verso le banche. Gli SFP sono una valida alternativa al write-off (con il quale possono essere “mixati”) e se costruiti come strumenti di equity, possono essere sottoscritti mediante conversione del credito bancario per accrescere il patrimonio dell’impresa, il che consente di iscrivere in bilancio una riserva per un pari importo e salvaguardare il patrimonio sociale. In questi casi, di regola, i titolari di SFP vengono remunerati in via privilegiata rispetto agli altri azionisti, ma in via subordinata al pagamento dei crediti sociali, senza garanzie di rimborso. Non si nasconde che spesso si tratta di strumenti che finiscono per diventare un “vuoto a perdere” ma, se accompagnati da una adeguata iniezione di capitale nelle nostre società cronicamente sottocapitalizzate, avrebbero migliori probabilità di trovare ristoro: il socio nel salvaguardare il proprio investimento, salvaguarderà anche quello dei detentori di SFP. Nei primi commenti alla bozza del Decreto Rilancio erano stati considerati come una leva per il patrimonio netto[2]

Gli SFP possono però essere configurati alternativamente come titoli di debito, il che finisce per renderli del tutto inutile a sorreggere il patrimonio netto aziendale, riproponendo tutte le criticità poste dall’erogazione del credito prevista dal Decreto Liquidità: dal pericolo di ricorso abusivo al credito (e concessione abusiva per l’istituto di credito), al danno erariale per l’incauta erogazione che diventa tale proprio in virtù dell’erogazione: una classica profezia che si autoavvera. Più credito viene concesso all’impresa per “sorreggerla” nella crisi epidemiologica, meno è probabile che questo credito potrà venire restituito. La soluzione più sicura è non dare un centesimo, ed è quello che rischia di accadere.

Questa sciagurata logica dello strumento di debito sembra intravedersi nell’art. 26 del Decreto Rilancio, pur rubricato “Rafforzamento patrimoniale delle imprese di medie dimensioni”. La norma prevede per le attività con fatturato tra 10 e 50 milioni, l’istituzione di un fondo denominato « Fondo Patrimonio PMI”» (in breve il “Fondo”), finalizzato a sottoscrivere entro il 31 dicembre 2020, entro i limiti della dotazione del Fondo, “obbligazioni o titoli di debito di nuova emissione”, per un ammontare massimo pari al minore importo tra: (i) tre volte l’ammontare dell’aumento di capitale deliberato ed eseguito entro il 31 dicembre 2020 per un importo non inferiore a 250.000 euro e (ii) il 12,5% dell’ammontare dei ricavi. La gestione del Fondo è affidata all’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa Spa -Invitalia, o a società da questa interamente controllate. La logica di porre una relazione tra l’investimento del privato e l’erogazione di fondi pubblici dovrebbe essere quella di dare ragionevole certezza che il privato cercherà di salvaguardare in tutti i modi il proprio interesse e dunque anche quello dell’ente erogatore. Questo però richiede che entrambi vengano posti sullo stesso piano, con una partecipazione al rischio anche dell’erogatore, il che qui non avviene. Certo, si dirà: non si sta parlando di una banca creditrice che deve in qualche modo valorizzare il proprio credito e che ha come unica alternativa lo stralcio. L’ente erogatore non è all’ultima spiaggia e non è obbligato a digerire il boccone amaro della partecipazione al rischio.

Tuttavia, occorre decidersi: o si aiutano le imprese, e per farlo serve ristorare il danno mediante iniezione di capitale o quasi-capitale, nella forma più tutelante possibile per l’ente erogatore, o le si tengono a pane e cicoria, imponendo debito che una stringente logica creditizia non potrebbe che consigliare di non erogare. Come si può pensare che aumentando l’esposizione debitoria di una società in crisi, quest’ultima possa avere più possibilità di farvi fronte?

