Macroeconomia
Renzi impari dalla Clinton: sgravi fiscali alle aziende che aumentano i salari
“Fare le riforme”. “Fare ripartire la crescita”. Sono i “mantra” del nostro tempo, e sono l’unica cosa che unisce l’Europa. Unisce Tsipras e la Merkel, Schaeuble e Varoufakis, Renzi e Fassina. Ma sono modi di dire a cui ci sentiamo assuefatti, sono parole. Senza numeri, questi concetti hanno lo stesso valore della preghiera (per un ateo). E non c’è neppure un riscontro per chi governa e per chi sceglie i governanti. Quali riforme? Quanta crescita? Uno slalom parallelo con il dibattito con la politica americana ci mostra che un politico italiano è meno concreto quando è al governo di quanto lo sia un politico americano in campagna elettorale.
Quanta crescita? Qual è il livello di crescita che nel lungo periodo un paese come l’Italia può sostenere? E’ chiaro che senza una risposta a questa domanda non possiamo dare alcun giudizio sull’efficacia delle scelte di un governo rispetto alla crescita. Altrimenti il dibattito è ridicolo. Per capire, fate finta che l’Italia sia una macchina che avete appena ritirato al meccanico. Se schiacciando l’acceleratore a tavoletta rasentate i trenta chilometri orari, vi sentite di dire che la macchina è a posto? E soprattutto cosa vi sentireste di dire al meccanico che vi urla: “la macchina riparte!”. Eppure il “JOBS act” è stato schiacciare il pedale a tavoletta.
In un paese sano e pronto a ripartire, il JOBS act avrebbe dato una spinta incredibile alla crescita: magari una crescita diseguale e orientata all’estero, pensiamo noi, ma comunque crescita impetuosa. Come abbiamo spiegato in altri interventi, il JOBS act ha dato tre incentivi a chiunque voglia investire in Italia: tre anni di bonus da decontribuzione, un aumento di valore aziendale che è destinato a crescere fin quando tutta la forza lavoro dell’azienda sarà sostituita dalle coorti “a tutele crescenti”, la riduzione dell’incertezza di poter abbandonare l’investimento. Questi tre elementi dovrebbero aumentare il rendimento degli investimenti reali e quindi far ripartire la macchina come un dragster. La domanda è: perché l’Italia riparte come una macchina d’epoca? A questa domanda Renzi dovrebbe rispondere con un numero: quale tasso di crescita di lungo periodo considera una velocità di crociera per l’Italia?
Se dare una risposta deve essere un imperativo politico, la risposta può venire anche da uno storico, un economista o uno statistico. Forse l’Italia è davvero una macchina d’epoca, che possiamo lucidare e riparare, ma che ripartirà alla velocità di crociera di un’altra epoca e di un’altra età. La domanda viene da lontano, ed è forse troppo profonda per essere scandagliata con i soli strumenti della scienza. Esiste una teoria del ciclo vitale di un paese e della suo società, come quella che ipotizzava Corrado Gini, il decano degli statistici italiani, nel secolo scorso? E in questa visione organicistica, qual è l’età di questo oggetto “vintage” che chiamiamo Italia? E quale velocità di crociera può reggere? Certo, se così fosse, l’età passa per tutti, e l’intero mondo occidentale dovrebbe andare a una velocità simile a quella dell’Italia. Invece anche i compagni di sventura della grande crisi del 2011-2012 stanno ripartendo con una velocità di crociera di molte volte più alta di quella dell’Italia. La Spagna cresce a un tasso annualizzato del 3,1% e l’Irlanda al 6,2%. Quindi, pare che non sia vecchiaia, ma malattia.
Perché non si investe in Italia? Forse non ci sono idee, forse non c’è innovazione? Non lo sappiamo, ma certo lo stato del sistema universitario dovrebbe essere correlato con la capacità di un paese di produrre idee e innovazione. Le risorse introdotte nel sistema universitario italiano sono state destinate, per l’80% o più, a garantire passaggi di carriera dei ricercatori al riparo della competizione esterna all’ateneo (che, per ironia della sorte, si chiama in università articolo 18). Per i prossimi trenta anni, quindi, le nostre cattedre saranno occupate da questi vincitori di concorsi del tipo : “ti piace vincere facile”. Quindi, o l’innovazione verrà da fuori l’università, oppure è lecito aspettarsi che venga da quei sistemi in cui le cattedre si conquistano in una competizione aperta, cioè da ogni paese del mondo esclusa l’Italia.
