Cina
Il MADE IN CHINA è in affanno
Se un indizio non fa una prova, due dovrebbero. Per il secondo anno di fila il colosso manifatturiero cinese sperimenta un declino delle esportazioni verso il resto del mondo. Se nel 2015 la discesa era più che altro simbolica (-2%), ad interrompere decenni di boom ininterrotto, nel 2016 le cifre mostrano un declino molto più marcato (-7,7%, cfr. Figura 1). Si noti come 2 cali annuali consecutivi sono un evento del tutto eccezionale nella storia contemporanea della Cina.
Figura 1
Questo risultato non entusiasmante assume contorni inquietanti se si nota che il calo è avvenuto con la valuta cinese, lo Yuan/Remnimbi, in indebolimento relativo rispetto alle altre divise internazionali. Insomma, nonostante i beni cinesi siano costati relativamente meno (in media del 6,4%, cfr. Figura 2) dopo lo sganciamento dello Yuan dal cambio fisso con il Dollaro nell’agosto 2015, non hanno sfondato come sempre sui mercati internazionali.
Figura 2
La Figura 2 rappresenta un tasso di cambio medio (o effettivo) rispetto alle valute dei principali partners commerciali della Cina, ponderati per l’intensità di scambi commerciali. Ad esempio, il tasso di cambio Yuan /Dollaro influenza molto l’andamento del tasso di cambio nominale effettivo, ma ne rappresenta solo una parte. In questa maniera si riesce a dare un quadro di massima della forza/debolezza di una valuta all’interno del sistema monetario globale.
Dal grafico appare evidente il salto improvviso a seguito dell’abbandono del cambio che però è stato relativamente contenuto (poco meno dell’1%). In realtà il grosso della svalutazione è arrivato successivamente attraverso piccoli passi graduali pilotati dalla Banca centrale cinese (la People Bank of China, PBOC) che ha ridotto l’entità della svalutazione sostenendo il cambio attraverso la vendita di parte delle proprie riserve valutarie (cfr. infra) accumulate in tempi di “vacche grasse”, cioè di abbondante surplus commerciale e valuta in apprezzamento. Insomma, senza gli interventi della PBOC lo Yuan si sarebbe svalutato di più e più rapidamente.
C’è dunque un nuovo segnale: qualche cosa si è veramente inceppato nel modello di crescita della seconda economia del mondo. Si è molto discusso della riconversione dell’economia verso il mercato interno e di aumento del peso dei consumi rispetto agli investimenti, l’oligarchia cinese ha anche autorizzato il secondo figlio pur di rilanciare i consumi ma la crescita del PIL del 2016 (il +6,7% “previsto”) è stata ottenuta con i vecchi schemi di economia export-driven, sostenuta da massicce sovvenzioni statali alla grande industria di Stato.
Certo il dato cinese va inquadrato nel complesso quadro del rallentamento del commercio globale (cfr. Figura 3).
Figura 3
In Figura 3 appare evidente l’impressionante ascesa della Cina come principale motore manifatturiero del mondo, passando da una posizione di relativa marginalizzazione (3% nel 1999) ad essere al primo posto, in posizione largamente dominante. Il peso degli USA così come quello della Germania è in ridimensionamento ma non in declino, mentre prosegue regolarmente il calo di lungo termine dell’importanza di economie come quella giapponese o italiana che avevano avuto un rilievo particolare nel corso degli anni ’80 e ’90. L’ultimo dato disponibile mostra una flessione marcata della quota cinese rispetto al totale delle esportazioni in accordo con la riduzione del dato assoluto mostrato in Figura 1 ed con il rallentamento della crescita del commercio internazionale.
Ma poiché quasi il 50% della crescita degli scambi internazionali nel 2015 è stato attribuibile alla Cina ed i suoi Paesi satelliti, mantenendo questa prospettiva si rischia di rimanere intrappolati in un ragionamento circolare.
Per fare qualche passo in avanti è più utile guardare ai Paesi di destinazione dell’export cinese: gli USA assorbono circa il 18% dei beni cinesi, l’Eurozona conta per il 15/16% del totale, il Giappone meno del 6% mentre il bacino delle nazioni asiatiche di nuova industrializzazione vale intorno al 34% (cfr. Figura 4).
Figura 4
Come si sono evoluti nel tempo questi rapporti commerciali? La Figura 5 offre un’ulteriore spaccato ricco di spunti di riflessione.
