Moda & Design

Il futuro del design è capire cosa ha senso fare con tutta la tecnologia che c’è

26 Febbraio 2018

In un mondo dinamico, liquido, globalizzato, che non conosce confini (e forse proprio la nostalgia per i confini e un po’ di staticità contribuisce a spiegare certe involuzioni politiche), la contaminazione non è un mero seguire il flusso della corrente. È un gesto di generosità, di coraggio, ma anche di buon senso. Rinchiudersi in ghetti e torri d’avorio significa, bene che vada, fossilizzarsi. Nel peggiore dei casi, morire.

Ciò vale anche per il design, che deve essere interdisciplinare. E lo diventerà sempre di più. È questa, del resto, la lezione di un visionario del XXI secolo come Steve Jobs; che già nel 1973, in una domanda di lavoro messa di recente all’asta, alla voce studi scriveva “letteratura inglese”, ma subito sotto sottolineava le sue abilità nell’uso del computer e del calcolatore, le sue competenze come “designer engineer” ed esperto digitale. E del resto, è ormai risaputo che la passione di Steve Jobs per i font, maturata durante un seminario di calligrafia, ha cambiato la storia dell’informatica.

Il design si sta sempre più contaminando. Tecnologizzando. Aprendosi a nuovi mondi. Si prenda, per esempio, il caso di Simone Simonelli, industrial designer basato a Bolzano il cui lavoro è all’insegna, appunto, della poliedricità e dell’interdisciplinarietà. «Mi ha segnato l’esperienza, tra il 2009 e il 2015, di ricercatore sul tema design e nuove tecnologie presso l’Università di Bolzano – racconta a Gli Stati Generali –. Lì ho avuto modo di collaborare con la facoltà di informatica, e con quella di economia. Confrontarmi con esperti di discipline diverse mi ha fatto comprendere quanto sia importante costruire un team con varie competenze al suo interno».

Questa Weltanschauung si ritrova nello studio che Simonelli ha creato con la collega Giulia Cavazzani, industrial designer a sua volta, e con l’esperto di business Davide Zari, e dove lavora anche un ingegnere elettronico. «Ora ad esempio, stiamo lavorando con un grosso gruppo sportivo per inserire la tecnologia nei loro prodotti» raccona Simonelli. Wearable technology, dunque, nuova frontiera della contaminazione tra fashion design e tecnologie (dei materiali, biomedicali, elettroniche).

E infatti, ai suoi studenti a Bolzano o a Milano, Simonelli cerca di trasmettere «il fatto che oggi c’è una grandissima opportunità: quella di contaminarsi con, e farsi contaminare da, altre competenze». Anziché vedere il design come un mondo chiuso, con le sue colonne d’Ercole in settori gloriosi ma tradizionali come l’interior design e il furniture design, si può andare plus ultra, verso i lidi di competenze più tecniche e tecnologiche. Ma sempre in un’ottica di centralità delle esigenze umane. «Vedo studenti che con estrema facilità scrivono codici su Arduino e poi progettano in 3D, e a volte mischiano queste due competenze. Vedo ragazzi che sanno montare nelle borse sensori incredibili». Ride. «Quando avevo la loro età non sapevo fare tutte queste cose: probabilmente gli insegnamenti erano più monotematici, adesso si impara la contaminazione».

Lo conferma Venanzio Arquilla, docente della Scuola di design del Politecnico di Milano e professore associato presso il dipartimento di design dello stesso. «I designer devono saper scrivere codice? La tecnologia rende possibile tutto; non è più questione di costi, il problema è capire cosa ha senso fare. In ogni oggetto che si produce per la casa, per la persona, è ormai possibile inserire della tecnologia. Ma ha senso questa proliferazione tecnologica? Questo IoT indistinto?»

È compito dei designer fare un po’ di chiarezza. Anche se non è sempre facile, per i designer, confrontarsi con le aziende, che svolgono il ruolo cruciale di tradurre il potenziale scientifico, tecnico e tecnologico in innovazione per i consumatori. «Il problema – spiega Arquilla – è che quando un’azienda si trova ad affrontare un tema così complesso e delicato come quello dell’innovazione, tende ad affrontarlo secondo logiche sistemiche, non di singolo progetto. E non è facile per il designer riuscire a imporre le sue regole e i suoi metodi».

Venanzio Arquilla

Per esempio, se si cambiano le dinamiche di produzione, osserva il docente, ne può discendere la dismissione di una linea, o la necessità di installare robot. «Si tratta di una sfida tanto per l’azienda che per il designer. In generale, questa è una fase carica di difficoltà e di diffidenze culturali, che va affrontata con maturità. È un momento decisivo». Un momento che richiede, appunto, capacità di sapersi ibridare, e di essere multidisciplinare. Un momento in cui il designer singolo, da solo, rischia di non bastare più.

Da qui la necessità, appunto, di studi con una struttura di una certa ampiezza, dalla vocazione multidisciplinare (come nel succitato caso dello studio fondato da Simonelli e soci); studi-officina dove, oltre al progetto, si abbozza pure il prototipo, magari una versione 0 del prodotto, e si fa sperimentazione sulle tecnologie. Diverso il caso del designer orientato su un singolo prodotto, del designer-startupper, per così dire. «Se la dimensione consulenziale verso l’impresa ha bisogno di struttura, la dimensione dell’autoproduzione meno – continua Arquilla –. Si pensi a Goliath, innovativa fresa a tre assi sviluppata da tre studenti del Politecnico di Milano incubati dentro Polihub. Su Kickstarter hanno ottenuto un finanziamento importante».