L’art. 26 del Decreto Liquidità per le PMI prevede che gli emittendi Strumenti Finanziari vengano rimborsati decorsi sei anni dalla sottoscrizione. Si prevede che la società emittente possa rimborsare i titoli in via anticipata decorsi tre anni dalla sottoscrizione. Nel caso in cui la società emittente sia assoggettata a fallimento o altra procedura concorsuale, i crediti del Fondo per il rimborso del capitale e il pagamento degli interessi verranno soddisfatti dopo ogni altro credito fatta eccezione per i crediti da finanziamenti soci postergati. Dalla lettura della norma citata, le sorti dell’impresa non sembrano incidere sull’importo da restituire: si tratterebbe dunque di un vero e proprio debito che non si potrebbe certo iscrivere a patrimonio netto. Gli Strumenti Finanziari menzionati non vengono neppure qualificati come partecipativi. Secondo il testo, non sono dovuti interessi sugli Strumenti Finanziari qualora la società emittente abbia mantenuto fino al rimborso degli Strumenti Finanziari il numero di occupati al 1° gennaio 2020 ovvero abbia effettuato investimenti per finalità di digitalizzazione dell’attività, innovazione produttiva o sostenibilità ambientale. Solo la corresponsione degli interessi e con essa l’onerosità dell’apporto è dunque aleatoria. Viene rimandata a un successivo decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, la definizione di caratteristiche, condizioni e modalità del finanziamento e le condizioni di operatività, ivi inclusa “tipologia e ammontare degli investimenti ammissibili”.

Con questo testo del decreto legge sarebbe però arduo consentire a decreti ministeriali di prevedere strumenti finanziari partecipativi per le PMI. Occorre sperare in un ravvedimento operoso in sede di conversione del decreto. Sarebbe altrimenti triste vedere una discriminazione così penalizzante per le misure alle PMI, spina dorsale del nostro sistema industriale, destinate a sostenere il peso di chi viene aiutato, senza essere a loro volta considerate degne di aiuto.

E’ essenziale che anche per le PMI i fondi pubblici possano andare a incrementare le voci di patrimonio netto. In proposito, il diritto al rimborso dovrebbe essere previsto come eventuale e legato all’evoluzione della situazione economico patrimoniale della società. Per salvaguardare il sottoscrittore, come già ipotizzato dal Notariato[3], si potrà richiedere, tra l’altro che lo statuto sociale dell’emittente preveda: (i) che la riserva del patrimonio netto costituita a seguito della sottoscrizione di strumenti finanziari partecipativi, emessi ai sensi dell’art. 2346, comma 6, c.c., venga intaccata dalle perdite soltanto dopo l’erosione di tutte le altre riserve (ii) che gli strumenti siano annullati soltanto a seguito dell’annullamento per perdite delle azioni e in misura proporzionale – c.d. pari passu – rispetto a queste ultime (iii) che gli strumenti incorporino il diritto di conversione in azioni postergate nella partecipazione alle perdite, sospensivamente condizionato alla erosione per perdite della riserva, con conversione automatica degli strumenti finanziari in azioni.

La libertà di indebitarsi, da sola, non rilancia un bel nulla.

Massimo Pellizzato

 

 

[1] Vincenzo De Sensi, “Gli strumenti finanziari del dopo coronavirus”, il Il Sole 24 Ore del 3 aprile 2020, https://www.ilsole24ore.com/art/gli-strumenti-finanziari-post-coronavirus-ADrhtjH
Paolo Rinaldi, “Debito eccessivo, terapia cercasi”, in Il Sole 24 Ore del 17 aprile 2020;

Marco Fiorentino, “Coronavirus, per salvare le aziende dalla crisi i prestiti non bastano. Servono strumenti finanziari partecipativi” in repubblica. Del 2 maggio 2020, https://www.repubblica.it/economia/diritti-e-consumi/banche-e-assicurazioni/2020/05/02/news/coronavirus_per_salvare_le_aziende_dalla_crisi_i_prestiti_non_bastano_servono_strumenti_finanziari_partecipativi-255438225/

ASSONIME, “Nota Assonime Sul Disegno Di Legge A.C. 2461 Di Conversione Del Dl N. 23/2020 “Cd Decreto Liquidità””, n. 8/2020 http://www.assonime.it/_layouts/15/Assonime.CustomAction/GetPdfToUrl.aspx?PathPdf=http://www.assonime.it/attivita-editoriale/interventi/Documents/Interventi%208-2020.pdf

Massimo Pellizzato, “A Modest Proposal: perché l’idea di Orlando non è La Corazzata Potemkin” https://www.glistatigenerali.com/imprenditori_partiti-politici/a-modest-proposal-perche-lidea-di-orlando-non-e-la-corazzata-potemkin/

[2] Paolo Rinaldi, “Con gli strumenti partecipativi una leva per il patrimonio netto”, in Il Sole 24 Ore del 16 maggio 2020.

[3] massima del Consiglio Notarile di Firenze n. 69/2018

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