America
La FED smonta il Quantitative Easing
Spesso i cambiamenti più incisivi passano sotto traccia: la decisione dalla Federal Reserve di cominciare la dismissione dei titoli acquistati dal 2009 con i vari Quantitative Easing 1,2 e 3 presa al meeting del 20 settembre scorso sembra uno di questi casi. Un provvedimento approvato in sordina, intriso di tecnicismi: la FED si limiterà infatti a “non reinvestire” mese per mese una piccola parte dei titoli detenuti nel proprio bilancio, che andranno in scadenza progressivamente. In questa maniera nel momento in cui il Tesoro e gli investitori privati dovranno rimborsare la FED, la liquidità introdotta nel sistema finanziario dalla banca centrale USA verrà ritirata gradualmente; il reinvestimento dei proventi ha garantito finora invece che la quantità di denaro in circolazione rimanesse costante.
Per ottobre, la FED lascerà scadere 6 miliardi di $ di titoli di Stato e 4 miliardi di temibili RMBS (i Residential Backed Mortgage Securities), cioè i titoli tossici subprime che provocarono la crisi internazionale del 2008, continuando per il resto la normale politica di reinvestimento. Se paragonati ai 4235 miliardi (2465 di Treasuries e 1770 di RMBS) immobilizzati nel bilancio della FED, si tratta proprio di un intervento minuscolo.
Infatti il mercato – per ora – ha ignorato l’avvio del processo di “smontaggio” (unwinding) del bilancio. Gli operatori hanno preferito concentrarsi sulla minaccia più concreta di un aumento dei tassi di interesse-chiave che dovrebbe avvenire a dicembre, proprio in un momento in cui l’inflazione USA continua “misteriosamente” a rallentare, ed il Presidente Yellen potrebbe non vedersi riconfermato il mandato da un Trump poco amante del dollaro forte e delle strette monetarie. Al momento le sue probabilità di riconferma sono in ribasso, almeno rispetto ad una nutrita lista di candidati alternativi meno rigidi sulla necessità di proseguire il ciclo di irrigidimento monetario (il c.d. monetary tightening).
Eppure, ben presto bisognerà fare i conti con la normalizzazione della politica monetaria FED: in meno di un anno l’unwinding prenderà abbrivio e dal mercato sparirà una domanda sicura e stabile di titoli per 600 miliardi l’anno (cfr. Figura 1). Ogni 3 mesi infatti la FED lascerà scadere sempre più titoli rastrellando la relativa liquidità dai mercati finanziari, fino ad arrivare – a regime – a circa 30 miliardi di Treasuries e 20 miliardi di RMBS al mese. Cioè 50 miliardi al mese che per 12 mesi producono la stima di 600 miliardi. Osservando il grafico, si deduce che se tutto va liscio, ci vorranno 7 anni per riportare il bilancio FED alla normalità pre-crisi.
Figura 1
Nel frattempo l’offerta di Treasuries è destinata ad aumentare e non di poco, soprattutto se Trump riuscirà a varare la sua controversa riduzione delle tasse, da finanziarsi ovviamente soprattutto attraverso la creazione di nuovo debito. Il deficit annuo, già a 440 miliardi (cfr. Figura 2), secondo le ultime stime potrebbe raddoppiare a 900.
Figura 2
In totale quindi ci sarebbero sul mercato obbligazionario 1.000 miliardi di debito USA in più ogni anno. Chi lo acquisterà? La risposta non è scontata. Il risparmio USA a livello aggregato è di nuovo in declino ad appena 355 miliardi (cfr. Figura 3), con le famiglie che hanno dimezzato gli accantonamenti, già a livelli storicamente molto bassi (appena 2% del PIL, in Italia siamo all’8,5%).
Figura 3
Resta la domanda estera, con Cina e Giappone che detengono già il 30% dei titoli USA (cfr. Figura 4). Difficile pensare che questi Paesi possano aumentare gli acquisti di Treasuries, non senza un generoso incentivo in termini di rendimento.
Figura 4
Insomma, i tassi di interesse USA nei prossimi mesi sono attesi in salita praticamente da tutti; le probabilità quotate dal mercato delle obbligazioni monetarie (i Fed funds) sono passate in pochi giorni dal 20% al 70% (cfr. Figura 5).
Figura 5
Sul “quantum” guarda con morbosa attenzione la BCE, alle prese con il passaggio delicatissimo del “tapering”, cioè dell’interruzione degli acquisti di titoli governativi. I segnali oggettivi in tal senso si moltiplicano: l’ultima settimana ha infatti visto il più basso ritmo di acquisti di titoli da parte della BCE dall’inizio del programma: 5,1 miliardi di € rispetto ad una media di 9 miliardi, mentre a settembre la deviazione dal criterio della capital key ha raggiunto nuovi massimi, con la percentuale di titoli italiani acquistati stabilmente superiore al 18% del totale. La BCE cioè sta rallentando il ritmo di acquisti e distorcendo le proporzioni in favore di titoli italiani e francesi perché ha serie difficoltà nel proseguire il programma così com’è, vista la scarsità di Bund tedeschi sul mercati. Si tratta dunque di un’attesa “tecnica” del meeting del 26 ottobre, dove pare oramai certo che il QE cambierà radicalmente faccia, riducendo drasticamente le sue dimensioni.
Infatti, affinché una banca centrale possa pensare di ridurre il proprio bilancio, deve innanzitutto provare ad arrestarne la crescita. La FED è passata attraverso quest’ordalia nel 2013: dopo l’annuncio di Ben Bernanke di una riduzione progressiva del ritmo di acquisto di Treasuries, un mercato in panico fece schizzare in su i tassi di interesse di oltre 120 punti base. Uno scenario assai temuto dalla BCE e dai Paesi ad alto debito, anche se secondo l’ultimo aggiornamento del DEF il nostro debito è “al sicuro” da simili shock sui tassi di interesse (anche oltre 200 punti base) per via della lunga vita residua (7,3 anni, cfr. Figura 6). Indubbiamente questo mitiga la sensitività a tassi di interesse in crescita, ma per prudenza, io allaccerei le cinture.
Figura 6
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