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Digitale e lavoro: occorre superare neo-luddismo e “jobless society”
All’inizio dell’anno, un’analisi del Sole 24 Ore [link] condotta sugli annunci di lavoro delle aziende della moda e del lusso aveva evidenziato l’esigenza di circa 12 mila lavoratori per lo più con competenze legate al mondo digitale, sia dal punto di vista del marketing e della comunicazione che dal punto di vista del business e della produzione.
Il digitale – ormai lo si è capito – non è un valore in sè, ma lo è nella misura in cui produce valore per un territorio ed ecco perchè non possono rimanere inevase queste ricerche di lavoro, con particolare riguardo a quelle che richiedono competene più qualificate. Non possiamo infatti permetterci, di fronte alla consapevolezza che vi sarà una crescente erosione di posti di lavoro determinata dall’automazione dei processi produttivi, un atteggiamento neo-luddista, ma dobbiamo creare le competenze necessarie e orientare le persone più giovani a prepararsi per i nuovi lavori sapendo che i lavori di ieri esisteranno sempre meno.
Il Desi Index misura il grado di digitalizzazione di un Paese, anche sul piano del capitale umano.
Ma il nostro Paese è pronto a cogliere questo cambiamento?
Se il dominio di top player esteri ci espone nei loro confronti a una debolezza fiscale e regolamentare che può essere affrontata in modo incisivo solo a livello europeo e se sono limitati i loro insediamenti in Italia capaci di produrre occupazione (il caso Amazon è una eccezione e non una regola), vi sono però le aziende “medium tech” italiane e i distretti produttivi che rappresentano l’ossatura del nostro sistema economico che possono trarre il maggior giovamento dall’innovazione che il digitale può rappresentare sotto forma di adozione di modelli di digital transformation e di Impresa 4.0.
Di fronte a uno scenario sempre più competitivo, l’Italia ha infatti il compito, con il suo sistema di distretti indeboliti, ma ancor esistenti, di avvantaggiarsi della tecnologia per integrare in modo nuovo le filiere e sostenerne le eccellenze rendendole capaci di migliorare la propria produttività e rendere ancora più efficiente il proprio orientamento all’internazionalizzazione e all’export.
La minaccia legata, sul piano occupazionale, al mismatch fra competenze disponibili e competenze richieste deve pertanto essere affrontata non arrendendosi all’immagine di una “Jobless Society” ma facendo sì che i corpi intermedi, tanto dal lato datoriale che dal lato della rappresentanza, aiutino ad accrescere un’occupazione qualificata – e di conseguenza di qualità – e sostengano l’idea che più tecnologia non significa meno posti di lavoro, ma più posti di lavoro capaci di usarla per innovare e generare valore aggiunto.
Se non procederemo lungo questo sentiero, l’alternativa sarà il “taylorismo digitale” che non potrà che tradursi in stagnazione di redditi e salari e nella polarizzazione della società fra professionisti super-qualificati e ad alto reddito e una vasta schiera di mestieri routinari e mal pagati.
L’innovazione – si sa – non è un pranzo di gala, ma la storia non è ancora scritta: sono questi gli anni in cui queste pagine dovranno essere compilate.
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