Macroeconomia
«Bene il Pil 2016 all’1% ma non ci sarà accelerazione sull’anno in corso»
Seppur a rilento, l’economia italiana cresce. Nel 2016 il PIL è salito dello 0,9 per cento, ha detto oggi l’Istat. Il dato corretto per gli effetti di calendario – visto che nel 2016 ci sono state due giornate lavorative in meno rispetto al 2015 – porta a un incremento dell’1 per cento. Il risultato è leggermente superiore alle stime del Governo italiano, che prevedeva un +0,8%, dopo lo 0,7% del 2015. Possiamo, perciò, essere soddisfatti e sperare bene per il 2017? Ne abbiamo parlato con Gregorio De Felice, capo economista del Gruppo Intesa Sanpaolo.
È un buon dato quello appena diffuso dall’Istat?
L’incremento registrato nel 2016 fa sperare per quanto riguarda il 2017, anche se non ci attendiamo un’accelerazione della crescita. Ci aspettiamo piuttosto la conferma di avere un andamento simile a quello del 2016 con una crescita del PIL italiano esattamente in linea con quella appena resa nota dell’1%, corretto per effetto di calendario. Sarà però diversa la composizione delle fonti di crescita: maggior contributo dalle esportazioni nette, dinamica meno vivace per i consumi delle famiglie, ripresa degli investimenti.
Quali rischi vede per l’anno in corso?
Le incognite sono tantissime, ma sono più di natura politica che economica. I grandi rischi economici che si vedevano lo scorso anno, come recessione degli Stati Uniti e rischio di deflazione, sono obiettivamente spariti. Gli Stati Uniti crescono e accelereranno grazie anche alla politica espansiva fiscale di Trump. Nessuno parla più di un rischio di dinamica di inflazione negativa anche grazie al rimbalzo del prezzo delle materie prime. I rischi politici sono però molteplici e legati, per esempio, alla politica estera americana, all’atteggiamento nei confronti dell’Iran, della Cina, all’aggressività nei confronti dell’Europa, al tema di Israele… Le incertezze sono molte. Poi, in Europa c’è l’avanzata dei movimenti anti-establishment, e in modo particolare le elezioni francesi che catalizzeranno l’attenzione dei mercati per quest’anno.
Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo
È di pochi giorni fa la notizia del dato positivo sulla produzione industriale italiana, cresciuta dell’1,6% su base annua accelerando al 6,6% nel mese di dicembre. Cos’ha favorito il recupero dell’attività produttiva?
È un dato molto buono, e che, a differenza di quello di novembre, non è favorito unicamente dalla crescita dell’energia ma dalla dinamica degli ordini con l’estero che stanno recuperando. L’incremento di produzione è stato generato principalmente dalla capacità delle nostre imprese di vendere di più all’estero: è un dato che stiamo osservando da qualche mese e che mostra che l’Italia sta addirittura guadagnando qualcosa in termini di quote di mercato. Le nostre esportazioni verso l’estero sono state più dinamiche rispetto alla crescita del commercio internazionale. Quindi mentre spesso ci piangiamo addosso, dobbiamo invece notare che in questa fase non particolarmente vivace noi stiamo recuperando quote di mercato e migliorando la nostra presenza sui mercati internazionali. Questo effetto si è pertanto visto sull’incremento della produzione.
Quanto di questo scatto verrà consolidato nell’andamento dei prossimi mesi?
Il fatto di terminare un anno con un andamento in crescita implica statisticamente un aspetto di trascinamento sull’anno in corso. Una buona chiusura per il 2016 rappresenta una piccola ipoteca positiva per l’andamento del 2017.
Trump e Brexit: che effetti teme sulle nostre esportazioni?
C’è da capire fino a che punto può concretamente arrivare il tema dell’America First di Trump, cioè se si tradurrà in effettivo protezionismo oppure no. I rischi comunque ci sono. L’Italia esporta il 15% delle proprie esportazioni totali nei confronti degli Stati Uniti, quindi avere un rallentamento della domanda americana legato a politiche tariffarie non sarebbe una buona cosa. Sull’altro piatto della bilancia c’è il fatto che la crescita americana tenderà ad accelerare quest’anno rispetto all’anno scorso, con una previsione che supera il 2,2% di crescita del PIL, e questo può compensare eventuali misure protezionistiche.
Quindi, non vede problemi per il nostro export verso gli Stati Uniti?
Il tema del commercio internazionale degli Stati Uniti con l’Europa è che le decisioni non sono su base bilaterale, cioè tra Italia e Stati Uniti, ma tra Unione Europea e Stati Uniti. Progressi sui trattati commerciali non ne vedo, e questo è un elemento negativo. Quello positivo è una politica di infrastrutture forte negli Usa dove aziende italiane potranno in qualche intervenire. Siamo legati agli Stati Uniti anche dal settore dell’automobile: un altro elemento di vantaggio. Certamente però le politiche di Trump restano un elemento di rischio.
E la Brexit?
