Macroeconomia

Ma il default è del debito o dello Stato?

30 Ottobre 2014

La politica è da sempre un pessimo debitore perché non vuole mai pagare né i debiti che eredita né  quelli che accende e rinnova. Lo sono ancor meno gli elettori che hanno goduto del debito in modo diseguale e che per conseguenza non si sentono responsabili delle malefatte o dei privilegi altrui.  Giuliano Amato si presentò una sera a cena e dal televisore nelle nostre cucine ci comunicò che eravamo sull’orlo del baratro: essendo uno dei pessimi debitori ne era ben consapevole. Il giorno dopo, sommessamente, si cominciò a parlare di una operazione straordinaria di consolidamento da 300.000 mld di vecchie lire e, meno sommessamente, di una patrimoniale di analoghi zeri. Non se ne fece nulla e fu una occasione persa perché gli importi erano ancora abbordabili, il paese più ricco con una non irrilevante economia sommersa e la svalutazione della Lira ricreò, per breve tempo, le condizione di produzione della ricchezza. Negli anni successivi la filosofia guida dei governi fu la “manutenzione” dello stock di debito, nella convinzione che nessuno mai sarebbe stato chiamato a pagarlo. Quando durante le estenuanti riunioni sul nulla in sala verde di palazzo Chigi qualcuno accennava al fatto che prima o poi il ghiacciaio si sarebbe sciolto e sarebbe venuta giù la valanga, che fossero di Prodi, di Visco, di Berlusconi o di Tremonti gli sguardi di sufficienza e compatimento nei confronti dell’incauto iettatore si sprecavano e si procedeva alla spartizione di inesistenti tesoretti, alla moltiplicazione degli avanzi primari, alla manovra di correzione dei conti pubblici mai in costanza di gettito fiscale. E, ove i conti non tornassero, la magica voce attiva “recupero da evasione fiscale” faceva il totale della somma del principe de Curtis. La realtà era che fior di economisti producevano “pezze giustificative” teoriche alle pratiche di governo e l’Euro, al quale il sistema produttivo si adattò rapidamente ma con qualche spargimento di sangue, permise alla politica di non vedere una dead end con la quale fare i conti. Poi arrivò il 2008 e la decennale, lentissima riduzione di dieci punti del rapporto debito /pil fu travolta dalla valanga del di cui sopra iettatore, la domanda di beni e servizi crollò, l’economia sommersa non fu più un asset significativo e il valore della casa degli italiani, cioè  la loro principale linea capitale, prese una terrificante botta con prognosi pluriennale, salvo complicazioni.

Immaginare oggi un autoctono default del debito anche solo guidato, senza cessione di sovranità nazionale e senza intervento della BCE è materia di discussione su carne vivissima  e non credo realistica: la UE non e’ dissolta, la politica esiste ancora e da Novembre col passaggio della sorveglianza bancaria alla BCE perdiamo un altro pezzo di sovranità nazionale. Si dice che non se ne può parlare perché se no i mercati si impauriscono: come se i mercati fossero scemi e non ne parlassero. In realtà gli unici a non parlarne sono proprio i cittadini italiani perché think tank internazionali, società di consulenza, operatori dietro le tastiere ne parlano al punto da produrre studi che sono (per loro) occasione di business. Quindi parliamone. Non voglio qui declinare le modalità tecniche, essendo materia da raffinati feticisti finanziari. Voglio però mettere le condizioni necessarie sufficienti per evitare di finire cornuti e mazziati, perché non siamo più nel ’93 e il grasso gli italiani se lo sono già giocato.

La prima condizione è l’impegno a rimanere nell’euro:  professori con residenze fiscali dollarovestite si stanno attovagliando a parlar di monete di serie A e di serie B vendendo i propri libri a chi nell’euro ha sempre visto il nemico. Prosaicamente, io ho tre figli che la Lira dell’Antico Regime non sanno nemmeno cosa sia; se ne vanno in giro per l’Europa e quando finiscono in qualche paese dove bisogna cambiare valuta e quella che ti danno in cambio dell’Euro non ha Washington col compasso stampato sopra, si chiedono che roba sia e se da Mc Donald la accettano. Abbiamo fatto sforzi tremendi per rimanere attaccati alle Alpi per offrire un futuro ai nostri figli, non possiamo riscivolare nel Mediterraneo e nemmeno fare le vacanze di lavoro in una economia Club Med.

La seconda condizione è che il Governo mi spieghi prima cosa fa sul conto economico, perché io posso anche prendere una botta sul capitale tra case e investimenti finanziari (gli investitori esteri entrano ed escono dal mercato dei titoli, chi ci rimane siamo noi) ma non posso pensare il giorno dopo di ritrovarmi con la stessa pressione fiscale e nessuna chance di ricominciare a produrre ricchezza e metterla da parte perché il gioco non varrebbe la candela. E non basta neanche che mi dica che si procede con tagli automatici agli enti locali perché sappiamo che essi o spostano il livello della tassazione da centrale a territoriale o si tramutano in riduzione di prestazioni. E non voglio nemmeno trovarmi, come questi giorni, a dividere pane raffermo cercando di capire se è meglio darne un boccone in più a chi ha fame o rifocillare chi potrebbe avere la forza per correre per il mondo e creare un po’ di ricchezza.

Insomma, se uno Stato mette in discussione la propria affidabilità come debitore e si rivale sui suoi azionisti (che sia un consolidamento, una patrimoniale o la cessione di beni comuni poco cambia) allora è necessario di quello Stato ridiscutere tutto, perché è lo Stato e non il debito ad andare in default: è con i suoi cittadini prima ancora che con i mercati che deve fare i conti. Non è  materia da feticismo finanziario ma realmente da Stati Generali perché, citando Renan che non mi è mai piaciuto, una nazione è un referendum quotidiano: prima i soldati, le salmerie arriveranno.

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