Macroeconomia
Se il (neo)liberismo è il male, come mai Londra è la terra promessa?
Come sa chiunque non viva sulla cima di una montagna, attraverso articoli, interviste, dibattiti, interventi, proposte politiche… da anni siamo incessantemente martellati dall’elenco delle colpe del (neo)liberismo, non solo in riferimento alla crisi finanziaria del 2008-09, ma anche e soprattuto, oramai, a quella successiva dei debiti sovrani in Europa, per non parlare dei disastri sparsi un po’ ovunque dalla cosiddetta Troika, che del (neo)liberismo rappresenterebbe in qualche modo il braccio armato. Ogni situazione di grave difficoltà, in buona sostanza, è ad esso riconducibile, inclusa quella greca, che, secondo il neo ministro delle finanze Tsakalotos, “costituisce il paradigma di una più generale crisi dell’assetto politico ed economico neo-liberista”.
Aldilà delle molteplici ramificazioni e dei simpatici eccessi, chi parla in tal modo sembra concentrarsi essenzialmente su tre elementi:
a) una particolare visione della società, una dottrina politico-economica, ed il nucleo di policy che ad esse si accompagna, una generale riduzione del perimetro dello Stato e dell’intervento pubblico nell’economia;
b) l’esito di tali policy, nelle parole di Pablo Iglesias, il leader spagnolo di Podemos, “conseguenze catastrofiche per il genere umano, in un sistema che condanna alla povertà milioni di persone”.
c) una precisa paternità (o forse meglio, maternità) storico-ideologica, che affonda le sue radici nel mondo anglosassone degli anni ottanta, da nessuno incarnata in modo più compiuto che dall’odiata Margaret Thatcher.
Ora, lasciando da parte le mille e possibili disquisizioni teoriche, le controversie sui meriti e demeriti della lady di ferro, e consimili appassionanti questioni, il punto interessante riguarda proprio il Regno Unito, nella misura in cui l’isola d’oltre Manica rappresenta una evidente quanto curiosamente spesso trascurata sfida alla vulgata di cui sopra.
In questa diffusa lettura, infatti, la Gran Bretagna degli anni ottanta è stata il terreno d’elezione delle politiche (neo)liberiste, il ground zero, un po’ quello che il deserto del Nevada fu per gli esperimenti atomici.
Politiche, altro aspetto cruciale, che non sono mai state cancellate: Tony Blair ed il New Labour – in parte a ragione (“we are all Thatcherites now”, scrisse Peter Mandelson in un celebre articolo del 2002, affermazione peraltro troppo spesso estratta dal suo più ampio contesto), in parte a torto – sono percepiti in sostanziale continuità con il thatcherismo. E se si esclude la breve parentesi di spesa pubblica anti-ciclica operata da Gordon Brown – nulla di strutturale, dunque – si torna poi quasi subito alla percezione di una severa austerità di bilancio, tanto che Cameron ad Osborne sono stati negli ultimi anni i bersagli preferiti di Paul Krugman.
L’isola del liberismo compiuto, insomma.
E, tuttavia, l’isola verso cui frotte di giovani e meno giovani qualificati fuggono sempre di più, in una sorta di esodo silenzioso i cui numeri cominciano, però, a fare un certo rumore: Londra è ormai la tredicesima città italiana, con un numero di nostri concittadini pari a quello di Verona.
Come è possibile, allora, che un posto che dovrebbe logicamente essere semi distrutto sia divenuto invece una specie di terra promessa?
Forse perché la crescita trimestrale reale degli ultimi due anni e mezzo è stata la seguente vs la continua recessione italiana?
O perché le previsioni di crescita per gli anni a venire sono questi, doppi o tripli dell’Italia (dopo che, ricordiamolo, dal terzo trimestre del 1991 al secondo trimestre del 2008 non ci fu mai una sola recessione)?
O perché la disoccupazione, salita nell’immediato post-Lehman, ha ripreso a scendere, ed ora è al 5,6% contro il ben oltre 10% di Francia ed Italia?
O ancora perché la flessibilità, unitamente ad altri elementi, ne colloca l’efficienza del mercato del lavoro al 5° posto al mondo vs il 136° dell’Italia nel ranking del World Economic Forum?
O perché la pressione fiscale effettiva è di circa 14 punti percentuali (40,4% vs 54%) più bassa di quella italiana?
O perché la mano pubblica fa meno cose ed intermedia una quota più bassa di prodotto, ma lo fa in modo generalmente efficiente, tanto che, se qualcuno ha letto il recente libro di Carlo Cottarelli sulla revisione della spesa pubblica e del funzionamento dello Stato – ché questo, in fin dei conti, vuol dire riqualificare la spesa, cambiare il modo in cui funziona lo Stato – ha avuto modo di vedere più di una volta la Gran Bretagna citata come (per noi inarrivabile) benchmark internazionale?
O magari perché la partecipazione femminile al lavoro è di quasi 20 punti percentuali superiore a quella italiana?
O perché nel “regno della de-industrializzazione” nel 2014 sono stati prodotti (car + light commercial vehicles) circa 1.6 milioni di autoveicoli,
ed in Italia meno della metà (la maggior parte dei quali da un unico produttore a cui, peraltro, negli ultimi anni si è fatta una sorte di guerra)?
Si potrebbe continuare molto a lungo.
Ciò non è in alcun modo per sostenere che il Regno Unito sia una realtà priva di problemi (chi lo è, d’altra parte?), sopravvissuto alla difficile prova del referendum scozzese, nel mezzo del tentativo di ridefinire il proprio rapporto con l’Unione Europea, con partiti nazionalisti cresciuti nei numeri ben più di quanto i seggi realmente conseguiti raccontino, attraversato da non piccoli squilibri territoriali…
Resta che nel 1979 era un paese disfunzionale ed in strutturale declino, ed il famoso “winter of discontent” dello stesso anno avrebbe fatto probabilmente apparire la Roma contemporanea una città pulita al confronto o la pubblica amministrazione italiana qualcosa di vagamente efficiente,
“In the “Winter of Discontent” in 1979, almost half of the hospitals in the U.K. were accepting only emergency patients. Household rubbish collection stopped. Petrol shortages loomed as flying pickets of transport workers blocked refineries. And it was the coldest winter in 20 years to boot”.
ed oggi è il magnete che tutti abbiamo sotto gli occhi.
Forse, almeno parte di quello che viene indicato come (neo)liberismo è stata in realtà la capacità di ristrutturarsi per tempo per competere, di aprirsi per abbracciare l’era globale, di dotarsi della flessibilità necessaria per gestire il cambiamento sempre più rapido? Per riprendere le parole di Mandelson,
“La globalizzazione punisce duramente qualsiasi paese che cerchi di gestire la sua economia ignorando la realtà del mercato e di finanze pubbliche prudenti. In questo senso strettamente, ovvero l’urgenza di eliminare le rigidità e incorporare la flessibilità sui mercati dei capitali, dei prodotti e del lavoro, oggi siamo tutti thatcheriani”.
Ma questo è già divagare. La domanda, come detto, voleva essere un’altra: come mai un luogo che, a seguire la logica che ci viene di continuo proposta, dovrebbe essere non meno che terribile – a rigore, il più terribile, probabilmente, ché almeno gli Stati Uniti ora hanno il buon Obama -, la punta avanzata e mai redenta di un fallito paradigma globale, è al contrario una specie di terra promessa per i giovani di mezza Europa (mentre l’Italia versa in stato di crisi permanente)?
Vallo a sapere.
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