Governo
Ferragosto 2015: stessa spiaggia stessa crisi, da sette anni
«Il momento peggiore è passato e d’ora in poi ci saranno miglioramenti» (Silvio Berlusconi, maggio 2009). «La strada in fondo al tunnel sta iniziando a illuminarsi» (Mario Monti, luglio 2012). «L’uscita dalla crisi economica appare a portata di mano» (Enrico Letta, dicembre 2013). «Dopo tanti sacrifici, e gli italiani ne hanno fatti anche troppi, ci siamo davvero» (Matteo Renzi, aprile 2015). A dispetto delle ottimistiche dichiarazioni dei presidenti del Consiglio che si sono avvicendati a Palazzo Chigi negli ultimi anni, però, non ci siamo proprio.
Gli ultimi dati Istat stimano che il Prodotto interno lordo italiano sia cresciuto dello 0,2% nel secondo trimestre 2015 rispetto al trimestre precedente, mentre la variazione tendenziale (confrontando cioè aprile-giugno 2015 con lo stesso trimestre 2014) è dello 0,5 per cento. «È la conferma che non c’è una ripartenza vera», ha commentato Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria. Per convenzione importata dagli Stati Uniti, due trimestri di variazione positiva sono considerati come fine dalla recessione, ma è una magrissima consolazione: dai valori raggiunti nel 2008 il Pil italiano è sotto di quasi 10 punti percentuali.
Dal 2008 questo è dunque il settimo Ferragosto che l’Italia passa nell’attesa di una ripresa degna di questo nome. Il confronto con i numeri di allora è impietoso. Il tasso disoccupazione è quasi raddoppiato: a giugno era attestato al 12,7%, contro il 6,4% del marzo 2008. Il Prodotto interno lordo è arretrato da 1.632,933 miliardi di euro del 2008 a 1.616 del 2014, inframmezzato da picchi più bassi causati dal crollo del settore edilizio e dalla contrazione dell’industria manifatturiera, due dei pilastri del sistema economico italiano. Gli ultimi dati cambiano poco. Il riflesso di quanto accaduto si osserva nelle 82mila aziende fallite dal 2008, secondo i dati diffusi dal Cerved, con il massimo di chiusure toccato proprio nel 2014.
Tracollo lavoro
Un tema che mette d’accordo tutti: il problema principale dell’Italia è il lavoro. Non a caso i governi di varia estrazione, seppure con diverse strategie, hanno cercato di incidere con delle riforme. I risultati sono i seguenti. Nel secondo trimestre 2008 gli occupati in Italia erano 23 milioni e 139mila a fronte degli attuali 22 milioni e 301mila. Ma rispetto a 7 anni fa c’è l’aumento della forza lavoro, le persone disponibili a lavorare: nel giugno 2008 era di 24 milioni e 846mila, mentre nel giugno 2015 è salita a 25 milioni 530mila. Il risultato è che i disoccupati totali in Italia sono 3 milioni 233mila. Dal marzo 2014 al giugno 2015 ci sono 85mila disoccupati in più. Il Jobs Act, almeno per ora, non ha prodotto effetti: da marzo – data di entrata in vigore della riforma del governo Renzi – a giugno ci sono 34mila disoccupati in più. Adapt, l’associazione di esperti del mercato del lavoro che sta portando avanti il lavoro di Marco Biagi, ha elaborato il grafico che rende visivamente chiaro il trend.
«La lettura parallela delle riforme del lavoro e dei risultati sul tasso di occupazione italiana mostrano che le leggi non creano lavoro. La congiuntura economica negativa degli ultimi 8 anni ha abbassato ulteriormente il numero degli italiani che lavorano portando il tasso a solo il 55,8%», spiega Francesco Seghezzi, ricercatore Adapt. Ma la questione va anche oltre le cifre: «Nel frattempo – prosegue Seghezzi – la crisi ha anche cambiato il lavoro; lavori che c’erano fino a poco tempo fa sono oggi obsoleti e nuovi lavori non riescono a trovare una corrispondente forma giuridica che li inquadri. Una vera riforma deve muoversi in parallelo con una politica industriale volta a favorire chi oggi crea lavoro e ad aprire spazi di libertà perché questi abbiamo modalità di esprimersi». Muoversi lungo linee guida novecentesche, come quella che contrappone stabili e precari senza concentrarsi nel creare sistemi di sostegno ai periodi di transizioni occupazionali «rischia – e invero i dati al momento lo confermano – di incidere poco e non quantitativamente su un mercato del lavoro italiano fermo da troppo tempo», conclude il ricercatore.
Così riecheggiano le affermazioni di Christine Lagarde, direttore del Fondo Monetario internazionale, durante un intervento alla Bocconi, quando rivolgendosi ai giovani disse: «Non riuscire ad applicare il loro ingegno alla realtà lavorativa, ad affinare le loro capacità nell’ambiente quotidiano di lavoro o a ottenere l’esperienza necessaria per intraprendere carriere di successo. Questo è diventato un problema diffuso in Europa e particolarmente grave in Italia». La questione, in realtà, non riguarda più giovani, bensì tutti i lavoratori. Anche sul livello regionale, la ripartizione della perdita di occupazione non ha risparmiato alcuno, tenendo presente condizioni di partenza profondamente diverse: nel nord Italia dal 2008 al 2015 i disoccupati sono passati da 438mila a 1 milione e 138mila. Più che raddoppiati. Al sud già nel 2008 c’erano 877mila persone alla ricerca di occupazione: nel primo trimestre 2015 è stato superato il tetto del milione e mezzo. Al centro da 309mila disoccupati a 657mila: poco più del doppio, ma in un quadro di sostanziale contenimento dell’emorragia occupazionale. Così non suona più tanto sballata la stima del Fmi, formulata lo scorso luglio, secondo cui potrebbero volerci 20 anni per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi.
