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Crisi di liquidità? Arriva la moneta complementare
Il diffondersi delle cosiddette monete complementari in Italia, caso unico al mondo al punto da attirare l’interesse del Financial Times e della London School of Economics, riflette la peculiarità di un capitalismo in cui il 95% delle imprese ha meno di 10 dipendenti e i lavoratori autonomi sono il doppio della media europea e si tratta di soggetti investiti in pieno dalla globalizzazione e dalla crisi di liquidità. Una peculiarità che in qualche modo si rispecchia anche nell’attuale contraddittoria situazione politica.
Nel 2017 i mercati finanziari hanno fatto registrare la brusca impennata del bitcoin e delle criptovalute, seguita nei primi mesi del 2018 da una altrettanto brusca discesa (PuntoCritico190118), che da gennaio ne ha dimezzato il valore. Anche nell’ultimo mese bitcoin ed ethereum hanno lasciato sul campo il 16%. MilanoFinanza220618 spiega come alle difficoltà intrinsecamente finanziarie delle criptovalute si aggiunga il colpo di grazia della bolletta elettrica. I consumi energetici dei server necessari a far girare i complessi algoritmi matematici che presiedono alla realizzazione delle transazioni finanziarie infatti pesano in modo significativo sui bilanci delle imprese del settore. E’ notizia di questi giorni che il Canada, tra i paesi preferiti per questo genere di attività, proprio per la tariffe energetiche contenute, ha deciso di chiedere sostanziosi aumenti. Una serie di attacchi hacker a quei server, l’ultimo di una certa rilevanza il 10 giugno, hanno contribuito a peggiorare la situazione. Venerdì il bitcoin è crollato di otto punti, bruciando l’equivalente di 16 miliardi di dollari e scatenando un’ondata di panico.
Dal WIR a Sardex
La crisi delle criptovalute, se confermata (visto che nei mercati finanziari nulla è mai definitivo) potrebbe far sì che nei prossimi anni il nuovo fenomeno di cui sentiremo parlare siano le cosiddette monete complementari, che proprio in Italia vedono svilupparsi uno dei laboratori di sperimentazione più interessanti e che, lo vedremo, in realtà hanno dietro di sé una filosofia molto diversa da quella del bitcoin. L’idea in realtà è tutt’altro che nuova e ha origine negli anni ’30, dopo la crisi del ’29, dunque in un’epoca caratterizzata come la nostra da una fortissima carenza di liquidità, in un paese che alla finanza deve gran parte delle sue fortune, la Svizzera. Qui, nel cantone francese di Neuchatel, si era rifugiato alla fine del secolo l’economista Silvio Gesell, che in Svizzera risiedette nel corso della propria vita in modo discontinuo e a più riprese. Di madre vallone e padre tedesco, anarchico, vegetariano ante litteram, feroce critico della teoria economica di Marx, nondimeno a suo modo socialista, Gesell nel 1919 venne chiamato come ‘commissario del popolo’ per le finanze dalla Repubblica Sovietica della Baviera, fondata l’anno prima e che verrà soffocata nel sangue pochi mesi dopo. Economista autodidatta, formatosi grazie all’esperienza commerciale come collaboratore dell’azienda di prodotti odontoiatrici di famiglia, di cui aprì una filiale in Argentina poco prima della Grande Depressione di fine ‘800, elaborò come soluzione al problema delle crisi di liquidità che periodicamente affliggono le piccole e medie imprese il concetto di Freigeld (denaro gratis). Il Freigeld è una forma di denaro che si svaluta nel tempo e non matura interessi e che quindi rende controproducente la tesaurizzazione e al contrario incentiva spese e investimenti produttivi. Negli anni ’30 del ‘900, a seguito di un’altra Grande Depressione, quella seguita al crollo di Wall Street del 1929, proprio in Svizzera nasce la cooperativa di mutuo soccorso WIR, abbreviazione di Wirtschaftsring (circolo economico), ma anche pronome di prima persona plurale, noi, che a sua volta si ispira alla cooperativa JAK (Jord Arbete Kapital, Terra Lavoro Capitale) nata qualche anno prima in Danimarca. WIR e JAK esistono ancora, operano come banche cooperative, la prima con circa 50mila imprese affiliate e un bilancio che nel 2012 ha superato i 4 miliardi di franchi svizzeri (di cui circa un quarto di moneta complementare), la seconda ha quasi 40mila soci – ciascuno può detenere al massimo una azione – che ogni anno eleggono un consiglio d’amministrazione e approvano le politiche dell’istituto.
