Acqua
Agire per salvare gli oceani: UNESCO e Prada insieme nel progetto Sea Beyond
Il 28 giugno a Parigi è stato presentato il nuovo accordo con il quale il gruppo Prada e l’UNESCO rafforzano il proprio impegno a tutela degli oceani nella cornice del progetto Sea Beyond. Il gruppo italiano del lusso verserà l’1 % del ricavato delle vendite della collezione Re-nylon a sostegno delle attività educative, di ricerca e sviluppo promosse dall’UNESCO per la tutela del mare.
Il 28 giugno a Parigi, presso la sede dell’agenzia delle Nazioni Unite, il gruppo italiano del lusso Prada e l’UNESCO hanno presentato il nuovo accordo per rafforzare il proprio impegno nell’ambito del progetto Sea Beyond, lanciato nel 2019 in collaborazione con la Commissione Oceanografica Intergovernativa (IOC) dell’UNESCO e dedicato a promuovere l’educazione alla tutela del mare e delle sue risorse.
In virtù del nuovo accordo, il gruppo Prada si impegna a versare al progetto l’1% delle entrate generate dalle vendite dei capi della sua collezione Re-nylon. Con questi fondi, previa approvazione dell’UNESCO, saranno finanziati un programma educativo biennale, dedicato alla sensibilizzazione sulla vita nel mare e sulla sua salvaguardia, e una serie di attività di ricerca scientifica e sviluppo di progetti umanitari connessi alla tutela degli oceani. La gestione di queste attività sarà affidata all’Ufficio di Coordinamento del Decennio del Mare, che sarà inaugurato a Venezia e ospiterà l’ufficio regionale UNESCO per la scienza e la cultura in Europa insieme all’ufficio progetti della Commissione oceanografica intergovernativa (IOC). Questi organi avranno il compito di proporre e organizzare attività di sensibilizzazione rivolte ai giovani per la tutela dell’oceano. In particolare, essi supporteranno le attività dell’Asilo della Laguna, istituito l’anno scorso a Torcello (Venezia) per la sensibilizzazione dei bambini in età prescolare, e si occuperanno del lancio della terza edizione del programma educativo per lo studio dell’oceano rivolto alle scuole secondarie del mondo – grazie al quale, ad oggi, sono stati formati in materia oceanografica più di 600 studenti fra Sudafrica, Brasile, Cina, Italia, Messico, Peru, Portogallo e Regno Unito. Oltre a ciò, l’Ufficio di Coordinamento del Decennio del Mare si dedicherà all’organizzazione di attività e campagne di sensibilizzazione per la tutela dell’oceano rivolte soprattutto ai giovani, nonché alla creazione di reti di educazione all’oceano (Scuole blu, Città blu). Tutto ciò, possibilmente, collaborando con governi, centri di ricerca, ONG, stakeholders privati e società civile al fine di creare una “cultura del mare” diffusa e accessibile a tutti, anche in vista della terza UN Ocean Conference che si terrà a Nizza nel 2025.
L’importanza di creare partnership strategiche e virtuose a tutela dell’ambiente e delle nuove generazioni è stata sottolineata, durante il lancio del progetto, dallo Head of Corporate Social Responsibility di Prada Lorenzo Bertelli, il quale ha dichiarato:
“La necessità di occuparsi della salute della Terra credo sia chiara a tutti: persone, aziende, Paesi. O almeno così dovrebbe essere e non da oggi. Dobbiamo investire nel dialogo con le nuove generazioni, per costruire un futuro più sostenibile e prenderci cura dell’oceano. […] La partnership con Unesco sul progetto Sea Beyond iniziò nel 2019, mesi prima dello scoppio della pandemia che avrebbe sconvolto il pianeta. Nei due anni successivi abbiamo tutti sofferto, persone e aziende, ma il gruppo Prada ha continuato a sostenere l’iniziativa e a maggior ragione vogliamo farlo adesso, nonostante le incognite e incertezze che vediamo. Anzi, forse è proprio l’imprevedibilità degli eventi economici e geopolitici fuori dal nostro controllo che rafforza la volontà di investire in sostenibilità sociale e ambientale: significa guardare al futuro, con speranza e fiducia.”
