Governo
In Italia sul Next Gen Eu manca la visione di lungo periodo
Lo sblocco del bilancio europeo 2021 -2025 nonostante l’opposizione di Polonia e Ungheria permette finalmente di considerare davvero disponibili i fondi del Next Gen Eu e in Italia il dibattito politico e mediatico si sta – purtroppo – concentrando su chi gestirà le risorse. L’attenzione è tutta puntata sui 209 miliardi di euro anche se pochi fanno notare che in realtà i fondi saranno molti meno a causa delle (corrette) limitazioni del debito che le regole impongono, e colpisce invece il silenzio su due temi centrali: quali saranno i progetti da finanziare e come verranno scelti? Sembra quasi che le scelte debbano essere orientate da un mero esercizio generico – come ad esempio il “green deal”, la digitalizzazione, la sanità – oppure che debbano ridursi a una sequela di mance e bonus destinati a soddisfare specifici gruppi di interesse, senza che nessuno voglia, o forse possa, definire quali siano i criteri di scelta fondamentali.
Nella scelta del “cosa” fare – e non del “come” farlo – credo dovrebbero essere considerati alcuni vecchi e sani principi, primo fra tutti il fatto che una parte delle risorse che saranno disponibili sono debiti (seppur a tassi agevolati) ed una parte trasferimenti a fondo perduto. A fronte di questa fondamentale differenza, chi governa dovrebbe incrociare due gruppi di progetti: da un lato quelli “sociali” che, per natura, non potendo avere un ritorno economico misurabile in quanto necessari ad un effettiva “redistribuzione” delle risorse, dovrebbero trovare il loro finanziamento nelle risorse a fondo perduto; dall’altro quelli di tipo strutturale che per poter essere considerati ed accettati debbono poter trovare allocazione nei progetti finanziati a debito e, di conseguenza, identificare un ritorno economico e finanziario che, seppur spalmato in un tempo lungo tanto quanto la durata del prestito , possa permettere il rimborso del capitale e degli interessi (bassi) che dovranno essere pagati. Per usare un termine tecnico – che potrebbe sembrare fuori luogo in questo momento politico – debbono essere progetti che abbiano un Internal Rate of Return, comunemente definito IRR, positivo. All’interno di questo secondo gruppo e qualora si dovesse usare il criterio menzionato, si potrebbe finalmente far tornare anche il dibattito sui “famosi” 37 miliardi del MES sanitario che sarebbe finalmente affrontato su basi meno ideologiche e più razionali; con un tasso di interesse pari a poco più dello 0.15% annuo sarebbe, infatti, difficile opinare che i numerosi progetti di necessario miglioramento del sistema sanitario che la situazione del Covid ha messo in luce, non abbiano un ritorno positivo per il bilancio dello stato.
Tutti i ragionamenti che chiunque sia al governo dovrà infatti fare si debbono confrontare con una triste realtà: alla fine di quest’anno, e prima di considerare il debito addizionale che deriverà dal Next Generation EU, l’Italia sarà indebitata per circa il 160% del proprio PIL. Il nostro Paese è dunque un’azienda che ha già oggi un debito da restituire pari a oltre una volta e mezza il proprio fatturato. Ciò significa che, come nel caso di ogni azienda molto indebitata, chi è chiamato a gestirla deve assicurarsi che ogni euro in più di indebitamento generi in futuro un flusso atteso di reddito e di cassa maggiore di quanto dovrà essere restituito. Oggi questa necessità sembra passare in secondo piano grazie al supporto finanziario che la Banca Centrale Europea offre all’ Italia, come del resto agli altri paesi europei. Come ha annunciato Christine Lagarde pochi giorni fa, questa disponibilità dovrà prima o poi esaurirsi ed a quel punto il pallino tornerà in mano al mercato (ricordate tutte le discussioni sullo “spread!?). Lagarde ha anche ventilato un termine temporale – primavera 2022 – che se per un politico può apparire lontanissimo, per un amministratore è pericolosamente vicino.
Poiché ogni politico – indipendentemente dal suo partito di appartenenza – a differenza di un amministratore o, ancor più importante, di uno statista, non ragiona nel medio periodo o nell’interesse del paese, ma guarda piuttosto alla propria rielezione, ecco che le vere discussioni – così come sta accadendo con i vari decreti su lockdown, ristori o bonus – si focalizzano non su come identificare investimenti che permettano al paese di svilupparsi (quindi con un IRR positivo), di crescere e di ripagare il debito aggiuntivo che andremo a contrarre, bensì su come ingraziarsi (o forse sarebbe meglio dire “comprare”?) il maggior numero possibile di elettori in vista della prossima scadenza elettorale.
Come evitare tutto ciò? Premesso che non esiste una ricetta miracolosa, applicando una semplice logica si potrebbe identificare una soluzione che risolva il problema andando alle sue radici: mettere in quarantena l’intera classe politica e sostituirla non con un “governo tecnico”, come in questi giorni si legge dalle interviste di molti uomini di partito, ma da un governo “di tecnici” che sostituiscano integralmente le scelte trainate da logiche politico elettorale con scelte di lungo periodo basate su analisi tecniche, appunto, e che non debbano in alcun modo rispondere a gruppi di interesse e quindi di voti. Un governo di persone, non necessariamente italiane, svincolate da qualsiasi legame politico e di assoluta competenza nel proprio campo, che vengono prestati, non alla politica ma al Paese, per operare proprio nell’interesse del Paese e che, come tali, debbono essere pagate più che profumatamente per il tempo che dedicheranno al loro mandato ed a cui sarà naturalmente permesso fare scelte anche impopolari. Per risolvere alla radice possibili rischi di conflitti, nessuno di loro potrà continuare a “governare” dopo il periodo necessario a definire ed instradare i progetti; il termine “governare” deve avere un’accezione molto ampia perché anche solo la promessa di un posto di comando in una delle tante grandi imprese pubbliche rischierebbe di inficiare l’indipendenza di questi “tecnici”. Solo in questo modo il Paese potrebbe trovare una lungimiranza altrimenti improbabile da ottenere e che invece è assolutamente necessaria se non vogliamo essere vittime del “conflitto di interesse” che caratterizza, anche, o forse soprattutto, in un momento come questo, chi dovrebbe decidere guardando non al breve ma a lungo periodo, senza temere conseguenze su eventuali rielezioni. Solo per memoria, la storia ci dice che Helmut Kohl ha perso le elezioni dopo aver riunificato la Germania e Winston Churchill le ha perse dopo aver vinto la guerra.
Poiché ne va davvero del futuro dei nostri figli e nipoti che, ahimè, oggi non votano e quindi – come dimostra la pessima gestione della scuola nel periodo pandemico – non sono molto considerati nelle priorità di scelta, ma non potranno nemmeno continuare a vivere di bonus vacanze e monopattini né di anno bianco fiscale per partite IVA e professionisti, forse vale la pena di pensare oggi in un modo nuovo.
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