Macroeconomia

Altro che esodati, quello che Elsa Fornero non ha fatto

2 Dicembre 2017

Sono qui per capire Elsa Fornero, non per lodarla. A questo ci ha pensato Francesco Cancellato, e Francesco è uomo d’onore. Qui finisce la citazione. Francesco è uomo d’onore davvero, ma il peana in onore di Elsa Fornero, e in particolare la difesa dei contenuti del suo intervento non ci può trovare concordi. E ancor meno si può essere d’accordo a trasformare questo attestato di onore (dovuto senz’altro alla persona, e alle altre persone di quella stagione, incluso Mario Monti) in una difesa incondizionata dell’economia applicata ai problemi di policy. Gli economisti che allora furono chiamati a salvare l’Italia hanno fornito la prova che l’economia politica non ha gli strumenti per intervenire in tempi di crisi. C’è un problema culturale. Purtroppo è mancato, e manca tuttora, nello strumentario degli economisti che hanno avuto il coraggio di accettare quel compito lo strumentario che sarebbe stato necessario: quello della misurazione e gestione del rischio.

Quando Mario Monti ha ricevuto il campanello da un gioviale Silvio Berlusconi e quando pochi giorni dopo Elsa Fornero non riuscì a trattenere le lacrime nella prima presentazione degli interventi del governo i problemi di fondo (i fondamentali) della finanza pubblica italiana non erano molto diversi da come sono oggi. A quanto ha detto ancora in questi giorni Cottarelli, un peso predominante era ed è rappresentato dalle spese del sistema pensionistico. Qualcuno di voi dirà che a quel tempo lo spread a 500 punti base poneva problemi di rifinanziamento del debito pubblico italiano. Vero, ma a fronte di questo le passività pubbliche per il salvataggio del sistema bancario che sarebbero emerse poi non erano all’ordine del giorno, né all’orizzonte.

In termini più espliciti, era chiaro allora come è chiaro oggi che mettere in sicurezza il sistema Italia. presupponeva la messa in sicurezza del sistema pensionistico. Più o meno come oggi mettere in sicurezza il sistema Europa presuppone la messa in sicurezza del sistema bancario. Il rischio pensionistico avrebbe dovuto essere prima misurato e poi gestito, nella prospettiva di salvaguardare i conti di tutta l’impresa, che è l’INPS ma è anche la Repubblica Italiana.

Per quanto riguarda la misurazione, a chi si occupa di rischi finanziari è chiarissimo che il ragionamento in base al quale i conti del nostro sistema pensionistico sarebbero in equilibrio e sostenibili è approssimativo e dilettantesco. Se l’INPS è un’impresa, il risk manager di quell’impresa valuterebbe la sostenibilità non sulla base di “valori attesi”, cioè di valori medi degli scenari futuri, ma sulla base delle perdite da fronteggiare in caso di scenari estremi. Queste misure sono strumenti standard per i risk manager, ma gli economisti (o almeno quegli economisti) non li conoscono: Value-at-Risk, Expected Shortfall. Al di là del latinorum del risk management finanziario, qualcuno ci sa dire in uno scenario con il 5% di probabilità quanto saranno le perdite dell’INPS nei prossimi dieci anni, o nei prossimi venti? Se parliamo di Elsa Fornero, si è posta il problema quando ha deciso di accettare l’incarico? Se non le è venuta nemmeno in mente la domanda, allora non aveva gli strumenti per affrontare il problema del risanamento dell’INPS.

Veniamo ora alla gestione del rischio. Assumiamo di aver fatto i conti e che in uno scenario con una probabilità del 5% l’INPS possa perdere complessivamente 50 miliardi nei prossimi 10 anni. Se l’INPS fosse un intermediario finanziario dovrebbe mettere da parte un capitale di 50 miliardi per questa eventualità. Allora il sistema pensionistico sarebbe sostenibile. Ma l’INPS questo capitale di riserva non ce l’ha, e allora chi assorbirà quelle perdite? È argomento da giuristi se l’INPS possa fallire anche a prescindere dal default della Repubblica Italiana. Per Tito Boeri, l’attuale presidente dell’INPS, i conti dell’INPS sono comunque garantiti dalla finanza pubblica. E anche i mercati sembrano pensarla così, ma la differenza è che loro conoscono le misure di rischio, e se calcolano questi 50 miliardi di perdite li trasferiscono nello spread dei nostri titoli pubblici, che non è un’arma di complotto (come ritiene un altro che si pregia del titolo di economista, come Brunetta), ma è la retribuzione per il rischio di insolvenza che richiedono sui BTP.

