Geopolitica
I guai economici della Turchia sono un grosso problema anche per noi
La Turchia non è la Grecia. Se il Pil della repubblica ellenica vale 195 miliardi di dollari, quello della Turchia sfiora i 900 miliardi. E se nel marzo 2010 l’esposizione delle banche europee verso la Grecia toccava 134 miliardi (di euro), oggi l’esposizione degli istituti bancari di soli tre paesi europei (Spagna, Germania e Italia, rispettivamente per 82, 17 e 16,9 miliardi) nei confronti della Turchia supera i 115 miliardi di euro.
E del resto, il “miracolo economico” turco degli ultimi anni deve molto all’indebitamento: com’è noto, per sostenere la recente, poderosa crescita (nel 2017 il PIL turco è aumentato del 7%), le banche e le imprese turche si sono indebitate molto con l’estero, quasi sempre in dollari ed euro; non che avessero altra scelta, visto che decenni di super-inflazione e instabilità politica hanno eroso la capacità turca di risparmiare, spingendo molti cittadini abbienti a portare i capitali all’estero, e i più poveri a nascondere una parte dei pochi soldi sotto il materasso.
L’indebitamento, a sua volta, è frutto anche del contesto economico internazionale, e delle politiche espansive delle banche centrali occidentali. «I decisori politici americani prima, e molti governi europei dopo, hanno risposto al devastante impatto della crisi del 2008 iniettando enormi quantità di denaro nel sistema, e rendendo l’indebitamento quasi gratuito – spiega a Gli Stati Generali il professor Ahmet Tonak, del dipartimento di economia della University of Massachusetts Amherst –. L’attuale governo dell’AK Parti [il partito conservatore del presidente Erdogan] ha profittato del credito facile per finanziare progetti stravaganti e molte istanze di spesa improduttiva. Al contempo, numerose imprese private hanno accumulato una significativa quantità di debiti in valuta straniera a causa della loro dipendenza dagli input esteri, come l’energia e beni intermedi. E mentre accadeva tutto questo, il potenziale d’export turco non aumentava abbastanza da bilanciare un debito estero così grosso, e ciò ha condotto a un massiccio deficit delle partite correnti».
Un’economia surriscaldata, che ora si ritrova con la febbre. E i medici al suo capezzale non sembrano avere il polso della situazione. È il caso del governo turco. Che in questi anni, dice Tonak, «e specialmente in seguito al fallito golpe militare del 15 giugno 2016, ha compiuto autentiche purghe nelle università e nelle istituzioni, portando caos, mancanza di sicurezza e incompetenza. I tentativi di interferire con le politiche della Banca Centrale turca [TCMB], combinate con il nepotismo ai massimi livelli (si veda il conferimento dei ministeri di energia ed economia al genero del presidente) hanno provocato una crisi di fiducia nel governo, ribaltando l’immagine di cui aveva beneficiato per i risultati della Turchia durante la recente crisi globale».
Tutto questo non poteva non indebolire la moneta turca, la lira. Che ad agosto ha perso circa un quinto del suo valore, peggiorando l’inflazione, le condizioni di vita di milioni di cittadini a basso reddito, l’indebitamento estero delle aziende, i rendimenti dei titoli di stato turchi e la salute di un sistema bancario messo già a dura prova. Come se non bastasse, quella turca è un’economia di trasformazione, che deve comprare all’estero, ad esempio, le materie prime e molti macchinari: se la lira turca vale di meno, pagare i fornitori tedeschi, cinesi, italiani o russi diventa più complicato.
Del medesimo tenore le parole del professor Ibrahim Sirkeci, direttore del Centro studi transnazionali della Regent’s University London: «Per molto tempo l’economia turca si è affidata a iniezioni di valuta pregiata e a progetti edilizi improduttivi. L’espansione del mercato dei mutui e una tendenza all’import, in concomitanza con una crescita economica in fase di rallentamento (anzi, di arresto) era inevitabilmente destinata a condurre a una crisi».
