Moda & Design

Artigiani digitali e tecnodesigner: qui sta il futuro della creatività italiana

22 Agosto 2016

Un fatto, difficile da contestare. Il mondo del design e quello del saper fare italiani (mondi gemelli e contigui, l’uno rivitalizzato dall’altro) sono sempre più attenti alle nuove tecnologie, e alla possibilità di coniugare eccellenza formale e innovazione. Certo, non si tratta di una novità. Si pensi solo a Bruno Munari, quando, nel 1964, realizzò la leggendaria lampada a sospensione Falkland. Per il diffusore, un materiale per l’epoca davvero all’avanguardia: la Lycra (alias Spandex), fibra sintetica di poliuretano ben più forte ed elastica della gomma, sviluppata proprio in quel periodo dall’americana DuPont.

Alchimia dell’industrializzazione novecentesca. In quegli anni di impetuoso sviluppo della chimica pensiamo al leggendario Moplen), la lampada in Lycra e alluminio assurgeva a vero e proprio concentrato non solo di creatività e bellezza, ma anche di innovazione. E in effetti designer, artigiani di alta gamma, architetti e tecnologi hanno sempre dialogato con grande intensità. Però mai come negli ultimi anni.

Poco prima di mancare, in un’intervista al Giornale, la star dell’architettura Zaha Hadid ha detto: «Gli enormi progressi compiuti nel campo della tecnologia di progettazione consentono agli architetti di ripensare la forma e lo spazio, utilizzando nuovi metodi e materiali di costruzione in via di sviluppo». Tra le tecnologie più promettenti citate dalla Hadid, la stampa 3D. E in effetti strumenti come il manifatturiero additivo (o il taglio-laser, o l’Internet delle cose) sono sempre più utilizzati da architetti, designer di ogni tipo e, ovviamente, produttori di mobili di design.

Nel Nordest italiano, e per la precisione in provincia di Padova, a Villa del Conte, ha sede la Lago. L’azienda è nata sul finire dell’Ottocento, grazie al patriarca Policarpo Lago, ebanista di vaglia attivo nel veneziano; oggi fattura 30 milioni di euro e ha 170 dipendenti. Nel suo sito la Lago si definisce «organismo pluricellulare che si nutre di tante diverse individualità», e parla di «contaminazione continua», «atomi e bit» e così via. Un lessico che potrebbe ben adattarsi a una startup high-tech che sogna la Silicon Valley, e che invece viene padroneggiato da un’azienda veneta che produce letti, divani e tavoli di design.

Di recente la Lago ha fatto molto parlare di sé grazie ai Talking Furniture: mobili in grado di parlare con gli utenti. «Si tratta di una tipologia di arredo che vuole scardinare i soliti, vecchi paradigmi uomo-arredo», spiega a Gli Stati Generali Daniele Lago, amministratore delegato dell’azienda. In poche parole, avvicinando lo smartphone al microchip a tecnologia Near Field Communication (NFC) inserito nel mobile, sarà possibile avviare un’interazione con il mobile stesso. «Per noi la tecnologia ha senso soltanto se migliora la qualità della vita delle persone. Grazie alla Talking Furniture è possibile, per esempio, caricare una nuova ricetta sulla cucina e condividerla con tutte le persone che hanno una cucina Lago; un genitore che si inventa una fiaba per il figlio può caricarla sulla cameretta del bimbo, e magari altri genitori potrebbero apprezzarla e raccontarla a loro volta ai figli…»

La tecnologia NFC della Lago viene dalla MadeUp, startup del famoso incubatore trevigiano H-Farm. Oltre a essere un modello di innovazione, se non a chilometro zero, perlomeno molto ravvicinata (Villa del Conte dista da H-Farm circa sessanta chilometri), il trasferimento di tecnologia dalla MadeUp alla Lago è un esempio piccolo ma concreto del grande potenziale di una filiera italiana del design pronta a contaminarsi con le sacche di intelligenza digitale, know-how tecnologico e creatività scientifica che costellano l’Italia.

D’altra parte, a parere di Lago, oggi l’innovazione nel suo business non è più solo un’opzione. «Senz’altro quando innovi incontri delle difficoltà, perché innovare non è mai facile, non è un percorso lineare, lastricato di numeri, ma si seguono sogni, intuizioni, percezioni – osserva – Però non si può fare altrimenti. Bisogna continuare a mettersi in discussione, non sentirsi mai arrivati. Perché quello che davvero frega un’azienda non è ciò che non conosce, ma ciò che pensa di conoscere…».

Sempre nel Nordest, in provincia di Pordenone, c’è la Marrone Custom Cooking. Dodici milioni di fatturato, esportazioni in tutto il mondo, la Marrone realizza cucine sartoriali di altissima gamma. Armando Pujatti, proprietario dell’azienda, dice: «Noi facciamo innovazione, certo, ma applicandola a un elevatissimo livello di artigianalità. Infatti le nostre cucine non partono da esigenze standard o modulari, e non potrebbe essere diversamente, dato che operiamo in tre mercati particolari: quello dell’hôtellerie, dove è forte l’interazione con light designer e interior designer; quello del fine dining, dove gli chef hanno esigenze assai specifiche; quello delle cucine professionali domestiche, per i cosiddetti foodie, cioè i grandi appassionati del cibo, e anche qui c’è una forte interazione con l’ambiente».

