Macroeconomia
L’euro debole ha aiutato due volte i tedeschi, lo yuan svalutato colpirà tutti
Ancora oggi i mercati continuano a guardare con ansia alla svalutazione dello yuan, come ai continui interventi della Banca centrale cinese a sostegno della liquidità del sistema bancario locali (19 miliardi di dollari oggi con operazioni pronti contro termine, dopo i quasi 17 miliardi dell’altro ieri). La Borsa di Shanghai ha di nuovo chiuso in rosso (-3,4%), Hong Kong ha perso l’1,8%, Shenzhen il 2,9 per cento. Meno accentuate, ma sempre in rosso, anche le variazioni in corso di giornata delle principali piazze europee.
Mentre ci si interroga sul rallentamento economico del Dragone e sull’efficacia delle misure di stimolo messe in atto dalle autorità cinesi, e sugli impatti che tutto questo avrà su una ripresa trainata dall’export, abbiamo chiesto a Marcello Minenna, docente di finanza matematica all’Università Bocconi di Milano, di fare un punto sulla “guerra valutaria” in corso, fin qui caratterizzata dalla debolezza dell’euro, prima del colpo di scena arrivato da Pechino. Dati alla mano viene fuori un quadro che vede la Germania come la grande beneficiaria dell’euro debole. Berlino ha registrato una forte crescita del suo export verso i Paesi extra-europei: «Il saldo della nostra bilancia commerciale è migliorato un poco grazie al QE europeo, il saldo tedesco invece è passato da appena 2 miliardi in positivo del 2012 ad oltre 11 miliardi nel 2014». Un aumento del 400 per cento. Ma anche sul fronte intra-europeo le cose non sono andate diversamente, osserva l’esperto: «I cenni di vitalità dei Paesi del Sud Europa si sono immediatamente tradotti in un aumento delle dalla Germania: +13% tra il 2012 ed il 2014 in Spagna, ma anche +8% in Grecia».
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Prof. Minenna, nel secondo trimestre la flebile ripresa italiana zoppica intorno allo 0,2% nell’ultimo trimestre, mentre la Germania traina l’Eurozona con un +0,4%. Ma ora è piombata sull’Eurozona la svalutazione dello yuan cinese.
Al momento la svalutazione è più di nome che di fatto, visto che il “salto” dello yuan rispetto a dollaro ed euro è stato di poco più del 3% e già oggi c’è stato un piccolo riallineamento verso l’alto. Ciò che cambia è che ufficialmente lo yuan non seguirà più il dollaro attraverso un cambio prefissato. Un po’ come è successo con lo sganciamento del franco svizzero dall’euro, anche se in quel caso il salto è stato più significativo: oltre il 20%. Il fenomeno è lo stesso, anche se avviene per le opposte ragioni. In quel caso la banca centrale svizzera non era riuscita a seguire l’euro nel percorso di svalutazione progressiva connesso con il varo del Quantitative easing. In questo caso le autorità cinesi hanno ritenuto deleterio continuare ad agganciarsi al dollaro quando la moneta USA si è rivalutata rispetto a tutte le principali valute internazionali del 20% circa.
La motivazione ufficiale è che in questa maniera lo yuan può candidarsi ad essere parte del paniere di valute che compongono i “Diritti speciali di prelievo” presso l’FMI, in vista della revisione attesa entro settembre 2016, come peraltro è stato confermato ieri dallo stesso Fondo.
È un’ottima spiegazione, nella misura in cui non può essere smentita. Tuttavia io sono piuttosto scettico e tendo a dare più valore all’interpretazione dei dati. Ed i dati nudi e crudi ci dicono che a luglio l’export cinese era crollato dell’8,7% rispetto ad un anno prima, mentre la crescita è risultata al minimo degli ultimi 25 anni, appena sopra la fatidica soglia del 7%, sotto la quale l’economia cinese è come se fosse in recessione. Soltanto le esportazioni verso l’Eurozona sono scese del 3%, e la svalutazione dell’euro ha avuto su di esse un sicuro impatto. Il cambio fisso con un dollaro in fortissima ascesa era dunque insostenibile ed infatti è stato abbandonato, come quasi sempre capita con i cambi fissi, prima o poi.
A giugno 2015 la bilancia commerciale di tutta l’Eurozona ha mostrato un surplus record di 26 miliardi di euro, il massimo dalla nascita dall’area valutaria unica: faremo marcio indietro?
