Macroeconomia
Né le richieste europee né le proposte di Tsipras risolvono il problema Grecia
Il governo greco deve pagare 1,6 miliardi di euro al FMI entro fine mese, pena il default su tutto il proprio debito. La vicenda del difficile accordo tra Grecia e creditori sta polarizzando la attenzione di molti media ed ha influito, anche se per il momento in modo meno catastrofico del previsto, sul recente andamento dei mercati. Se però vogliamo guardare un po’ meglio la situazione temo che la attenzione generale si stia focalizzando sulle tematiche sbagliate o, forse è meglio dire, sui sintomi e non sulla malattia. Lasicando volutamente da parte un tema molto più ampio e complesso come quello degli effetti su altri paesi “a rischio” nel caso in cui si verificasse effettivamente il Grexit, può essere utile concentrarsi sul vero problema della Grecia che non è infatti di carattere finanziario bensì “industriale”. La mia opinione è infatti che, come in quasi tutte le situazioni di crisi, la mancanza di liquidità per ripagare i debiti contratti nel tempo altro non sia che la conseguenza della sempre più scarsa competitività internazionale della Grecia.
Alcuni dati per inquadrare il problema. La composizione del PIL Greco 2014 (fonte OECD) è la seguente: retail and trade, che comprende anche il turismo, 30%; financial intermediation, real estate and other business activities, 27,5%; industry and manufacturing 20, 1% con gli altri settori che rappresentano percentuali progressivamente più piccole. Poiché financial intermediation e real estate sono settori essenzialmente domestici e che quindi non “tirano” la crescita economica ma sono tirati dalla situazione generale, concentriamoci dunque sulla competitività di quello che, a detta di tutti, dovrebbe essere il prodotto di punta della Grecia: il turismo. Secondo i dati disponibili (Enterprise Greece, Invest and Trade), nel 2012 questo settore ha contribuito per oltre 10 miliardi di euro (ovvero il 16,4%) alla formazione del PIL.
Ebbene, aprendo due siti turistici a caso (Alpitour e Expedia) e comparando i prezzi di una vacanza di una settimana per due persone a Santorini, nota isola greca, in un hotel 4 stelle con partenza da Milano in data 25/7 e quelli di una settimana sull’atollo di Ari Sud (Maldive), sempre hotel 4 stelle sempre partenza da Milano per le medesima data, si trovano i seguenti prezzi: Santorini 2.434 euro, Ari Sud 1.484 euro. Se invece, per correttezza ed omogeneità, giacché luglio alle Maldive è bassa stagione, comparassimo i prezzi di Santorini con quelli delle Maldive a Dicembre (alta stagione anche per le isole) il prezzo per due persone in un resort 4 stelle a Male Nord, salirebbe a 1886,71 euro, comunque circa 550 euro più economico.
Quindi, seppur con tutti i distinguo del caso, la Grecia, nel suo settore di punta, è meno competitiva delle Maldive dove il prodotto mare non credo possa essere definito inferiore.
Concentriamoci ora su altri due parametri dell’economia greca che, pur non impattando direttamente la competitività di uno specifico settore indicano una struttura economica che difficilmente può reggere la competizione internazionale: pensioni e settore pubblico, ovvero i due punti su cui, leggendo i giornali, pare verta la battaglia tra “troika” (ora Brussels group) e governo greco.
Il settore pubblico, secondo le statistiche (CIA – The World Factbook for 2014), contribuisce per oltre il 40% alla formazione del PIL Greco – la stessa percentuale per paesi di dimensione e popolazione analoga quale Olanda, Portogallo si attestano sul 38,9% e 34,6% (The World Bank for 2012). Difficile valutare quale sia la competitività di un servizio pubblico ma, parlando con amici greci, non mi pare che i servizi nel loro paese siano proprio all’altezza dei servizi olandesi (che pur si avvicina in termini percentuali al livello greco) e quindi anche in questo caso la competitività non sembra essere di casa. Inoltre come ben sappiamo dall’esperienza nostrana, nel settore pubblico parole quali meritocrazia, flessibilità o competitività non sono proprio di casa, a maggior ragione in un paese dove la disoccupazione è arrivata a livelli stratosferici, e quindi pare difficile pensare che la mentalità di un settore che rappresenta poco meno della metà del PIL del paese possa essere improntata a meritocrazia e competitività.
La Grecia spende il 17,5% del proprio PIL per il pagamento delle pensioni con 2,65 milioni di pensionati di cui 1 milione al di sotto dei 65 anni (fonte Eurostat). Si legge sui giornali che lo Stato greco ha smesso da tempo di pagare altre spese che non siano stipendi e pensioni. La stessa percentuale in Italia, che come sappiamo ha problemi molto rilevanti, è del 16,85% (Istat). Secondo il Pension Sustainability Index (PSI), indice elaborato da Allianz International che misura il livello di riforme necessarie al sistema pensionistico per essere sostenibile in considerazione della curva demografica delle finanze pubbliche e del livello di reddito necessario ai pensionati, la Grecia nel 2011 si collocava all’ultimo posto nella graduatoria mondiale e nel 2014, a seguito di alcune delle misure imposte dalla Troika come parte del pacchetto di salvataggio a suo tempo stipulato ed oggi considerate dal primo ministro Alexis Tsipras come “killer”, tale posizione è solo di poco migliorata, con la Grecia posizionata all’ottavo peggior posto nella classifica. Oggi per fortuna si legge che nella ultima proposta inviata da Tsipras alla Merkel durante il fine settimana, ci sia un’apertura in merito alla revisione dell’età in cui i Greci possono andare in pensione.
