America
La ‘Terza America’. Un deserto economico e sociale dimenticato da tutti
Il Bureau of Economic Analysis (BEA) ha rilasciato nei giorni scorsi le ultime statistiche sull’andamento dell’economia americana. Nel periodo preso in considerazione, il terzo trimestre del 2023, l’economia USA ha registrato un tasso di crescita del 4.9% rispetto allo stesso periodo del 2022. Si tratta di uno risultato straordinario, se consideriamo che stiamo parlando dell’economia più grande al mondo che già proviene da un lungo periodo di crescita sostenuta. È, inoltre, un tasso di crescita che sembra per ora non risentire del sostanziale aumento dei tassi d’interesse applicato dalla FED negli ultimi mesi, segnalandoci dunque un’economia particolarmente resiliente e sostenuta da consumi interni e da investimenti in inventario – dato quest’ultimo che potrebbe essere in parte motivato da tassi d’inflazione ancora superiori alla media. C’è un ulteriore dato che ci conferma lo stato di salute dell’economia USA, ossia il tasso di disoccupazione. Sempre con riferimento all’ultima nota pubblicata dal BEA, leggiamo che l’unemployment rate in USA si attesta ad Ottobre al 3.8%. Di fatto stiamo parlando di un tasso di disoccupazione pressoché inesistente.
L’economia col vento in poppa
Vista da quaggiù, l’economia americana gira dunque a gonfie vele. I dati aggregati ci raccontano di un paese che cresce e che riduce la disoccupazione, che aggiusta seppur con difficoltà i salari dei lavoratori delle vecchie company town come Detroit, e che guarda con ottimismo ai futuri sviluppi tecnologici e industriali grazie soprattutto a politiche industriali recenti come il CHIPS act fortemente voluto da Biden.
In molte contee della prima potenza economica al mondo, l’aspettativa di vita non arriva a 70 anni
Eppure, attraversando il deep south Americano dal South Carolina alla Louisiana – nella cosiddetta Bible o Cotton Belt – si è esposti miglia dopo miglia a livelli di povertà e di arretratezza che sfuggono alle statistiche economiche aggregate. Parliamo di livelli di povertà che difficilmente oggi si incontrerebbero nel meridione italiano, nel sud della Spagna o nella Grecia interna. Sono aree, come ci racconta l’Economist riprendendo dati elaborati dal National Center For Health Statistics, dove in alcune contee l’aspettativa media di vita non arriva a 70 anni perché l’accesso alle cure mediche è difficoltoso quando non proibitivo. Sono dinamiche economiche e sociali difficili da mettere a fuoco se non si scende nei meandri di questa povertà tanto radicata quanto dimenticata. È una povertà che porta con se le “morti da disperazione” (deaths of despair), citando il famoso lavoro del premio nobel dell’Economia del 2015 Angus Deaton, e che oggi fa i conti con l’epidemia delle overdose da Fentanyl. È, soprattutto, una povertà senza soluzione di continuità, che mette a nudo le contraddizioni della prima potenza economia al mondo, così impegnata a investire nel progresso tecnologico e nella produttività delle sue imprese da sembrare oggi distratta rispetto ai drammi economici e sociali vissuti da intere regioni sempre più dimenticate e abbandonate.
L’America dimenticata di Apocalipse Town
Oltre alla tensione tra ‘superstar city’ e città periferiche o second-tier, esiste infatti una ‘Terza America’ che sfugge in larga parte ai radar dei media e delle analisi economiche. È l’America dove nasce il risentimento politico contro la cosiddetta elite e dove prende corpo il voto di protesta populista e sovranista che abbiamo imparato a conoscere bene negli ultimi anni. È l’America dei perdenti, delle comunità afro-americane e dei latinos, dei food desert narratoci da Alessandro Coppola in Apocalypse Town qualche anno fa e delle chiese battiste ed episcopali che si alternano ai campi di cotone lungo le highways della Georgia e dell’Alabama.
Nessun fattore competitivo, tante chiese
È difficile oggi tentare di applicare anche i più elementari strumenti di analisi elaborati in Periferie Competitive in questi contesti. Dalla presenza di multinazionali alla collaborazione tra università e imprese, dalla finanza locale alla nuova imprenditoria. Non vi è alcuna traccia di questi fattori competitivi a Montgomery (Alabama), a Columbus (Georgia) o a Biloxi (Mississippi). Non solo solamente luoghi esclusi dal circuito dell’innovazione e del progresso tecnologico contemporaneo; sono luoghi dove si è perso il senso del futuro, dove il progresso tecnologico e la globalizzazione hanno portato con sé aumenti di produttività di cui qui nessuno ha beneficiato.
A chi vanno i benefici della globalizzazione?
Semmai, come descrivono magistralmente Acemoglu e Johnson in “Power and Progress”, sono questi i perdenti nella corsa contemporanea al progresso tecnologico. Da un lato, la globalizzazione e gli aumenti di produttività garantiti alle imprese industriali attraverso la delocalizzazione di attività manifatturiere che in questi luoghi per anni hanno trovato esecuzione; dall’altro, il progresso tecnologico con la sostituzione di funzioni labour-intensive a basso valore aggiunto con nuove soluzioni tecnologiche. L’incrocio di questi due grandi cambiamenti epocali ha portato con sé evidenti benefici economici aggregati, aumentando la produttività di un intero paese e la profittabilità delle sue imprese principali. Allo stesso tempo, tuttavia, troppo poco ci si è interrogati sull’effettiva redistribuzione dei guadagni economici derivanti dalla globalizzazione della produzione e dal progresso tecnologico.
Ed è proprio incrociando gli ultimi dati economici aggregati del BEA con le dinamiche socio-economiche toccate con mano nel Sud-Est Americano che ci si interroga sulla tenuta di un’economia cosi sbilanciata e miope. Quanto può essere sostenibile nel tempo un modello economico tanto polarizzato e diseguale?
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