Io ci andrei molto cauto con i toni trionfalistici. Il quadro potrebbe ora cambiare assai in fretta. Questo perché la ripartenza produttiva dell’Europa è, come si dice in gergo tecnico, “export driven”, cioè guidata dall’aumento delle esportazioni, mentre la domanda interna, anche se da qualche sussulto di vitalità, resta debole. Quindi il Quantitative easing di Draghi, svalutando l’euro del 20% ed oltre rispetto a dollaro e yuan, ha funzionato nel fare ripartire l’export. Naturalmente con dei distinguo importanti.
Alcune nazioni hanno beneficiato dell’euro debole di più mentre altre.
Proprio così. Le differenze sono impressionanti. Guardiamo ad esempio Germania ed Italia ed il loro rapporto commerciale con USA e Cina. Il saldo della nostra bilancia commerciale con gli USA è positivo: esportiamo per 29 miliardi di euro ed importiamo per 12. La svalutazione dell’euro ci ha aiutato un po’ ed il trend di crescita è buono. Quest’anno dovremmo fare di meglio con una crescita di un buon 10 per cento. Anche i tedeschi se la cavano bene nei rapporti commerciali con gli USA. Il loro saldo commerciale è cresciuto in media del 6% all’anno nel biennio 2012-2014. I paragoni Italia – Germania però finiscono qui, visto che le esportazioni tedesche verso gli USA ammontano al valore impressionante di 96 miliardi di euro (le importazioni “solo” a 41 miliardi).
Come è andata invece con la Cina?
Il saldo della nostra bilancia commerciale con la Cina è negativo per 14 miliardi, anche se è migliorato un poco grazie al QE europeo. Il saldo tedesco invece è passato da appena 2 miliardi in positivo del 2012 ad oltre 11 miliardi nel 2014: in percentuale un “rispettabile” aumento del 400 per cento. Anche sui numeri assoluti siamo distanti: le esportazioni italiane valgono al più 10 miliardi mentre quelle tedesco sfiorano 80 miliardi. Quindi si può dire che la Germania ha colto in pieno le opportunità di un euro debole date dal QE per rafforzare la propria posizione in Oriente, l’Italia invece stenta. Per chi segue l’evoluzione della politica commerciale tedesca queste cifre non sono una novità: la Germania sta cercando di trovare nuovi mercati di sbocco extra-UE riducendo il peso relativo del mercato comunitario.
Ma questo “sguardo ad est” della Germania non contrasta con la storiella che si racconta di un Paese che ha sostenuto la propria economia grazie alle esportazioni verso il Sud Europa?
Al contrario, la rafforza. Non dimentichiamoci che fino al 2008 Italia, Spagna, Portogallo, Grecia ed Irlanda rappresentavano oltre la metà dei mercati di sbocco della Germania. Ora a stento arriveranno al 40%, ma credo assai meno. Il punto chiave è che la crisi del debito e le politiche di austerity (per noi, la “cura Monti”) hanno costretto i Paesi periferici a ridurre le proprie importazioni, e di molto. Il re-direzionamento dell’export tedesco verso i Paesi extra-UE è stato solo il passo logico successivo. In ogni caso gli squilibri all’interno dell’area euro rimangono. La Germania risulta sempre competitivamente avvantaggiata rispetto ai Paesi dell’Europa del Sud perché avere l’euro per l’economia tedesca è come utilizzare un cambio permanentemente sottovalutato. Non a caso appena le economie dei PIIGS hanno mostrato dei cenni di vitalità, le importazioni dalla Germania sono riprese a tutto spiano: +13% tra il 2012 ed il 2014 in Spagna, ma anche +8% in Grecia.
L’euro ci terrà al riparo dalle conseguenze negative della svalutazione cinese?
Temo che ci sia ben poco che la Bce possa fare, visto che il Quantitative easing già viaggia a piena velocità. Se lo yuan svaluta abbastanza, le importazioni cinesi a bassissimo costo travolgeranno quella parte di industria manifatturiera nazionale che lavora al margine, e che nell’ultimo anno era tornata a respirare. Ma anche la potente industria tedesca avrà poco di che gioire: non solo le esportazioni verso l’Oriente si ridurranno, ma se le economie dei Paesi periferici tornano a frenare si fermeranno anche quelle intra-europee. Anche l’economia tedesca potrebbe subire un doppio colpo molto duro. Una scossa pesante alla già fragile architettura dell’Eurozona.
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