Macroeconomia

Niente plebiscito: il catalanismo vince ma non sfonda

22 Dicembre 2017

I catalani hanno votato, e in massa. Mai le elezioni regionali in Catalogna avevano visto una così alta partecipazione, per giunta in un giorno feriale. Insomma, nessun boicottaggio del voto, convocato dal premier spagnolo Mariano Rajoy dopo l’applicazione del famigerato articolo 155 della Costituzione spagnola. Ma è la dura legge dell’eterogenesi dei fini: il voto, che doveva infliggere un duro colpo all’indipendentismo catalanista, si è trasformato in un violentissimo schiaffo al Partido Popular. Che, con appena 184mila voti e 3 seggi, è oggi la più piccola forza politica del parlamento catalano.

Primo partito risulta essere la forza di centrodestra Ciudadanos, guidata dalla candidata trentaseienne Inés Arrimadas (di origini andaluse). Oltre un milione di voti, che hanno incoronato lei e il leader del partito Albert Rivera come i vincitori morali delle elezioni. Ma gli indipendentisti hanno di nuovo ottenuto la maggioranza assoluta del Parlament, perdendo soltanto due seggi rispetto alle elezioni del 2015. Insomma, il catalanismo arretra (poco), però continua a vincere.

La vittoria catalanista è in parte anche merito di una legge elettorale che favorisce le province più rurali (tradizionalmente catalaniste) rispetto a quelle urbane. Un esempio su tutti: alla provincia di Barcellona, dove vivono 5,5 milioni di catalani (su 7,5 milioni) corrispondono 85 seggi, e a quella di Lérida, con 430mila abitanti, ne corrispondono 15.

34 seggi sono andati a Junts per Catalunya, il partito di Carles Puigdemont, l’ex presidente catalano rifugiatosi a Bruxelles per sfuggire alla giustizia. «La repubblica catalana ha sconfitto la monarchia del 155», ha tuonato ieri sera da Bruxelles. Altrettanto duro Albert Rivera: «Abbiamo sconfitto i separatisti alle urne, e ora difenderemo un progetto di uguaglianza per tutta la Spagna».

Le prime pagine dei maggiori quotidiani di Spagna (e Catalogna), insistono sullo stesso concetto: “La vittoria di Ciudadanos non sventa la maggioranza separatista”, si legge sul quotidiano progressista El País; “Ciudadanos vince ma la maggioranza indipendentista si rinnova”, dichiara La Vanguardia, una delle più autorevoli testate catalane.

«Sono molto delusa – dice Silvia, originaria di Cadice, Andalusia, ma residente in Italia da 20 anni –. Gli indipendentisti hanno di nuovo la maggioranza e hanno già dimostrato di non rispettare l’opposizione e di essere poco tolleranti. Se ne andranno altre aziende, gli studenti Erasmus non vorranno più studiare a Barcellona e il turismo calerà ancora di più. Chi ci perde davvero sono i catalani. Tutti».

«C’è molto sconcerto tra la gente, – dichiara a Gli Stati Generali Manel, imprenditore di Barcellona – il risultato è quasi uguale a quello del 2015. In generale questo voto dimostra che la Catalogna è spaccata in due, però io penso che sia un problema dei politici più che della società. Se i politici del governo centrale e di quello catalano si sedessero a parlare, pensando al bene della gente invece che al loro, credo che si troverebbe una soluzione. Speriamo che ora lo facciano».

Certo, l’incertezza rimane. In primis perché uno dei più probabili candidati a diventare president de la Generalitat è di nuovo lo stesso Carles Puigdemont. Che però non può governare da Bruxelles, né tornare in territorio spagnolo senza rischiare di essere arrestato, essendo accusato di vari reati. Sarà complicato esprimere un president dopo questo voto.