L’esempio del WIR in Italia ha ispirato Sardex, la moneta complementare introdotta una decina di anni fa in Sardegna. Ma che cos’è una moneta complementare? Tre ricercatori della London School of Economics, Paolo Dini, Wallis Motta e Laura Sartori, autori di un lungo saggio sul Sardex, lo hanno definito un sistema di mutuo credito e affermano che ‘il fenomeno del mutuo credito può essere integrato in un paradigma teorico più generale che abbraccia tutte le forme di creazione di moneta’. Prendiamo appunto il Sardex. Il Sardex è innanzitutto una unità di conto definita attraverso l’equazione 1 Sardex=1 Euro. A differenza delle criptovalute, che possono essere liberamente acquistate su internet, per accedere alla moneta complementare bisogna entrare a un circuito che a oggi in Italia è riservato solo alle imprese. Per accedervi bisogna superare una selezione che serva a verificare l’inserimento della nuova impresa non turbi l’equilibrio del sistema nel suo complesso. Una volta dentro l’azienda potrà vendere beni o servizi ad altre aziende del circuito ed essere pagata in Sardex invece che in euro, maturando un credito nei confronti del circuito che potrà spendere successivamente acquistando beni e servizi presso altri affiliati. In questo modo il circuito compensa debiti e crediti e garantisce che si tratti di un gioco a somma zero.
Come funziona?
Il primo requisito per poter essere ammessi al circuito – ci spiega Giuseppe Rotundo, Direttore Sviluppo di Tibex, l’equivalente laziale del Sardex – è avere capacità produttiva in eccesso. ‘In parole povere se un ristorante ha tutti i tavoli pieni 7 giorni su 7 è inutile che venga da noi. Se invece ha, mettiamo, un 20% di tavoli vuoti, allora il circuito può procurargli clientela aggiuntiva tra i propri iscritti’. L’altra condizione è che l’azienda deve capire quanta parte di ciò che spende può pagarla in moneta complementare rifornendosi all’interno del sistema. Per questo gli amministratori del circuito hanno l’onere di decidere quali aziende ammettere tenendo presente che l’obiettivo è mantenere in equilibrio domanda e offerta, sia in termini qualitativi (equilibrio merceologico) sia in termini quantitativi. ‘Per l’azienda – ci spiega Rotundo – il vantaggio è da una parte che il circuito ti porta nuovi clienti, dall’altra che non devi tirare fuori contanti e pagando in natura ti avvantaggi della differenza tra l’importo di quanto pagheresti ciò che compri nel mercato ordinario e quanto ti costa effettivamente il servizio che offri in cambio’.
Una caratteristica delle monete complementari è che sui debiti e sui crediti non maturano interessi e dunque una volta che hai accumulato una certo credito hai interesse a spenderlo. Ciò facilita la circolazione e tende a stimolare gli affari e ricorda una delle proprietà del Freigeld teorizzato da Silvio Gesell. L’altro aspetto comune alle teorie dell’economista anarchico è che la moneta complementare ha come proprio habitat naturale un’economia di prossimità: ‘Se sei dentro un circuito come il nostro – ci spiega ancora Rotundo – ti conviene rifornirti da un’azienda affiliata piuttosto che comprare su Amazon, anche se Amazon ha prezzi più bassi’. Anche perché – come osserva lo studio della London School of Economics ‘analogamente al WIR a cui si è ispirato il Sardex si basa sulla fiducia reciproca tra i suoi membri, che a sua volta è un’estensione della fiducia che ogni membro ha nei confronti della Sardex Spa’. Non a caso in Italia dopo il Sardex sono nate altre 11 monete complementari che insistono tutte su un circuito regionale, dalla Val d’Aosta alla Campania. Si tratta di circa 11mila aziende che collezionano un volume complessivo di transazioni in valute complementari equivalente a circa 250 milioni di euro l’anno (100 solo in Sardegna) e che a loro volta fanno da traino a ulteriori transazioni in euro. ‘Nel Lazio al momento abbiamo circa 600 affiliati, con transazioni in Tibex per un valore equivalente di 9 milioni di euro, a cui però si sommano altrettante transazioni in euro’ osserva Rotundo. ‘Il motivo è semplice: se la mia azienda compra pasti da un ristorante e mi trovo bene lo dirò anche ai miei amici, che non stanno nel circuito. Oltre al fatto che a volte le imprese hanno convenienza a pagare parte in moneta complementare parte in euro’.