La probabilità di insolvenza della Repubblica Italiana entro dieci anni stimata ancora oggi dai prezzi di mercato è intorno al 30%. E allora cosa avrebbe dovuto fare il governo Monti, e nello specifico Elsa Fornero? Se c’era e c’è ancora, un nodo gordiano che lega insieme sostenibilità del sistema pensionistico e quello dei conti pubblici italiani, il primo compito avrebbe dovuto essere quello di spezzare questo nodo. Per separare il rischio di insolvenza della finanza pubblica da quello del sistema pensionistico il governo Monti avrebbe potuto fare due interventi. Il primo è immettere nell’INPS di un capitale e stabilire per legge che questo intervento avrebbe poi escluso ogni ulteriore intervento di salvataggio dell’INPS. Il secondo, equivalente, è porre per legge un limite alla sua garanzia nei confronti dell’INPS.

Mario Monti oggi ci dice, e ha ragione, che ai tempi del suo governo non era all’ordine del giorno, e sarebbe stato oltre modo impopolare, immettere capitale nelle banche (cosa che oggi Renzi gli rimprovera ogni giorno). Avrebbe però potuto immettere capitale nell’INPS, purché questo separasse il futuro del sistema pensionistico da quello della finanza pubblica. Si sarebbe allora posto il tema, che ancora aspetta di essere sollevato, di definire le regole di ingaggio in presenza di un default del sistema pensionistico. Chi paga? E quanto? Le pensioni pagano tutte nella stessa percentuale o deve perdere di più chi guadagna di più? E’ la questione dei diritti acquisiti, che, come abbiamo scritto più volte da queste colonne, può essere solo risolta definendo le regole del default dell’INPS. Si è fatto per gli enti locali, lo si sarebbe potuto fare anche per l’INPS.

Di tutto questo Elsa Fornero, e il governo Monti, non ha fatto nulla. Non ha capito che avrebbe dovuto agire da curatore di un fallimento in atto, e non da ingegnere finanziario di un intermediario o di un fondo pensione. Come economista avrebbe dovuto valutare le prospettive di un default dell’INPS sull’economia e definirne le regole di ingaggio, invece che mettere in campo regolette attuariali che oggi ogni risk manager finanziario considera elementari. Questo avrebbe dovuto fare tutto il governo Monti: definire il perimetro della spesa pubblica sostenibile e scindere il legame con fonti di spesa al di fuori del perimetro. E poi sarebbe stato necessario un intervento legislativo per mettere al riparo queste scelte dalle decisioni della Consulta (che poi ricordiamo sono intervenute sul taglio dell’indicizzazione per le pensioni oltre un certo limite). È vero che se avessero fatto questo si sarebbero sostituiti alla politica, ma avrebbero risolto il problema. Il problema, per debolezza della politica, dell’economia e del diritto, è aperto ancora oggi e ha portato alle lotte di Tito Boeri, che secondo le ultime indiscrezioni, verrà finito a colpi di emendamento nella prossima legge di Bilancio, per mano del PD.

Per questo se viene riconosciuto a Elsa Fornero l’onore di ritenere su di sé la responsabilità del suo intervento, dovrebbe essere riconosciuta all’economia (e non alla persona) la superbia e la pretesa di autosufficienza con cui è intervenuta nella crisi, e con la quale continua a intervenire ispirando le iniziative della Troika e delle istituzioni internazionali designate ad intervenire per il risanamento (o la fine) dei paesi in difficoltà. E apprezzerete almeno che non ho neppure citato la questione degli esodati.

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