Oltre a essere personalizzati, i monoblocchi cottura della Marrone sono autentici concentrati di tecnologia, e il profano si stupirebbe nell’apprendere quanta innovatività ci possa essere in delle piastre a induzione o in un elemento refrigerante. Senza dimenticare, appunto, la natura artigianale del prodotto. «Nessuna delle nostre cucine è uguale all’altra, né a livello di forme, né a livello di funzioni, dimensioni o materiali. Talvolta al processo di creazione della cucina partecipa anche l’utilizzatore finale» sottolinea Pujatti.

Storicamente uno dei settori più innovativi e high-tech del design è stato il car design. Ovvio, se si considera il suo legame con un’industria ad alta intensità di innovazione quale è quella dell’automotive (e infatti molti grandi car designer sono stati ingegneri di vaglia, ad esempio Dante Giocosa o Sergio Pininfarina). Ma l’innovazione non è mai unilaterale, e fa rima con contaminazione.

Un caso emblematico, e piuttosto recente, è la Cactus Chair, realizzata dal noto architetto e designer milanese Mario Bellini ispirandosi agli Airbumb, i paracolpi laterali sulle porte della Citroën C4 Cactus. Le capsule ad aria compresse a protezione dell’auto sono state trasformate in una seduta assai comoda. «Sfruttando l’aria presente tra i due gusci flessibili dell’Airbump, una molla ad aria, un’imbottitura perfetta, è nata una sedia dal nome paradossale: Cactus Chair. Dall’automobile al mobile», ha spiegato Bellini. E in effetti la Cactus Chair ha colpito molto i giovani designer che l’hanno vista in anteprima alla Design Week.

«La Cactus Chair è un esempio di creatività al quadrato», osserva a Gli Stati Generali, affascinata, una giovane designer olandese: nella folla della Design Week di quest’anno, la designer olandese, per quanto perspicace, è una fra mille. Ma in realtà è una rappresentante della sempre più folta schiera di designer, trentenni o persino ventenni, che in un’era segnata da un autentico big bang tecnologico (“la singolarità è vicina” vaticinava Raymond Kurzweil nel 2005), si lanciano a capofitto lungo la strada dell’innovazione attraverso (o almeno grazie alla) tecnologia. Tecnodesigner insomma. Startupper della creatività capaci di coniugare una nuova estetica con funzioni e processi high-tech spinti.

Valentina Bruzzi ha 34 anni. Ha studiato design degli interni al Politecnico di Milano, poi ha lavorato a Roma nello studio di Fuksas, e per due anni è stata docente nella sua Alma Mater, dove si è occupata di design del gioiello. Oggi si occupa soprattutto di interior design, ma ha una piccola azienda, Saroj, che realizza gioielli 2.0 made in Italy. «Saroj significa in sanscrito “fiore di loto”. Si tratta di una metafora, rimanda al concetto di crescita: trasformarsi malgrado le difficoltà della vita, in direzione del bello».

Per i suoi gioielli la Bruzzi usa le tecnologie più all’avanguardia. Ad esempio la stampa 3D e il taglio-laser. «Ho messo a punto tre collezioni: i laserati, i bronzi e i tecnologici. – spiega – I primi sono come dei gioielli-tatuaggio, quasi una seconda pelle. Dopo varie sperimentazioni sono arrivata a un gioiello doubleface in Alcantara tagliata a laser, che richiama proprio il concetto di ricamo tecnologico».

La Bruzzi cita poi i bronzi, fatti appunto con la stampa 3D. «Prima modelliamo l’oggetto, e poi viene stampata una cera sottoposta al processo di microfusione. Anche se non si tratta di una sinterizzazione, è comunque 3D printing. Infine ci sono i tecnologici, gioielli interamente realizzati in 3D, stampati a polveri di nylon in sinterizzazione laser selettiva». Magari non è nobile come l’oro o l’argento, ma il nylon è un materiale con delle qualità stupefacenti: «Oltre a essere leggerissimo è davvero molto resistente, gli oggetti realizzati con il nylon sono infatti indeformabili».

A Milano ha sede anche Caracol, giovane studio di design multidisciplinare e innovativo dove la contaminazione tra artigianato tradizionale e strumenti digitali, innovazione tecnologica e creatività è la regola. Come dice a Gli Stati Generali il ventenne Paolo Cassis, uno dei due designer di Caracol, «qui noi progettiamo e produciamo di tutto, dagli oggetti agli arredi d’interni, attraverso tecnologie di digital manufacturing come le stampanti 3D, i laser cutter, le frese a controllo numerico e così via. Offriamo anche servizi di progettazione e sviluppo dei progetti, prototipazione, piccole serie».