«Le origini della crisi sono molteplici, ma mi soffermerei su quelle di natura politica, che mi paiono più rilevanti: la conferma di Erdogan al comando del paese (pur se con elezioni tecnicamente corrette) non è una buona notizia per la comunità dei governati, e nemmeno per quella internazionale – nota Giuseppe Scognamiglio, ex console italiano a Smirne e profondo conoscitore del paese –. Dopo dieci anni di buon governo, infatti, è evidente che Erdogan è entrato in una fase confusa della sua vita politica, e un ricambio aiuterebbe anche il suo stesso partito a rigenerarsi. Questa convinzione ha reso anche la tenuta economica a rischio. È bastato dunque uno sciagurato tweet del massimo irresponsabile del pianeta, Donald Trump, per rischiare di travolgere il paese».
Il famoso tweet trumpiano del 10 agosto recitava: “Ho appena autorizzato il raddoppio delle tariffe su acciaio e alluminio nei confronti della Turchia dato che la loro valuta, la lira turca, si sta rapidamente deprezzando rispetto al nostro dollaro molto forte!”. Con poche parole il presidente americano è riuscito a peggiorare una crisi già complessa. Del resto tra la Casa Bianca e Ankara non corre buon sangue: a complicare i rapporti è il rifiuto da parte delle autorità turche di rilasciare un pastore americano, Andrew Brunson, accusato di aver preso parte al tentato golpe del 2016, e di collegamenti con organizzazioni terroristiche. Ma il pastore (che Trump ha definito “un gentiluomo eccellente”) non è né una spia né un terrorista: è solo un missionario presbiteriano che dagli anni Novanta all’autunno 2016, quando è stato arrestato, ha guidato una piccola comunità cristiana a Smirne, una delle roccaforti della Turchia laica e occidentale.
In realtà Brunson potrebbe essere solo il capro espiatorio di una crisi più profonda, frutto di una politica estera turca sempre più autonoma e lontana dalle priorità americane. «La Turchia del 2018 non è quella degli anni ‘50, quando era uno dei più fidati alleati degli Stati Uniti, pronta a combattere persino in Corea – spiega un ex politico turco che ha preteso l’anonimato –. Alcuni degli uomini più vicini a Erdogan sono anti-americani, e considerano Washington più una potenziale minaccia che un partner».
Per l’ex politico Ankara ha come suoi interlocutori privilegiati la Russia e l’Iran, oltre che il Qatar (che ha già promesso 15 miliardi di dollari per soccorrere la Turchia), la Cina, la Corea del Sud e, naturalmente, il Pakistan e, soprattutto, l’Azerbaigian. La UE è poco apprezzata, ma alcuni paesi europei, in particolare l’Italia e la Spagna, sono ancora considerati affidabili. E del resto, a parere del governo turco la UE farà di tutto per sostenere la stabilità economica turca. «Se cadiamo noi, crolla la diga che ha bloccato i profughi siriani, ecco cosa pensano ad Ankara» dice l’ex politico «e questo non farebbe piacere alla Merkel». Flussi migratori a parte, la Turchia è uno dei principali partner dell’Unione Europea: il quinto per l’esattezza, dopo Stati Uniti, Cina, Svizzera e Russia. Un aggravarsi della crisi turca non colpirebbe solo le banche europee, ma anche tante PMI tedesche, italiane, francesi.
Osserva Scognamiglio: «Le interconnessioni commerciali e di investimenti tra l’Europa e la Turchia sono significative. Dal momento che la Turchia è la quattordicesima economia del pianeta, la crisi si potrebbe esportare facilmente in tutto il mondo, come sta già accadendo». A riguardo le prossime settimane saranno cruciali. Per inciso, c’era chi aveva previsto tutto questo: l’economista britannico Tim Lee, che da circa sette anni mette in guardia il mondo riguardo le vulnerabilità dell’economia turca. E che di recente ha dichiarato al New York Times: “la Turchia è il canarino nella miniera. Ci sarà un altro crollo, che per certi aspetti sarà peggio di quello del 2008”.
Foto in copertina: Pixabay
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