Forse non si investe in Italia perché non ci sono investitori? Forse non c’è appetito per il rischio? Magari un appetito per il rischio in Italia non c’è mai stato. Noi siamo il paese del “salotto buono”, dove le azioni si pesano, e dove i prezzi non si calcolano, ma si stabiliscono con una stretta di mano in presenza degli avvocati. Oggi il “salotto buono” non c’è più, o conta molto meno, ed è un bene perché non ci dovrebbe essere più neppure un “parco buoi”: gli investitori che arrivano quando la festa è finita. Ma non è comparso un nuovo investitore e anche il mercato e le istituzioni disegnate da giovani avvocati, come Renzi e la Boschi, non sono pronti a ospitarlo. Guardate solo la decisione della corte di Cassazione di questi giorni sul falso in bilancio. Del falso in bilancio non devono far parte i numeri: la Cassazione ha deciso che i prezzi si possono fare ancora oggi con una stretta di mano, e addirittura senza la presenza di avvocati, visto che valutazioni e stime non corrette riportate in bilancio non hanno rilevanza penale. La Cassazione dice anche che in questo modo interpreta lo spirito del legislatore, che con un emendamento alla legge del bilancio ha legiferato in tal senso.
Forse non ci sono investimenti perché non c’è domanda? E forse la disuguaglianza di reddito ha un ruolo nel tenere al palo la domanda interna? Forse si, se le riforme, a partire dal Jobs Act, sono un trasferimento di rischi e di valore da cittadini e lavoratori ad aziende. L’effetto naturale è che cittadini e aziende mettono da parte risorse per fronteggiare questi rischi, e non riprendono a consumare. Sarebbe forse stato meglio rendere più equilibrato il Jobs Act retribuendo l’aumento dei rischi in carico al nuovo lavoratore “a tutele crescenti” con un aumento del salario? E si sarebbe potuto fare? Come vedremo sotto, forse si potrebbe ancora fare.
Forse gli investimenti non ripartono per la tassazione elevata? Senz’altro sì, ma con un debito pubblico delle dimensioni di quello italiano, ridurre la tassazione media a un livello accettabile richiede di ridurre la spesa pubblica ancora di più, in termini di PIL, per evitare che il Fondo Monetario Internazionale, ma anche ogni studente di economia, giudichi il nostro debito insostenibile. Ma cosa succederebbe alla domanda interna se si tagliassero, ad esempio, 5 punti di PIL della spesa pubblica? Pensate di risolvere il problema tagliando il debito con una raffica di privatizzazioni? La teoria economica vi dice che i soldi che incassate sono al massimo uguali (ma possono essere anche meno) degli introiti futuri che fanno parte del surplus primario. Volete ridurre il debito con una rinegoziazione? Sentite cosa ne pensa il signor Schaeuble, anche lui avvocato. In questo labirinto senza uscita, anche i renziani cominciano, come prima faceva la sinistra PD, a rimandare tutto alla lotta all’evasione e alla corruzione, come se la politica coincidesse con l’ordine pubblico.
Abbiamo parlato di investitori e bilanci e di aziende e lavoratori e promesso un confronto degli Stati Uniti. Sul fronte della lotta al falso in bilancio, dobbiamo ormai leggere i libri di storia, ed ha il nome di Sarbanes-Oxley, la legge che venne emanata dopo il caso Enron. I prezzi negli Stati Uniti non si fanno con una stretta di mano, perché se non si azzecca il prezzo giusto si rischia qualche decina di anni di galera, come è capitato all’amministratore di Worldcom. La questione del sostegno ai salari ci porta invece al dibattito di oggi nella campagna elettorale degli Stati Uniti, dove la Clinton propone uno scambio tra sgravi fiscali alle imprese e la compartecipazione dei salari agli utili dell’azienda. L’Economist della settimana scorsa cita diversi problemi tecnici di questa proposta, a cui in Italia si aggiungerebbe il fatto che gli utili sono determinati su prezzi fatti con strette di mano. Non sappiamo se Renzi faccia sul serio nella sua proposta di taglio delle tasse, ma forse potrebbe considerare questo schema di scambio per gettare un occhio anche ai salari. Potrebbe provare così a creare un po’ di domanda, visto che il Jobs Act non sembra creare nuova offerta.
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