Tra le creazioni di Caracol c’è Depero, tavolo scalabile fatto di travetti di legno di pino e giunti realizzati con la stampa 3D; orecchini a forma di cornetto napoletano che integrano stampa 3D e lavorazioni manuali, mischiando polimeri plastici, ferro e rame; Sinapsys, una struttura dinamica in legno e giunti (sempre realizzati con la stampa 3D) capace di crescere all’infinito, quasi fosse un’entità biologica. Insomma, analogico e digitale si mischiano nella prassi di questo studio, tant’è vero che Cassis nota: «Siamo artigiani digitali e tecnodesigner, cioè sia persone che sperimentano a livello software e hardware, sia gente che lavora molto con le mani. Da sola una o l’altra definizione per noi risulterebbe singolarmente riduttiva».

Depero, il tavolo realizzato da Caracol Studio
Depero, il tavolo scalabile realizzato da Caracol Studio

A Roma invece ha la sede D’Arc.Studio, fondata dagli architetti e designer Rosa Topputo e Alessio Tommasetti. Lo studio, attivo su molti fronti, ha tra l’altro collaborato con l’Istituto di Biorobotica del Sant’Anna alla realizzazione di MyHand, mano bionica capace di riunire un’estetica raffinata e le più avanzate tecnologie nel campo della prostetica.

«MyHand è stato il primo progetto di questo tipo a mostrare una stretta relazione tra l’aspetto estetico, stilistico, di pertinenza di noi architetti, e quello tecnologico e ingegneristico – aggiunge Topputo – L’obiettivo era creare un prodotto non solo funzionale ma anche esteticamente bello, perché ciò incide a livello psicologico sulle persone che indossano la protesi. Per fortuna lo sviluppo di nuove tecnologie, su tutte proprio la stampa 3D, consente di realizzare pezzi altamente personalizzati, e questo aiuta a migliorare l’estetica».

Per la Topputo estetica e tecnologia devono combinarsi sapientemente. «Ormai molti progetti nascono non soltanto dalla creatività ma pure dal saper utilizzare la tecnologia a disposizione. I metodi, gli stilemi classici e le competenze tecnologiche vanno di pari in passo, nel nostro settore. E infatti sia io che il collega Alessio Tommasetti siamo sì architetti, ma sempre alla ricerca di nuove tecnologie, nuovi software e così via…».

In effetti un elemento che accomuna molti designer sembra essere la volontà di utilizzare il design, la bellezza delle forme e dei materiali, per addomesticare la tecnologia, rimettendo al centro l’essere umano con tutte le sue necessità e anche i suoi problemi. Questo è manifesto, ad esempio, in un importante lavoro, ad alto tasso di innovazione sociale, dei designer Ivan Parati ed Emanuela Corti.

Sposati, Parati e Corti sono italiani ma vivono a Dubai, dove insegnano al dipartimento di interior design della Ajman University of Science and Technology. La coppia, da sempre affascinata dall’interazione tra tecnologie, estetica, culture e artigianato, ha realizzato una collezione di abiti, Sensewear, che nel 2015 ha vinto il Grand Prix Lexus Design Award. «La nostra è una linea d’abbigliamento ispirata a terapie sensoriali solitamente usate nei casi di autismo e sindrome di Asperger – spiega a Gli Stati Generali Parati – Scopo precipuo della nostra collezione è aumentare la percezione sensoriale e allenare l’uso dei sensi. Ecco perché alcuni capi amplificano le sensazioni fisiche, mentre altri le smorzano».

La collezione include SqueezeMe, sciarpa multidimensionale da usare in casi di emergenza sensoriale, prodotta attraverso un taglio laser del tessuto; HoldMe, poncho musicale dotato di microfono, che emette suoni in risposta ai movimenti; PumpMe, giacca munita di un cuscino gonfiabile al di sotto della fodera, in grado di proteggere chi la indossa dal contatto fisico, creando allo stesso tempo attorno al corpo una pressione che ha un effetto calmante su persone affette da autismo («Una specie di abbraccio virtuale», precisa Parati).

Lavori come quelli di Parati sparigliano le carte. E rendono ancora più difficile le tassonomie. Ma che nell’impero del design e del saper fare italiano sia in corso una mutazione tecnologica, questo è fuori di discussione. E d’altra parte l’unica certezza offerta dalle definizioni, in questi tempi assai incerti, è potersi orientare nel mare magnum di un cambiamento che, oltre a essere tecnologico, è soprattutto culturale.

«Penso che io e il mio collega possiamo definirci dei tecnodesigner, se si intende con questo termine pure chi lavora con la progettazione a livello tecnologico. Del resto oggi anche il tecnologico, anche il digitale è “fatto a mano” – nota Topputo – Se progetto e realizzo un bracciale attraverso la stampa 3D per me è un “fatto a mano”, perché lo creo, lo scolpisco da una sfera come se fosse plastilina…». Alla fine nella parola tecnodesigner, ciò che più conta non è il tecno ma il designer.

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In copertina, la mano bionica MyHand progettata da D’Arc.Studio

[Hanno collaborato Francesca Mandelli e Valentina Saini]

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