Effettivamente i giovani designer sono sempre più ibridi e attenti alla tecnologia. Valentina Bruzzi è una designer milanese che realizza gioielli con la stampa 3D. «La tecnologia mi ha sempre affascinato, e quindi mi è venuto abbastanza naturale ripensare la produzione di un gioiello e la sua progettazione a monte attraverso delle tecnologie innovative». Fa una pausa, la voce si increspa in un sorriso: «Se le tecnologie ci permettono di risparmiare tempo, denaro, risorse, perché non utilizzarle in fondo?»

Residente in Sicilia, la Bruzzi spiega: «Oggigiorno è molto difficile portare avanti un brand solo con le proprie forze, perché ci vogliono dei capitali notevoli. Anche perché hai a che fare con una concorrenza che ha le spalle molto più larghe di te. In questo senso usare tecnologie innovative per massimizzare gli sforzi e ridurre i costi è davvero fondamentale». Per i suoi lavori la Bruzzi utilizza «la sinterizzazione laser selettiva e il taglio laser. Ci sono diversi tipi di laser, e a seconda del materiale da tagliare devi trovare la macchina adatta, in grado di dare l’effetto che vuoi. Io per arrivare ai prodotti che presento ho dovuto investire moltissimo in prototipazione, ho dovuto cercare il fornitore adatto con la stampante 3D adatta. Ricordo che a Milano mi chiesero addirittura seicento euro…»

Non è un mondo facile, quello dei tecnodesigner. Non solo perché usare tecnologie come quelle citate è difficile, ma pure a causa delle difficoltà intrinseche nella commercializzazione di un prodotto innovativo. «Se i designer, i giovani designer in particolare, riuscissero a essere un po’ più “comunitari”, senz’altro riuscirebbero a fare cose molto interessanti: ad esempio accedere con più facilità a messe in produzione con aziende che hanno modalità realizzative interessanti ma richiedono ordinativi consistenti. Però, almeno in base alla mia personale esperienza, tende a prevalere l’individualismo».

Associarsi, fare fronte comune, coalizzarsi intorno a progetti e sperimentazioni comuni. In effetti è questo il consiglio che alcuni designer senior sentiti da Gli Stati Generali danno ai giovani. Che da parte loro si danno senz’altro da fare, talvolta con risultati di portata internazionale. È il caso di Orange Fiber, startup siculo-trentina che produce tessuti innovativi per la moda attraverso il “pastazzo”, ovvero cioè il residuo della produzione industriale di succo di agrumi. La sua CEO, la catanese Adriana Santanocito, spiega: «Penso che il ruolo dei designer sia fondamentale perché permette di risolvere un problema guardandolo con occhi creativi ma anche funzionali. E la tecnologia, in questo senso, senza dubbio aiuta».

Foto: Pixabay

A parere di Santanocito il designer «deve porsi come interfaccia tra tutto ciò che nasce a livello di ricerca tecnoscientifica, e il consumatore; deve essere il designer a trasformare il nuovo in qualcosa di utile, o a risolvere un problema applicando in modo molto concreto la ricerca scientifica, l’innovazione tecnologica. Il designer, insomma, deve essere un ponte tra le grandi rivoluzioni tecnoscientifiche e la nostra vita quotidiana». Parlando con la designer emerge, prepotente, la visione del designer come vero e proprio «ibrido, in grado di interagire con competenze e professionalità diverse, un po’ scienziato, un po’ imprenditore».

Questo è vero quando si ha un bagaglio culturale ricco come quello di Ekaterina Shchetina, designer basata a Milano. «Sono nata a Krasnodar, nella Russia del sud. Già da giovanissima mostravo uno spiccato interesse per il mondo artistico, che mi ha accompagnato fino agli studi di Belle Arti in Russia. Dopodiché mi sono trasferita a Milano, per completare gli studi allo IED e iniziare a lavorare. Nel 2012, insieme al mio socio Libero Rutilo, abbiamo aperto il nostro studio, un atelier multidisciplinare di progettazione che spazia dal design di prodotto sia di serie che artigianale, all’interior design e alla direzione artistica».

 

IO Lamp, Designers: Ekaterina Shchetina, Libero Rutilo

Per Shchetina, «in quest’epoca siamo circondati dalle tecnologie. Quindi trovo naturale utilizzarle, integrarle e scoprire le loro potenzialità, ma senza renderle invasive o eccessive. Credo, cioè, nella necessità di un giusto equilibrio tra passato e futuro. Una delle cose che mi piace fare è integrare le tecnologie in oggetti esistenti, come se si trattasse di un loro naturale aggiornamento. Per esempio in una seduta-libreria che ho disegnato, mi è sembrato ovvio incorporare una porta tablet e delle prese USB per ricaricare i vari dispositivi».

Anche tra cinquant’anni gli esseri umani ameranno sedersi e leggere un buon libro, ma forse la sedia e il libro saranno molto diversi da quelli che abbiamo conosciuto.

 

 

 

 

Foto di copertina: Pixabay

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