Questi pochi dati dimostrano come senza una profonda ristrutturazione “industriale” del sistema paese, qualsiasi accordo sul debito greco non farebbe altro che rimandare il problema di qualche mese, o al massimo, anno; salvo poi ritrovarselo davanti ingigantito – quando esso riemergerà. Se infatti al momento del salvataggio del 2011 la richiesta di una ristrutturazione “industriale” avesse affiancato quella dell’austerità finanziaria, forse la situazione che si deve affrontare oggi sarebbe diversa.
La cosa che mi ha più meravigliato, non tanto da parte di Tsipras quanto dal lato dei media e dei creditori che non lo hanno immediatamente contraddetto è il fatto che il primo ministro greco, a giustificazione della propria rigidità negoziale abbia dichiarato qualche giorno fa che «il suo mandato elettorale non gli permette di accettare le condizioni imposte dai creditori». Se dovessimo accettare questa affermazione – che viene peraltro da quasi tutti i politici in odore di elezioni –, ciò significherebbe accettare il principio che, un debitore dopo aver preso a prestito più di quello che era in grado di pagare (ed in questo caso la responsabilità è soprattutto di chi ha concesso il credito) ed averlo sperperato con un livello di vita superiore a quanto si poteva permettere (e qui invece la responsabilità è principalmente del debitore), si arroghi anche il potere di decidere se, quando e quanto del proprio debito pagare. Se è pur vero che i mercati hanno la memoria corta (dopo solo qualche anno dopo il default di certi paesi, i mercati hanno ricominciato a prestare agli stessi), mi pare che in questa situazione, un’affermazione di tale portata rischi di rendere i mercati molto meno propensi ad accettare i rischi di prestare a paesi in bilico e dove la buona gestione delle finanze pubbliche non sia un principio radicato e condiviso.
Al di là delle critiche che, senza qualche proposta di soluzione, potrebbero essere considerate fine a se stesse – e che credo comunque dovrebbero essere equamente ripartite tra debitore e creditori – proporre di considerare, per una volta, un angolo di analisi alternativo. Poiché la dimensione del problema finanziario, rispetto alla posta in gioco, è relativamente limitato se non per il fatto che viola alcuni principi comunemente accettati, suggerirei infatti di procedere come normalmente si fa, o si dovrebbe fare, con la ristrutturazione di qualsiasi debitore insolvente:
1. Iniziare a definire in quali settori economici la Grecia, magari dopo qualche riforma strutturale, possa essere competitiva in un mercato globale;
2. Definire un piano di sviluppo e di sostegno a tali settori,
3. Disincentivare lo sviluppo insostenibile di quei settori che non hanno più ragione di sopravvivere vista la loro scarsa competitività con l’aggiunta non indifferente di una vera caccia agli evasori
4. Partendo dai settori “buoni”, definire quanta ricchezza il paese possa effettivamente produrre concludendo con la definizione di quello che possa essere il debito effettivamente sostenibile seppur con scadenze molto dilazionate e tassi particolarmente favorevoli.
Poiché la questione sociale non può né deve essere sottovalutata, in parallelo va definito quale sia un livello minimo di dignitosa sopravvivenza per coloro che da questa ristrutturazione “industriale” verranno colpiti (esempio i dipendenti pubblici in eccesso) e calcolato quanto denaro sia necessario per permettere, pro tempore, una vita dignitosa agli interessati, a cui, però, deve far riscontro una effettiva disponibilità dei beneficiari dei sussidi a riqualificarsi in quelle attività che verranno individuate come possibili. In questo modo, pur non disponendo delle informazioni necessarie a stimare gli effetti di un programma di ristrutturazione di tale fatta, la situazione non penso potrà peggiorare di molto: il livello di disoccupazione è già oggi insostenibile e non si potrà ridurre strutturalmente attraverso politiche di sovvenzioni a pioggia che non facilitino un vero turnaround del paese.
Tale sussidio dovrà essere fornito dagli stessi creditori – visto che nel caso di un paese non esistono gli azionisti – che credono nel futuro del paese e dovrà essere considerato nella definizione del debito disponibile. Il tutto dovrà essere legato ad incentivi particolarmente pregnanti che i creditori (ed in questo caso l’Europa o la comunità internazionale che da un crack hanno molto da perdere) imporranno affinché si proceda effettivamente nelle misure di ristrutturazione del paese necessarie a garantire la competitività necessaria a rendere la situazione sostenibile nel tempo.
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