Macroeconomia
Default, l’obiezione principale è che non ci si fida dello Stato
«La crisi dovrebbe indurci a prendere atto che il debito è nostro e che è giunto il momento di farcene carico… considerando default controllato e volontario che comporta la conversione di una parte del debito in altri titoli con scadenza superiore». Al suo esordio su Gli Stati Generali, nell’articolo «Guardiamo in faccia il debito e iniziamo a parlare di default», l’economista Bernardo Bortolotti tocca quello è che forse il nervo scoperto più scoperto quando si parla della montagna di debiti (oltre 2.100 miliardi di euro) che grava sull’Italia. Ma, sebbene non sia la prima volta che se ne parli, il solo accennare all’ipotesi default suscita reazioni forti fra alcuni dei maggiori influencer nei social network. «La storia del default controllato mi ricorda quella, più attuale, del dibattito sullo sforamento del deficit. Posto il parametro del 3% del GDP, se ci fosse un vincolo a non superare il 4% saremmo allo stesso punto. Idem se il vincolo fosse al 5% o al 6%. Il problema è strutturale, non letterale. Inoltre, come conciliare un haircut con la percentuale di debito emesso detenuto dai domestici? È l’equivalente di una patrimoniale», obietta Fabrizio Goria, fra i più noti giornalisti finanziari attivi su Twitter, senza nascondere il suo disappunto per posizioni come quelle di Bortolotti o di Guido Tabellini (Università Bocconi).
Non pochi commentatori su Facebook mostrano fastidio verso quella che è viene considerata una posizione non degna di un dibattito serio, qualcosa da lasciare insomma ai meet up grillini o alle piazze leghiste. Sembra quasi che non se ne possa parlare “perché se no i mercati si impauriscono”: «Come se i mercati fossero scemi e non ne parlassero – commenta sarcastico l’imprenditore Flavio Pasotti, in un post pubblicato su Gli Stati Generali – In realtà, gli unici a non parlarne sono proprio i cittadini italiani perché think tank internazionali, società di consulenza, operatori dietro le tastiere ne parlano al punto da produrre studi che sono (per loro) occasione di business. Stuzzicato ad esprimersi sul tema dal direttore de Gli Stati Generali Jacopo Tondelli, il giornalista Oscar Giannino, conduttore di una popolare trasmissione su Radio 24, non si tira indietro: «Anch’io penso che il debito pubblico abbia dimensioni tali e prospettive di ulteriore crescita che va affrontato agendo sugli stock e non sui flussi… ma pongo quattro “punti secchi”. Il primo «è che una ristrutturazione autonoma del debito pubblico di un paese membro non è attualmente concepibile se non nel quadro delle regole europee»: ma in un’Italia in cui destra non hanno capito neanche che occorreva negoziare con la Ue un intervento straordinario per alleggerire le banche italiane dai crediti deteriorati, come si può pensare che siano in grado di sedersi a un tavolo internazionale per rinegoziare gli impegni oltre 2100 miliardi di debiti? Secondo, anche la letteratura scientifica più favorevole mostra se il default non viene imbrigliato in un quadro di regole severe finisce per essere solo un sollievo temporaneo cui seguono guai peggiori (leggi Sovereign-debt relief and its aftermat)
Inoltre, visto che 30% di debito è ancora in mani straniere, e «non basterebbe nemmeno una procedura assistita e concordata con gli strumenti dell’euroarea attuali, a evitare fughe di capitali e restrizioni amministrative non troppo temporanee al libero flusso finanziario da e verso il nostro Paese: è l’esatto opposto di ciò di cui abbiamo bisogno nel breve». Terzo, «occorrerebbe imbrigliare la politica di finanza pubblica italiana per anni a venire a regole ferree, zero deficit reale, tagli di spesa reale e non tendenziale per abbattere imposte, tetto quantitativo al debito pubblico in termini nominali da autorizzare in parlamento come negli Stati Uniti con maggioranze qualificate», ma chi ci crede, che la politica italiana sia pronta a questo? «Meglio allora conferire i 400 miliardi di mattoni pubblici a un veicolo ad hoc incardinato a Londra secondo il diritto dei mercati internazionali, e affidato alla gestione di grandi players immobiliari specializzati attraverso una gara internazionale, con facoltà ovviamente di finanziarsi emettendo obbligazioni garantite dal patrimonio sottostante conferito, fino a totale vendita nel tempo e al prezzo giusto, ma a redenzione di un 20% del debito pubblico italiano».
Ma se per non pochi il default sarebbe la rottura del patto “fra Stato e cittadino”, Pasotti coglie il punto e ne trae le conseguenze, a condizione però di rimanere in ogni caso nell’euro: «Se uno Stato mette in discussione la propria affidabilità come debitore e si rivale sui suoi azionisti (che sia un consolidamento, una patrimoniale o la cessione di beni comuni poco cambia) allora è necessario di quello Stato ridiscutere tutto, perché è lo Stato e non il debito ad andare in default: è con i suoi cittadini prima ancora che con i mercati che deve fare i conti. Non è materia da feticismo finanziario ma realmente da Stati Generali perché, citando Renan che non mi è mai piaciuto, una nazione è un referendum quotidiano. Posso anche prendere – aggiunge – una botta sul capitale tra case e investimenti finanziari (gli investitori esteri entrano ed escono dal mercato dei titoli, chi ci rimane siamo noi) ma non posso pensare il giorno dopo di ritrovarmi con la stessa pressione fiscale e nessuna chance di ricominciare a produrre ricchezza e metterla da parte perché il gioco non varrebbe la candela». Che le banche italiane italiane, su cui pesano oltre 400 miliardi di titoli pubblici, riescano ad assorbire il colpo, l’economista Mario Seminerio, autore di Cura letale, mostra molta cautela: «Sinceramente, non proverei a testare questa affermazione con un haircut sul debito pubblico». Il dibattito è aperto. Stay tuned.
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