Macroeconomia

La cura per far crescere l’economia italiana e il coraggio di farlo. Che non c’è

13 Novembre 2018

Le polemiche da stadio con l’Europa cui continuiamo ad assistere, ricordano a noi e a questo governo l’imperativo della crescita come elemento imprescindibile per permettere all’Italia di riprendere un cammino economicamente e, conseguentemente, socialmente virtuoso.
Purtroppo, nessun governo nella mia memoria, né l’attuale né i precedenti di destra o di sinistra, ha infatti voluto affrontare di petto quei provvedimenti coraggiosi e necessari al paese, ma certamente non utili a generare facile consenso elettorale. Infatti, se non si promuovono la crescita dimensionale delle aziende italiane, gli investimenti in scuola, formazione ed innovazione e, l’accorciamento dei tempi della giustizia, risulta del tutto illusorio qualsiasi riferimento ad una reale e sostenibile crescita futura.  La cura, insomma, ci sarebbe. Manca il coraggio. L’Italia dovrebbe prima di tutto cancellare in modo rapido e definitivo il concetto di “piccolo è bello” che ha azzoppato questo paese negli ultimi trent’anni, ovvero da quando il mondo ed il commercio si sono, che piaccia o meno, globalizzati. Dai dati dei bilanci 2017, (fonte Aida) risulta che il 76% delle società di capitali italiane fattura meno di 5 milioni  e che solo lo 0.4% supera i 500 milioni, limite pache, nei paesi finanziariamente evoluti, segna il confine inferiore del segmento delle medie aziende.
Se passiamo alle aziende quotate – quelle che dovrebbero attirare l’attenzione degli investitori istituzionali (che alla fine sono quelli che decidono dove mettere i soldi “veri” che fanno la differenza in termini di crescita sostenibile) le società con fatturato superiore a 500 mm sono meno di un quarto (23.8%).  Questo nanismo endemico pare non abbia mai attirato l’attenzione di nessun governo temo, ahimè, perché spingere il paese verso un adeguamento del proprio tessuto economico a quelle che sono le regole globali, non avrebbe incontrato il favore di nessuna delle grandi constituency elettorali, a cominciare dalla classe imprenditoriale e, quindi, non avrebbe portato voti: molto più facili da catturare con gli 80€, con i condoni immobiliari passati o presenti, la flat tax per le partite IVA o con il reddito di cittadinanza.
La dimensione delle aziende, che presuppone inizialmente anche un efficientamento delle stesse – caso questo che certamente non troverebbe supporto nemmeno nei sindacati – aiuterebbe a generare lavoro in modo sostenibile nel medio termine e permetterebbe di passare da preda a cacciatore con la conseguente capacità di creare opportunità di investimenti, di ricerca, di innovazione ed a generare opportunità di lavoro ai giovani talenti che sono in grado di rispondere alle nuove esigenze delle aziende globali. Vorrei a questo proposito portare un esempio del perché solo le aziende di una certa dimensione possono ambire ad aiutare la crescita del PIL Italiano: la recente vendita di Magneti Marelli.

 

 