Diverso è il discorso legato alla Brexit. Il Regno Unito rappresenta il 6% delle nostre esportazioni totali, quindi una quota più piccola, il negoziato tra Europa e Regno Unito è tutto da avviare, e prima di due anni di sicuro non ne verremo a capo, quindi, al di là di un effetto negativo legato alla svalutazione della sterlina che può pesare per circa un miliardo di euro di minori esportazioni italiane, per il momento effetti più grossi non dovrebbero essercene.
La manovra correttiva che il Governo ci riporta in una situazione di austerità?
No, l’importo è veramente minimo. Si parla dello 0,2% del PIL, dove sembra che il Governo stia individuando una manovra in parte sulla spesa in parte con qualche ritocco di accise. L’impatto restrittivo potrebbe essere di un miliardo, un miliardo e mezzo, in sostanza lo 0,1% del PIL. Poi tra quello che si annuncia e quello che vedremo tra un anno vi sarà sicuramente una piccola differenza. Il tema con l’Europa non è tanto quello legato allo 0,1 o 0,2 del PIL ma il fatto che abbiamo un sistema legato al Fiscal Compact che non permette ai Paesi membri di attuare politiche fiscali fortemente anti cicliche. Questo per un paese ad alto debito come l’Italia è un limite. Mentre oggi vediamo Trump, in un’economia con meno del 5% di disoccupazione e già un 2% di inflazione, annunciare politiche fiscali anti cicliche proprio per far crescere ancora di più l’economia americana. Vedremo se poi ci riesce.
Che risposta darà l’Europa?
L’Unione Europea lavora con la politica monetaria, quella fiscale va usata per rafforzare la crescita potenziale e la domanda interna, noi ci rinunciamo quasi a priori. Vi sono dei margini di flessibilità ma insufficienti. Adesso la crescita c’è, anche se non molto elevata. In Italia è inferiore alla media dell’area dell’euro, ma quando siamo stati in recessione abbiamo fatto politiche fiscali fortemente anti restrittive, non per capriccio o sadismo, ma perché quelle erano le regole e perché dovevamo contrastare le pressioni dei mercati sul debito pubblico italiano.
Come sta andando la produttività nel nostro Paese?
La produttività è uno dei tasti dolenti della nostra economia, perché se avessimo un andamento della produttività simile a quello tedesco potremmo avere un potenziale di crescita di almeno 0,6/0,7 punti di PIL più alti, quindi è chiaro che su quello si gioca la differenza sul futuro dell’economia italiana. È anche bene chiarire che la bassa produttività italiana non significa minor voglia di lavorare. Più lavoriamo e più la abbassiamo, paradossalmente.
Allora da cosa dipende?
La bassa produttività del Paese dipende da una serie di fattori quali la burocrazia, un quadro normativo complicato, tempi di autorizzazioni lunghi, un sistema giudiziario lentissimo, una pubblica amministrazione poco efficiente… Tutto questo fa sì che a parità di ora lavorata il nostro lavoro è meno produttivo e crea meno PIL. Per fare un esempio, se per risolvere una vertenza giudiziaria, occorrono sette anni invece che due, l’intero sistema ne risente. E poi c’è un tema di attribuzione delle responsabilità: spesso nel nostro Paese non sono ben identificate.
Lei ha più volte sottolineato l’insufficienza degli investimenti.
Gli imprenditori italiani sono cauti sugli investimenti, anche se dai dati interni di Intesa Sanpaolo stiamo osservando un miglioramento in gennaio legato agli incentivi di Industria 4.0. Sono cauti comunque per tutte le ragioni di cui abbiamo parlato fino a questo momento, cioè l’incertezza economica e la burocrazia che spingono gli investitori ad investire all’estero e meno nel nostro territorio. In prospettiva futura, è un vero peccato.
Si aspetta una ripresa dei tassi con la fine del quantitative easing della Bce?
Se parliamo di tassi a breve io mi aspetto un primo rialzo nel secondo semestre del 2018. Draghi è stato chiaro dicendo che anche dopo la fine del quantitative easing prevista per la fine del 2017 i tassi non saranno rialzati immediatamente. Ciò che invece stiamo vedendo e vedremo ancora è un irripidimento della curva dei tassi con la parte lunga della curva in rialzo. Questa non è una buona notizia per il debito pubblico italiano. Teniamo presente però che la scadenza media del debito si è allungata, quindi l’impatto di un rialzo del decennale non è così immediato nel tempo. Allo stesso momento c’è una maggior crescita del PIL e una maggiore inflazione.
Il debito pubblico resterà sostenibile?
Con un PIL che cresce in termini reali dell’1% e un’inflazione che tenderà ad avvicinarsi al 2% avremo un PIL nominale al 3%, quindi un costo medio del debito al 4% assolutamente sopportabile e che garantisce la sostenibilità. Oggi il costo medio del debito è su valori inferiori, quindi abbiamo ancora alcuni anni di spazio. È però essenziale mantenere o migliorare l’attuale velocità di crociera del sistema economico italiano cercando di portare la crescita del PIL su valori più alti. L’alternativa, pericolosa anche socialmente, è quella di avere un avanzo primario sempre elevato che vuol dire attuare una politica fiscale restrittiva.
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