Le transazioni avvengono aprendo un conto in moneta complementare su cui si opera attraverso una carta oppure un’applicazione scaricabile sul proprio smartphone. Secondo i ricercatori della London School of Economics il Sardex e le altre monete complementari che a esso si ispirano sono a tutti gli effetti moneta perché adempiono alle quattro tradizionali funzioni di unità di conto, strumento di scambio, di tesaurizzazione del valore e di pagamento. Le aziende emettono una fattura o ricevuta fiscale aggiungendo semplicemente la dicitura per cui il credito è ‘compensato all’interno del circuito’. I costi del gestore non vengono pagati attraverso commissioni sulle transazione e ‘questo – puntualizza Rotundo – è importante perché evita speculazioni. Sennò avremmo uno stimolo a far entrare più aziende possibili senza guardare tanto per il sottile’. Le aziende invece pagano un’iscrizione annua modulata secondo scaglioni legati al fatturato. Al momento al circuito possono accedere solo aziende, ma in futuro la cosa potrebbe riguardare anche i singoli. ‘In Sardegna ci sono già 200 aziende che pagano i propri dipendenti in parte in Sardex’, una pratica validata anche da accordi sindacali in piena regola.
La risposta delle PMI alla crisi
L’idea di introdurre una moneta complementare in Italia nasce a Serramanna, nella regione sarda del Medio Campidano, prevalentemente rurale nota per la presenza di una base aerea della NATO, per iniziativa di Giuseppe Littera. ‘Giuseppe studiava a Leeds. – scrive il Financial Times in un articolo del 2015 intitolato The Sardex factor – Nel 2006 lesse del WIR, la valuta complementare svizzera e la prospettiva di introdurre qualcosa di simile a Seramanna cominciò a ossessionarlo. ‘Quando andai in Inghilterra ancora come studente per me era molto difficile dare un senso alla mia vita. E così quando scopersi il WIR fu come dire “Ok, questa è una cosa per cui val la pena di battersi”, perché sennò l’alternativa è aspettare un cambiamento sistemico a livello mondiale’. Discusse l’idea via Skype con Mancosu, Gabriele Littera, Sanna e Franco Contu e cominciarono a progettare una nuova valuta elettronica locale, il cui nome, Sardex, non fa certo mistero delle sue origini’.
L’idea dunque arriva prima della crisi capitalistica globale, ma si realizza negli anni successivi al crollo Lehman Brothers in una regione in cui peraltro la crisi era arrivata da tempo. Dopo che il ‘Piano di Rinascita’ degli anni ’60 aveva seminato il territorio di fabbriche e impianti petrolchimici, già la crisi petrolifera degli anni ’70 aveva inceppato il meccanismo dando vita a un drastico processo di deindustrializzazione, di cui la vertenza Alcoa segna forse il capitolo conclusivo. Del resto di quel Piano gli inventori del Sardex parlano con scetticismo ‘Hanno portato l’inferno in paradiso e questa la chiamano rinascita’ – dichiara Mancosu al FT.
‘Eravamo costretti ad affrontare, anno dopo anno, continue emergenze in queste industrie’ – racconta Stefano Usai, economista del Cresos, un istituto di ricerca sardo, al FT – ‘Una pesante eredità’. Poi, nel 2008, un’altra ondata colpì l’isola: la crisi finanziaria. ‘E così qui, a 2mila miglia dalla Lehman Brothers, le banche smisero di fare credito’ – racconta Giuseppe. ‘E la gente smise di andare chiedere prestiti’. Incapaci di ottenere credito le aziende cominciarono a chiudere, ingrossando le file dei disoccupati. ‘A Serramanna abbiamo avuto persino il problema dei suicidi’. Nel cuore della crisi finanziaria – spiega Giuseppe – si manifestava una contraddizione: le cause della crisi rimanevano distanti, ma gli affetti arrivavano a livello locale. ‘Che cos’ha a che fare il sistema economico della Sardegna con la malagestione finanziaria di Wall Street o di Londra?’ – aggiunge. Le imprese dell’isola avevano ancora un potenziale in termini di produzione di beni e di servizi, le scorte riempivano i magazzini e la gente era ancora pronta a lavorare. Se questa era una crisi finanziaria – cominciò a pensare – allora forse c’era una soluzione finanziaria. ‘Non c’era alternativa – spiega – se non che le imprese creassero la loro moneta’.
Perché proprio in Italia fiorisce il fenomeno delle monete complementari? Secondo il Rapporto ISTAT 2015 la crisi del 2008 non ha modificato la struttura produttiva dell’Italia per quanto riguarda le dimensioni d’impresa. Il 95% del tessuto economico è costituito da 4,2 milioni di aziende con meno di 10 addetti che occupano 7,8 milioni di lavoratori (il 47%, contro il 29% della media europea), mentre quelle con più di 250 addetti sono solo lo 0,1% del totale e rappresentano soltanto il 19% dell’occupazione complessiva. Questa frammentazione fa sì che la dimensione media dell’impresa italiana sia di 3,9 addetti, a fronte di una media europea di 6,8 e la struttura proprietaria molto semplificata, con un 63,3% di ditte individuali e una percentuale di lavoratori autonomi doppia di quella europea. In Germania, per intenderci, nel 2013 le imprese avevano una media di 12,1 dipendenti, in Francia di 6.
