Macroeconomia

FUGGITE, FORSE SALVERETE IL PAESE

5 Gennaio 2015

L’Italia resta un paese bloccato; diviso, a vari livelli e nei più diversi contesti, tra insider solitamente privilegiati ed outsider costantemente presi di mira; in cui la concorrenza, invece che essere motore di innovazione, è ancora largamente considerata un disvalore, una minaccia da cui fuggire, alla ricerca continua dell’ultimo settore protetto; dove i normali meccanismi di mercato e distruzione creatrice caratteristici di un’economia in salute, capace di espellere le tossine accumulate nel tempo e rilanciarsi, molto raramente riescono a trovare applicazione.

Le cause sono in buona parte note e vengono da lontano ma, soprattutto, rimandano a rapporti di forza – complice anche la demografia avversa – ormai consolidati nella società, soffocanti ragnatele di incentivi incompatibili con un’efficiente allocazione delle risorse, ragioni “di equilibrio” che non è per nulla chiaro se e come, giunti a questo punto, possano essere aggirate o modificate dall’interno, attraverso il normale processo democratico, chiunque si trovi poi a governare.

Elementi cristallizzatisi nei lunghi anni privi di riforme, divenuti strutturali, ben lontani dalla caricatura offerta dalla (in parte giustificata, ma oggi fuori controllo) polemica anti-casta, secondo la quale, in sostanza, un intero paese ad un certo punto sarebbe stato preso in ostaggio da un gruppuscolo relativamente limitato di persone, essenzialmente il ceto politico, e condotto al declino, in qualche modo come una vittima incolpevole e contro la propria volontà.

Se davvero così fosse, si potrebbe essere ben più ottimisti, perché, rimosso tale corpo estraneo – la politica, in fondo, ed oggi più che in passato, è un ambito in cui la competizione esiste, attraverso il voto periodico che rende contendibili le posizioni di governo -, non dovrebbe essere poi troppo difficile provare a ripartire. Ma così, evidentemente, non è: in Italia (come in Grecia, del resto, dove dal 2010 è diventato uno sorta di sport nazionale), il tiro al politico è in larga parte una confortante bugia auto-assolutoria, non già perché i politici non siano impresentabili (spesso lo sono), ma perché laddove il governo è democraticamente eletto la responsabilità primaria dello stato di cose, piaccia o meno, fa capo alla maggioranza dei cittadini.

Dunque, la condizione per risolvere il problema è che di tale responsabilità i cittadini/elettori prendano atto, adoperandosi per un miglioramento della gestione. Qualora non siano in grado di farlo o – come è ben possibile – non lo vogliano, non c’è ragione perché chi non è d’accordo debba voler condividerne la sorte. 

Verificata l’impossibilità di un cambiamento, non solo è razionale “votare con i piedi” ma, e questo è il punto che spesso si perde nel discorso pubblico, la decisione di spostarsi altrove fisicamente e/o di muovere i propri capitali, oltre ad essere perfettamente legittima, lungi dal danneggiare il paese, nel medio-lungo periodo potrebbe ben rivelarsi un modo per salvarlo, in quanto essa introduce preziosi elementi di concorrenza, i.e. la possibilità di optare per alternative ritenute migliori, non diversamente dal cambiare un fornitore di cui non si è contenti, in un contesto altrimenti monopolistico e quindi per natura impervio alla trasformazione, in primis in quanto a livello di tassazione ed erogazione di servizi, fino a costringere alla scelta che ogni azienda che cominci a perdere clienti prima o dopo si trova a dover fare: cambiare o soccombere.

Dinamica concorrenziale finora ben nota in particolare agli Stati americani, che vi fanno ricorso comunemente, in modo feroce quanto virtuoso, contendendosi imprese e lavoratori, ma oggi sempre più praticabile ed estendibile a livello internazionale, e certamente all’interno dell’Unione Europea.