Ancora non si sa quali siano le intenzioni del blocco indipendentista. Secondo alcuni, non ci sono i presupposti per riprendere il cammino unilaterale verso l’indipendenza. I due partiti nazionalisti più votati, Junts per Catalunya ed Esquerra Republicana devono decidere che fare, si legge sull’editoriale di El País. “Perché l’indipendenza, intesa come progetto di rottura unilaterale, ha fallito e fallirà ancora, dato che lo Stato ha dimostrato che può impedirla, che l’Europa la rifiuta, e che l’economia catalana ne soffre”, continua.

È la prima volta che una forza politica non catalanista vince delle elezioni regionali, osserva invece La Vanguardia nel suo editoriale. Sottolineando che quello di ieri non è stato un plebiscito per gli indipendentisti: “l’indipendentismo non deve sbagliare ancora nell’interpretare i risultati. Due anni fa, con il 47,8% dei voti, disse che c’era stato un plebiscito e di aver ricevuto un mandato popolare per l’indipendenza. Adesso i loro voti non sono aumentati, e tale mandato è ancora meno consistente”.

«Si apre uno scenario inedito – nota Giulio Sapelli, docente di storia dell’economia all’università La Statale di Milano –, anche dopo il voto del 2015 in realtà non c’era nessuna guida che spiegasse che percorso seguire per la secessione. Bisognerà vedere fino a che punto gli indipendentisti vogliono spingere la loro posizione».

E se la nuova maggioranza indipendentista, sommata a una débâcle di proporzioni storiche per il PP,è una bella gatta da pelare per Mariano Rajoy, neanche l’Europa può tirare un sospiro di sollievo. Seppur più deboli, i venti separatisti continuano a soffiare. Dalla Francia alla Scandinavia, dal Belgio al Regno Unito, persino in Germania e Polonia (senza dimenticare le vicende nostrane, naturalmente).

«Le posizioni anti-europeiste potrebbero essere rafforzate da questo risultato – continua Sapelli. – Ma intanto le conseguenze ricadono tutte sul popolo catalano, che si è irrimediabilmente diviso e spaccato in due. Tuttavia non credo ci siano rischi per la tenuta dello Stato spagnolo. Gli indipendentisti non hanno una teoria politica né una visione che vada al di là del momento e del ribellismo. Credo che queste loro pulsioni separatiste saranno presto riassorbite e dimenticate».

In fondo la posta in gioco è molto alta, fa notare Ferran Brunet Cid, docente di economia europea all’Università Autónoma di Barcellona. «La gente lo sa che qui sono in ballo los garbanzos [gli schei alla spagnola]. Con i separatisti al governo l’economia continuerebbe a peggiorare. E tutto sommato, gli indipendentisti non hanno avuto quell’appoggio di massa che tanto vantavano, neanche dopo l’applicazione del 155. Nemmeno dopo che molti dei loro leader sono finiti in galera».

Per ora quel che è certo è che chi ha voglia di fare un viaggio a Barcellona può farlo a prezzi di saldo. Raramente le tariffe delle camere d’albergo, anche nei quattro stelle in pieno centro, sono state così bassi. «Ci dicono di rassicurare gli ospiti imputando il ribasso alla bassa stagione – dice a bassa voce Josep, receptionist di un grande hotel nei pressi di Piazza Catalunya –, in realtà ci eravamo ripresi dopo gli attentati di agosto, ma dal referendum del 1° ottobre abbiamo perso parecchio flusso turistico. La gente ha paura di venire e di ritrovarsi in mezzo a manifestazioni o sollevamenti popolari».

Certo, ai cittadini di centri urbani periferici come Lérida, da sempre esclusi dalle rotte turistiche, che i vacanzieri vogliano o meno continuare a riversarsi sulla Rambla di Barcellona poco importa. Non a caso sia la provincia di Barcellona che quella di Tarragona si sono schierate, seppur con misura, a favore dei partiti unionisti. A puntare sull’indipendenza sono le province di Girona e Lérida: realtà più conservatrici, tradizionaliste e chiuse, che negli anni hanno assistito con crescente insofferenza al protagonismo di Barcellona e alle profonde trasformazioni sociali e culturali della Catalogna. Queste elezioni sono state l’ennesima occasione per esprimere la propria voce.

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