Figura 5
Il declino delle esportazioni verso il Giappone prosegue da diversi anni e nel 2016 la riduzione è stata del -4,65%, nonostante un indebolimento dello Yuan del 9% sullo Yen giapponese. Potrebbe sorprendere l’andamento degli scambi con l’Eurozona, che ha riscontrato un’importante battuta d’arresto nel biennio 2015-2016 (-6,07 e -4,7%) dopo un anno di crescita quasi a doppia cifra, se non si considerasse che tale arresto è seguito all’imponente svalutazione dell’Euro (che ha comportato una rivalutazione speculare dello Yuan) connessa con l’espansione monetaria della BCE ed il Quantitative Easing.
C’è un solo dato in crescita nei conti commerciali della Cina: l’export verso gli Stati Uniti salito da 29 a 42 miliardi di Dollari negli ultimi 10 mesi del 2016, dopo una flessione dovuta all’aftershock sui mercati del disancoraggio della valuta cinese dal Dollaro. La crescente dipendenza della manifattura cinese dal mercato USA nel corso del 2016 è evidente anche nel peso dell’interscambio: 6 punti percentuali in più, dal 19% fino a quasi il 25%. Dunque, sono stati la crescita economica USA ed il Dollaro forte (+7% sullo Yuan nel 2016) i fattori strutturali che hanno tenuto a galla l’industria del Dragone.
Figura 6
Il 2017 rischia di aprirsi con una frattura strutturale in questo modello di business. Con buona pace delle aspettative del mercato, l’idea di un super-Dollaro sostenuto da tassi di interesse in crescita e deficit commerciale potrebbe avere già esaurito il suo appeal. Il neo-presidente Trump nei suoi primi discorsi ufficiali ha fatto chiaro riferimento alla necessità di indebolire il Dollaro per rilanciare l’industria nazionale. Un obiettivo che potrebbe dare uno slancio concreto alle idee di ri-localizzazione della produzione delle multinazionali USA, che a novembre avevano lasciato piuttosto freddo il mercato (come nella polemica sulle linee Apple in Cina). Non è un caso che nel mirino di Trump, oltre al deficit con la Cina (-320 miliardi nel 2016) ci sia quello con la Germania (-60 miliardi); entrambi i Paesi sono stati accusati di pratiche commerciali sleali e di manipolazione della valuta.
Tuttavia, l’ipotesi che Pechino possa imbarcarsi in una guerra commerciale con Trump è remota. Più probabile che le Autorità cinesi facciano buon viso a cattivo gioco, considerata anche la situazione finanziaria fragile. C’è infatti un paradosso: la banca centrale cinese non vuole la svalutazione dello Yuan. Anzi, come già detto in precedenza, sta cercando di contrastarla attivamente liquidando le proprie riserve di valuta pregiata. Il costo di questa “ritirata strategica” ha oramai superato i 1000 miliardi di Dollari in poco più di 2 anni, ¼ del totale delle riserve. Nel frattempo la valuta debole fa scappare i capitali; le imprese cinesi cercano di esportarli all’estero in ogni modo aggirando i controlli della banca centrale, anche attraverso l’uso della c.d. “moneta virtuale”, i Bitcoin. Non è un caso che il 95% delle transazioni in questo sfuggente strumento di pagamento a natura decentralizzata provengano dalla Cina.
Tuttavia le autorità monetarie stanno inasprendo le misure di controllo cercando di “tappare le falle” presenti nel sistema finanziario cinese. Da inizio 2017 la PBOC ha impresso un ulteriore giro di vite: tutte le banche nazionali devono infatti garantire l’azzeramento della fuoriuscita di capitali, o addirittura un ingresso netto nel caso della regione di Pechino, dove per 100 Yuan in uscita ogni banca deve garantire afflussi di 120 Yuan di capitale. Fino all’anno scorso la banca centrale era più tollerante e consentiva il trasferimento all’estero di circa 160 Yuan per ogni 100 in ingresso. Per ottenere operativamente questo risultato le banche sono costrette a regolare le transazioni di credito commerciale in moneta nazionale, sostenendo in questa maniera artificialmente la domanda di Yuan e di conseguenza il cambio con il Dollaro. Questo nuovo meccanismo rende ovviamente più farraginoso il commercio con l’estero ed è probabile che possa impattare negativamente sul livello delle esportazioni; in alternativa le imprese cinesi dovrebbero abbassare il prezzo all’origine, trasformando la pressione al deprezzamento del cambio in una svalutazione interna di prezzi e salari. Ma questo è presto per dirlo.
In definitiva, la situazione di incertezza sul futuro della politica commerciale USA-Cina spiega meglio anche le recenti tensioni tra le due potenze sul fronte diplomatico. Ma ora, nella partita a scacchi dell’economia globale, a Trump la prossima mossa.
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