E in un tempo in cui i classici vantaggi comparati di ricardiana memoria tendono a perdere d’importanza e ad essere determinati da quelli “assoluti, in cui contano meno “i regali” della natura, e più i frutti delle decisioni pubbliche, in cui le tecnologie, il lavoro qualificato ed i capitali si fanno vieppiù mobili, essere poco competitivi, avere una bassa qualità dei servizi e, di conseguenza, una scarsa capacità di attrarre e trattenere risorse, è estremamente penalizzante, in particolare se la sopravvivenza di un certo sistema dipende dall’accesso ad una grande quantità di introiti fiscali e di contributi

Se, tuttavia, noi quel sistema disfunzionale lo vogliamo abbattere, l’effetto collaterale delle decisioni di andare via, sottraendo progressivamente base imponibile e capacità di crescita, diventa inaspettatamente nostro alleato, nella misura in cui avvicina il punto di non ritorno (ovviamente, il Sud non rappresenta un controesempio: la presenza di trasferimenti fiscali impedisce al meccanismo descritto di operare).

Inizialmente, l’opzione sarà quella di compensare inasprendo la fiscalità su chi resta, ma in un paese dall’imposizione già elevatissima, ciò non farà che, da una parte, deprimere ancor più la crescita (come sta avvenendo dal 2011, peraltro, anche a causa del tax squeeze messo in atto dal governo Monti), dall’altra, suscitare sempre maggiore malcontento e spinta ad emigrare, fino ad una probabile discontinuità sistemica, premessa di un nuovo ordine ed equilibrio (il fenomeno è in corso e se le condizioni attuali permarranno – come tutto lascia supporre – non solo non si invertirà, ma guadagnerà in intensità: il 2014 è stato un anno record e senza precedenti in quanto a perdita netta di capitale umano, gli investimenti esteri crollano senza sosta – -58% dal 2007 al 2013 -, gli indici di attrattività e competitività restano ai minimi).

Anche per questo è abbastanza sorprendente (benché non così raro, ché soprattutto le generazioni più giovani hanno mostrato sovente di avere le idee confuse circa i propri interessi) che chi genuinamente sostiene di voler dare una scossa al corpaccione immobile dell’Italia spesso e volentieri si beva la favoletta che i molti custodi dello status quo non perdono occasione di propinare, paurosi di perdere le fonti che alimentano i propri privilegi, sussidi, protezioni, clientele, secondo la quale ci sarebbe qualcosa di intrinsecamente anti-patriottico nella decisione di investire all’estero, chi se ne va sarebbe una sorta di disertore e non avrebbe, allora, più diritto di esprimere la propria opinione sulle sorti del paese, la competizione tra regimi fiscali (e non solo) sarebbe qualcosa di negativo.

Niente di più falso, tanto più in un paese dove probabilmente, ormai, la sorte della maggioranza, direttamente od indirettamente, è legata a certi assetti individualmente vantaggiosi, ma collettivamente disastrosi (che è anche la ragione per cui risulta impossibile tagliare la spesa pubblica), e sempre più difficilmente, a fronte dell’invecchiamento della popolazione, si troveranno i numeri per implementare le misure drastiche che servirebberoin un paese che finché non sarà costretto dagli eventi non cambierà davvero. 

L’intenzione non è quella di sminuire lo sforzo dei molti che scelgono, non senza coraggio, di restare e combattere, ma di compiere un esercizio di sano realismo rispetto alla probabilità di liberarsi “da dentro” dei ceppi che frenano ogni ripresa, realismo dettato dall’esperienza e dalla semplice osservazione, come detto all’inizio, dei rapporti di forza nella società, di rivelare che il falso mito della concorrenza tra Stati cattiva altro non è che una mistificazione funzionale al mantenimento dell’attuale stato di cose.

La prossima volta che un’azienda sposterà la sede altrove, l’ennesimo amico traslocherà a Londra od un parente acquisterà un immobile a Berlino, forse si potranno vedere le conseguenze dello loro scelte sotto una diversa e più positiva luce.    

 

 

 

 

 

 

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