Povera, Italia
La crisi economica è leggibile anche attraverso un altro dato: la contrazione del Pil. L’anno più scioccante è stato il 2009 con il -5,5% certificato dal Fondo monetario internazionale. Nel 2011 c’è stata l’illusoria risalita a 1.638,857 miliardi di euro, prima della nuova flessione. Con il dato si è attestato a 1.616,253 miliardi di euro di fine 2014. L’ex presidente del Consiglio, Mario Monti, durante la sua esperienza a Palazzo Chigi si era lanciato in previsioni strabilianti, presentando il piano di liberalizzazioni del suo governo: «Se l’Italia arriva ad un grado di flessibilità come c’è negli altri paesi nel campo dei servizi ci sarà un aumento della produttività del 10% nei prossimi anni e, grosso modo, del 10% anche del Pil». Le sue analisi si sono rivelate drammaticamente errate. E si capisce che uno zero virgola in più in meno, per di più in presenza di un contesto più che favorevole (tassi bassi, euro debole, petrolio a buon mercato), non lascia tranquilli.
Per comprendere la profondità della crisi economica, l’indicatore più importante è quello degli investimenti, che riguardano il rinnovamento o il potenziamento di un’impresa. E gli investimenti calano nonostante le professioni di ottimismo di qualunque orientamento. Nel 2008 ammontavano a 346,691 miliardi di euro. Nel 2014 sono scesi a 271,262 miliardi, facendo segnare il punto più basso dal 2001. Nemmeno l’effetto-ottimismo del nuovo governo ha dato una spinta. Nel primo trimestre del 2015 c’è stata una lieve inversione di tendenza con un +0,4% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ma la dinamica è in attesa di consolidamento. Il settore delle costruzioni ha subito un ridimensionamento pesantissimo. Dai 186,778 miliardi di euro di investimento del 2008 ai 138,868 miliardi del 2014. Anche in questo caso si tratta del risultato peggiore dal 2001. E il presidente di Confartigianato Edilizia, Arnaldo Redaelli ha sottolineato che nel 2015 «il comparto dell’edilizia versa ancora in una situazione di profonda crisi». L’industria manifatturiera non è andata certo meglio.
Il tessuto di imprese ha sofferto pesantemente la crisi con una flessione in sette anni dai 62,491 miliardi dell’era pre-crisi ai 52,019 miliardi del 2014. Del resto già nel 2013 Confindustria parlava della “distruzione del 15% del potenziale manifatturiero italiano”. Un tracollo c’è stato infine per il commercio con un regresso dal 51,126 miliardi a 36,713 miliardi, diretta conseguenza del calo della domanda interna, che ha toccato gran parte dei mercato, incluso quelli della spesa per alimentari e bevande (-0,6%), dell’abbigliamento (-7,6%) e degli elettrodomestici (-8,2%): le principali categorie di consumo. In un quadro molto negativo, l’agricoltura ha in parte retto all’ondata, arretrando comunque di 1 miliardo e 220 milioni di investimento dal 2008.
Pressione fiscale e debito al top
«Difficilmente il sistema economico potrebbe sopportare ulteriori aumenti della pressione fiscale». La Corte dei Conti ha messo nero su bianco, denunciando una situazione ormai intollerabile. E nonostante le tante promesse politiche per arrivare a un abbassamento della tasse, le cifre raccontano una verità diversa, ossia un incremento generale di 4,3 punti in relazione al Pil, in nove anni. Prendendo come riferimento il periodo della crisi economica, quindi dal 2008, la tasse – nel complesso – hanno fatto registrare un incremento di 1,8 punti, dal 41,3% al 43,4% del 2014. Secondo la Confcommercio – al netto dell’economia sommersa – la pressione fiscale reale è pari al 53,2%. Chi paga rende più della metà del reddito allo Stato. Non è da meno la dinamica del debito pubblico.
Le politiche di austerità non hanno infatti sortito l’effetto sperato: alla fine del 2008, i dati della Banca d’Italia hanno indicato l’aumento debito di 1.663.637 milioni di euro. Secondo l’Istat il rapporto con il Pil era al 102,3%. L’aumento è stato inarrestabile: prima il balzo al 112,% nel 2009 fino ad arrivare al 132,1% del 2014. E le stime dell’Eurostat annunciano che nel 2015 toccherà la punta del 133% per iniziare la discesa, salvo mutamenti di scenario, nel 2016. In termini assoluti a maggio è stato raggiunto il nuovo record con 2.218 miliardi di euro. Eppure, solo a dicembre 2014, il dato si era attestato a 2.134.000 milioni con un aumento di 66 miliardi rispetto all’anno precedente. Un aumento incessante di un’Italia che vive il Ferragosto 2015 avvitata su se stessa. Con più disoccupazione, meno ricchezza, tagli ai consumi e con un indebitamento sempre più alto.
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In copertina, Vento d’estate, di Jody Picca, foto tratta da Flickr
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