La rivolta della classe media
La diffusione della moneta complementare in Italia rappresenta una delle tante facce della reazione a una crisi di sovracapacità del sistema produttivo che spinge la liquidità verso gli investimenti finanziari fino a che le conseguenti bolle speculative non si risolvono in una stretta creditizia che colpisce in particolare il lavoro dipendente e la piccola e piccolissima impresa. Le imprese che se ne avvantaggiano sono, come abbiamo visto, quelle che potrebbero servire più clienti di quelli che si rivolgono loro e allo stesso tempo hanno problemi di liquidità. Hanno un fatturato compreso tra i 30mila e i 16 milioni di euro. Nutrono una sfiducia di fondo nella grande impresa che non riflette solo un’attitudine culturale, ma anche la concreta condizione di chi non trova (o non trova più) collocazione nell’indotto di un’industria in grado di garantirgli la sopravvivenza e di garantire ai propri dipendenti potere d’acquisto in grado di alimentare l’economia locale. Né credono in una possibile soluzione strutturale dei problemi economici a livello globale, che anzi la globalizzazione è la cinghia di trasmissione che scarica le contraddizioni di Wall Street su piccole attività dall’altra parte del globo. Perciò queste imprese si affidano a una soluzione mutualistica e locale, che per certi versi ricorda le società di mutuo soccorso sviluppatesi agli albori del movimento operaio. Una scelta diametralmente opposta a quella delle criptovalute, che si alimentano della globalizzazione e che vengono utilizzate dai tycoons cinesi per spostare somme immense oltre confine aggirando i controlli di Pechino sulle esportazioni di capitale. Le monete complementari al contrario appaiono come una risposta concreta ai problemi di migliaia di piccole e medie aziende, che, dopo un periodo di iniziale scetticismo, cominciano ad aderire ai circuiti regionali e finiscono per attirare l’interesse di grandi gruppi come Tiscali e di investitori tradizionali. Nel 2016 il fondo di venture capital Innogest, Banca Sella e il Ministero dell’Economia attraverso Invitalia, l’Agenzia del MISE per gli investimenti e lo sviluppo d’impresa, investono nell’azienda Sardex, mentre istituzioni come Bankitalia, la Commissione Europea e l’ONU ne invitano i fondatori a convegni e seminari, ad esempio per capire come realizzare progetti analoghi in Africa e in America Latina.
Il parallelo con ciò che sta avvenendo nella politica italiana è, a nostro avviso, interessante. L’Italia infatti non è solo il principale laboratorio di sperimentazione delle monete complementari, tanto da attirare, come abbiamo visto, l’attenzione di autorevoli organi del capitalismo internazionale, ma è anche il paese in cui a governare sono, da poche settimane, le due forze politiche che meglio in questi anni hanno saputo incarnare ansie e contraddizioni di una classe media spremuta dalla crisi economica e dagli effetti della deindustrializzazione. Una di queste il Movimento CinqueStelle, non a caso, è tra i maggiori estimatori delle monete complementari, tanto che nel 2016, in piena campagna elettorale, la candidata Virginia Raggi aveva ventilato la possibilità di introdurre il modello Sardex a Roma ‘per favorire i piccoli negozi, che più soffrono la crisi’. Quali possano essere gli sviluppi di questa avanzata della classe media in Italia è difficile dirlo. E dipenderà da molti fattori. Certo è che il rallentamento e la fine del quantitative easing annunciati da Draghi e il probabile aumento dei tassi di interesse che ne seguirà rappresentano un obiettivo incentivo alla scelta della moneta complementare come strumento di finanziamento da parte di un settore significativo di piccola e media impresa, un modo anche per trovare una parziale alternativa all’euro senza mettere in discussione l’adesione dell’Italia all’Eurozona. In ogni caso se il Financial Times e la London School of Economics hanno deciso di occuparsene, a maggior ragione forse qui in Italia vale la pena di buttare un occhio su questo fenomeno.
L’articolo The Sardex factor del Financial Times si trova sul sito Sardex.net nella traduzione italiana. Lo studio della London School of Economics che abbiamo citato è Paolo Dini–Wallis Motta–Laura Sartori, Self-funded social impact investment: an interdisciplinary analysis of the Sardex mutual credit system (2017).
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