Macroeconomia
Senza un “piano industriale” falliranno sia Tsipras sia il QE
A distanza di pochi giorni l’Europa ha cercato di rispondere alla lunga crisi che dal 2008 soffoca la crescita economica. Vediamo di cosa si tratta. Il 22 gennaio Draghi annuncia la prima misura di Quantitative Easing (QE) che prevede un “allentamento monetario” di oltre mille miliardi di Euro da parte della Banca Centrale Europea. Il 25 Gennaio Tsipras vince in maniera quasi plebiscitaria le elezioni politiche in Grecia. Draghi interviene iniettando denaro, la Grecia sceglie la ricetta di Tsipras: il taglio del debito. Ma ciò che Draghi e Tsipras ci propongono in modo profondamente diverso non è forse una variante sul tema del credito facile? Non si tratta forse della ricerca di una soluzione finanziaria ad un problema industrialeo meglio dire strutturale?
Un piccolo passo indietro per cercare di definire quali sono i problemi a cui Draghi e Tsipras cercano di dare una risposta: l’Europa, ormai da troppo tempo, soffre di una scarsissima crescita economica a cui si è recentemente associata un’inflazione negativa, quella che in termine tecnico viene definita “deflazione”. In Grecia si vivono gli effetti estremi, economici e sociali devastanti di questa crisi. I manuali di macroeconomia ci insegnano che la deflazione si cura con le iniezioni di liquidità affinché, in estrema sintesi, aumentando l’offerta di denaro, rendendo quest’ultimo meno caro, si possano considerare convenienti investimenti che altrimenti non si giustificherebbero, favorendo così l’incremento della capacità produttiva e la ripresa del PIL. Questo in altre parole è il QE proposto dalla BCE. Se volessimo paragonare questo processo a quello che normalmente si applica ad un’azienda in crisi, potremmo dire che la BCE ha deciso di offrire denaro a buon mercato affinché l’azienda Europa possa riprendere a crescere.
La Grecia in Europa è il malato più grave: disoccupazione oltre il 27% che sale al 65% tra i giovani (fonte Christos Staikouras, ex ministro delle finanze), un PIL da anni in riduzione, tanto che nel 2013 aveva perso circa 17 miliardi di Euro rispetto a quello del 2005 (€182.4 mldi vs €199.15 mldi, fonte Eurostat) e che solo nel 2014 ha ricominciato a crescere, seppur ad un ritmo molto ridotto (0.6%). Ebbene, cosa propone il neo eletto Tsipras? Non una revisione del “progetto industriale del paese” bensì un taglio, che per fortuna nelle ultime ore si è trasformato in una ristrutturazione, del debito greco. Ancora una volta una soluzione finanziaria e non una soluzione “industriale”. Ancora una volta credito facile.
È forse questo il modo per uscire dalla crisi che Grecia e Europa stanno vivendo da ormai quasi 8 anni? A mio avviso no, in quanto il credito facile allevia i sintomi, ma non eradica le cause della crisi, mancando quello che, sempre in un azzardato paragone tra paesi ed aziende, sarebbe definito il “piano industriale di turnaround per tornare ad essere competitivi”. Certo non è compito della BCE di Mario Draghi fornire soluzioni strutturali, ma semmai fornire le condizioni per favorirle: sono infatti i singoli stati che debbono implementare le riforme ed in questo Draghi è stato molto esplicito. Il piano di Tsipras prevede esclusivamente un riduzione del debito, facendo quindi pagare ai creditori, in molti casi certamente improvvidi, una debolezza strutturale che invece è propria del paese: in quale settore la Grecia è competitiva a livello globale? Non solo, ma lo fa sperando che i medesimi creditori, che oggi vorrebbe penalizzare, siano disponibili a continuare a finanziare il deficit greco pur in assenza di un serio piano di “ristrutturazione industriale” del paese.
Nel mondo delle aziende, nessuna delle due proposte sarebbe considerata accettabile. Il QE verrebbe verosimilmente definito “insufficiente” anche se il Presidente della BCE, che non a caso è un tecnico che non deve essere eletto, ha fortemente invocato riforme strutturali tese a favorire la crescita (ma non ha ahimè parlato di competitività). Mentre il piano Tsipras, il piano del politico che deve rispondere alle attese, invero mal riposte, dei propri elettori, verrebbe invece definito irricevibile in quanto mancante di qualsiasi indicazione di come le debolezze strutturali del paese possano essere curate. Se Tsipras non spiega alla fine come intende rendere il suo piano sostenibile nel medio periodo, Draghi fornisce tale indicazione ma non ne fa una conditio sine qua non per far partire il QE.
Un esempio eclatante di come una soluzione finanziaria non risolva in modo sostenibile e duraturo il problema “industriale” lo possiamo ritrovare nel caso argentino dove, una volta ristrutturato il debito (1982) si è passati alla parità peso/dollaro che ha portato alla crisi del 2001 ed alla attuale situazione di tensione finanziaria: senza un serio piano di cambiamento della struttura competitiva del paese, la crisi si ripresenterà, probabilmente più acuta, tra qualche anno. L’Europa e quindi anche la Grecia devono occuparsi di come tornare ad essere competitive a livello globale incrementando la produttività attraverso investimenti – quelli sì da farsi finanziare in quanto forieri di nuova produzione di ricchezza – in ricerca, in formazione, in infrastrutture, associati ad un taglio strutturale dei costi che (ahimè) rappresentano un serio sacrificio peri tutti gli stakeholders. Proprio come si fa con le aziende in crisi: prima si definisce un piano di riduzione dei costi per unità di prodotto che renda l’azienda competitiva, che spesso richiede ingenti investimenti in capitale e, poi, si chiede ai creditori (ed agli azionisti) i soldi per finanziarli.
Se oggi le ricette che ci vengono proposte sono quelle del credito facile, non possiamo dimenticare che in fondo questa crisi sia nata proprio e anche dalla concessione del credito a chi il credito non se lo meritava: cos’ altro sono, infatti, i mutui sub-prime, gli oltre 300 miliardi di crediti in sofferenza delle banche in Italia? E alla fine gli effetti li paghiamo tutti, come cittadini e contribuenti senza, per il momento, garanzie per il futuro.
Certo nessuna soluzione alla crisi può e deve dimenticare gli aspetti sociali e se ciò è vero in una logica aziendale, tanto più necessariamente nella dimensione dei Paesi. La lezione greca insegna ancora una volta quanto sia difficile il compromesso tra sostenibilità del debito pubblico e spesa sociale; quella spesa che riserva le risorse disponibili alle parti sociali più in difficoltà e che fino ad oggi nella maggior parte dei Paesi Europei ha garantito un tenore di vita evidentemente al di sopra delle attuali possibilità ingigantendo i debiti sovrani. Ma basterà davvero il credito facile e cambiare strutturalmente il nostro modo di tutelare le parti sociali più deboli, spendere meglio il denaro, riducendo la spesa e quindi il debito pubblico?
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