FCA che, non a caso, Marchionne ed il suo team hanno portato ben oltre la dimensione della FIAT – che ricordo stava per Fabbrica “ITALIANA” automobili “TORINO”, come se fabbricare auto fosse un business regionale, ha messo in vendita uno dei gioielli della sua galassia nonché della tecnologia italiana. Quando si è aperta l’asta, sono arrivati di corsa i principali fondi di Private Equity internazionali, direttamente o tramite le proprie controllate globali. E gli imprenditori italiani del settore dove sono? Le Brembo, le Fiamm, (nulla di personale ma sono solo i nomi che operano nel settore) e tutte le aziende nostrane che si occupano di componentistica e che da anni vengono magnificate come i campioni nazionali che fine hanno fatto? Semplicemente non hanno la dimensione, il capitale proprio o la profondità di management (pecche queste comuni nel capitalismo nostrano), per poter ambire ad un preda globale  il cui prezzo si è infatti assestato oltre il livello di 6 miliardi di Euro.
Eppure, per esperienza diretta, se ci fosse stato un investitore strategico italiano di dimensioni adeguate, tale soggetto (quale alla fine è il gruppo giapponese Calson Kansei, seppur controllato dal fondo KKR) sarebbe normalmente favorito nelle aste, in quanto meglio attrezzato a massimizzare il valore della target.  Analoghi esempi si potrebbero fare per altri settori di eccellenza italiani (moda, ingegneria, infrastrutture solo per fare qualche esempio) che soffrono di nanismo congenito nei confronti dei player globali. Altro tasto dolente della recente storia del nostro paese sono gli investimenti in scuola ed innovazione. Se da un lato va riconosciuto ai governi Renzi/Gentiloni di aver provato a spingere il concetto dell’innovazione con il piano Industry 4.0 di Calenda, l’investimento in R&D delle aziende italiane – nella loro media – è miserrimo rispetto ai pari di altri paesi. Nel programma economico del governo gialloverde la cosa è pressoché dimenticata come segnalano gli avversari politici (comprensibile) ma anche alcuni imprenditori (v. recenti interviste di Giuseppe Pasini e di Mario Moretti Polegato nonché lo studio Deloitte  presentato al recente Innovation Summit di Milano). Ancora peggio è la situazione scolastica e non tanto nelle università di punta – che continuano a sfornare laureati e ricercatori che si fanno onore in giro per il mondo ma che non riusciamo a far tornare a causa di burocrazia, mancanza di risorse e scarsa meritocrazia. Oggi la scuola italiana – intesa come luogo non solo di educazione culturale ma anche di preparazione al lavoro – è troppo lontana con la sua offerta dalla reale domanda del mercato.  Ancora una volta nessuno dei governi che si sono succeduti negli ultimi 30 anni ha saputo prevedere ed interpretare le esigenze,da un lato degli studenti in termini di aspirazioni e passioni, ma dall’altro del mercato del lavoro che chiedeva (e chiede) profili diversi da quelli oggi offerti. Per esperienza personale, conosco un po’ il sistema scolastico superiore ed universitario inglese ed americano; vi si trovano cose assolutamente impensabili per l’Italia (quale ad esempio il finanziamento da parte di imprese private – tra cui spiccano quelle cinesi – di laboratori di ricerca di primordine alle facoltà di ingegneria di Oxford). In un paese dove la disoccupazione è oltre il 10% e quella giovanile è molto più alta, solo con una profonda attenzione a cosa esige il mercato e con il conseguente adeguamento dei profili che la nostra scuola forma, si potrebbe rivedere l’offerta di braccia e menti per fare sì che i giovani, una volta terminato il proprio ciclo di studio, possano incontrare e soddisfare la domanda che pure esiste. Se quanto si vorrebbe (sempre ammesso che sia così..) stanziare per il reddito di cittadinanza o per la abolizione della legge Fornero, in teoria, al fine di generare nuove opportunità di lavoro per i giovani,  fosse invece dedicato ad un serio intervento sul nostro sistema scolastico, la crescita futura ne beneficerebbe in modo sostanziale. Certo i risultati di uno sforzo di questo tipo non sarebbero immediati e quindi il ritorno elettorale potrebbe esserne penalizzato.

 

 

Da ultimo un’osservazione sulla necessità di una profonda riforma dei tempi e del modello operativo della giustizia civile – un elemento fondamentale per assicurare ai capitali, che per definizione sono fungibili e cercano la certezza del diritto al fine di garantire le difesa dei propri diritti – e di quella penale per evitare che le persone fisiche si trovino a sopportare per anni accuse a volte montate ad arte da parte di terze direttamente o indirettamente  interessate, e magari del tutto infondate.

 

 

Anche se gli effetti (indiretti) sulla crescita sarebbero indubbi, credo che qui si tratti anche di giustizia sociale e democrazia. Non vado qui a riesumare le numerose statistiche che pongono i tempi dei processi italiani ben oltre il centesimo posto nelle graduatorie mondiali, ma cito un esempio di questi giorni, ovvero la assoluzione (pare definitiva) di Marco Tronchetti Provera per il caso Kroll, avvenuta dopo 8 anni di processi.
Quando parlo con gli investitori internazionali che potrebbero guardare con interesse un target italiano – e quindi favorire sviluppo e, verosimilmente, occupazione – una delle domande che mi fanno più di frequente è quella sulla certezza dei tempi di un contenzioso legal/contrattuale (e quindi civile). Per chi deve portare un investimento in Italia, avere la certezza non solo del diritto – e già qui non brilliamo nel panorama generale per la chiarezza delle nostre leggi – ma anche dei tempi che questo segue, è un parametro di scelta fondamentale.

Certo,  vi sono molti altri fattori che potrebbero favorire la crescita ma, sono convinto che, se volessimo davvero crescere in modo sano e sostenibile e non cercare semplicemente di blandire una base elettorale “incazzata”, non potremo esimerci, prima o poi, dal mettere mano a questi tre elementi: soluzioni che purtroppo generano crescita ma non consenso politico immediato e quindi voti.  Motivo per cui la crescita futura del nostro Paese purtroppo rimarrà sulla carta di tutti i programmi dei governi a meno che non si palesi all’orizzonte qualcuno disposto a guardare in faccia la realtà.

 

 

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