Per questo il gruppo Prada, prima azienda italiana nel settore della moda con un fatturato che nel 2022 è cresciuto del 25% a 4,2 miliardi e che nel periodo gennaio-marzo 2023 ha già ottenuto ricavi pari a 1,065 miliardi (+22% sul primo trimestre dell’anno scorso), ha voluto rafforzare il proprio impegno a tutela degli oceani nell’ambito del progetto Sea Beyond, contribuendo con parte degli introiti dei capi Re-nylon.
Del resto, spiega Bertelli, la scelta di Re-nylon è significativa: si tratta di capi prodotti di un tessuto fabbricato a partire da nylon recuperato e purificato, proveniente dai residui plastici raccolti negli oceani e derivanti dalle reti da pesca o dalle discariche. Questo materiale, grazie alle sue caratteristiche, può essere rigenerato all’infinito, costituendo così un perfetto esempio di visione sostenibile della moda del domani.
Tale iniziativa, accolta con favore dalle Nazioni Unite, arriva in un momento particolarmente delicato per le grandi case di moda internazionali che, a dieci anni dalla tragedia del Rana Plaza, sono ora di nuovo al centro di aspre polemiche a proposito di presunte (e non) pratiche di greenwashing e violazioni dei diritti umani.
Dopo lo scandalo che ha colpito il colosso del fast fashion Shein, brand cinese fondato nel 2008 e accusato di basare la propria linea produttiva sullo sfruttamento e le condizioni deplorevoli dei lavoratori in fabbrica – oltre che di diverse violazioni connesse alla tutela dell’ambiente – infatti, è da pochi giorni il turno di Patagonia.
Fondata dall’alpinista Yvon Chouinard nel 1970 e conosciuta in tutto il mondo per il suo impegno ambientale e sociale (nel 2022, l’azienda è stata regalata alla no profit Holdfast Collective), Patagonia è stata recentemente accusata di non rispettare i canoni etici e di sostenibilità da sempre al centro delle politiche dell’azienda.
In un’inchiesta condotta e pubblicata dalla piattaforma indipendente Follow the Money, Patagonia è stata chiamata a rispondere a proposito di presunte violazioni di diritti umani e sfruttamento nei confronti dei lavoratori degli stabilimenti dove lavorano i fornitori di Patagonia, e in particolare nell’azienda Regal Image che si trova in Sri Lanka. Stando alle informazioni che emergono dall’inchiesta, Patagonia avrebbe collaborato con diversi fornitori che non rispettano affatto l’etica del lavoro e che, al contrario, sfruttano i propri dipendenti con stipendi da fame, orari di lavoro massacranti (si parla di turni di 17 ore) e totale assenza di garanzie.
A queste accuse, la società ha risposto dichiarando di non aver riscontrato alcuna evidenza di tali violazioni. Al contrario, stando a Patagonia, dalle indagini svolte dalla società “non è emersa alcuna evidenza e non sono stati riportati dai lavoratori casi di uso di droghe per aumentare le produttività, eccessivo ricorso agli straordinari (oltre le 60 ore), straordinari non pagati, repressione antisindacale e molestie verbali” come invece riportato da Follow the money. “Sette dei nostri partner in Sri Lanka sono certificati Fair Trade USA, il che significa che Patagonia paga un premio destinato direttamente ai lavoratori di queste fabbriche”, continua l’ufficio stampa aziendale dichiarando che per quanto riguarda i controlli, Patagonia monitora con regolarità i partner della filiera produttiva, sia direttamente che attraverso associazioni come Fair Labor Association, Fair Trade USA e Better Work ILO. “Se riscontriamo problemi, collaboriamo con i nostri partner per implementare soluzioni efficaci e durature, come nel caso del nostro impegno per eliminare le tasse per i lavoratori migranti”, conclude l’azienda.
In attesa che venga fatta luce sulla vicenda, un dato resta chiaro: la moda inquina, danneggia l’ambiente e in particolare gli oceani.
Come è stato riportato dal World Resources Institute, infatti, il settore della moda, oltre a essere causa del 10% dei gas serra globali, è responsabile del 35% delle microplastiche che finiscono nei mari e negli oceani. Stando al World Resources Institute, la produzione di un singolo capo di abbigliamento comporta uno spreco immenso di materiali, acqua e risorse energetiche da parte dell’industria della moda. Basti pensare che, realizzare una sola maglietta di cotone occorrono, oltre che enormi quantità di prodotti chimici nonché un massivo consumo di energia, ben 2.700 litri d’acqua, cioè la quantità media che una persona beve in due anni e mezzo.
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