Finanza
Commissione Banche e il vero problema del credito in Italia
Approfitto della breve pausa natalizia per condividere alcune considerazioni sulla attività della Commissione Banche. Nella settimana prima di Natale ben poco è emerso sui media in merito a quanto il legislatore potrebbe, o dovrebbe, dedurre dall’analisi fatta dalla Commissione (e quindi speriamo che i contenuti della Relazione Finale ci sorprendano positivamente). Molto dibattito pre elettorale, poca sostanza. Un lavoro che, per essere utile in prospettiva futura, dovrebbe focalizzarsi sullo studio fattuale ed oggettivo della crisi bancaria che l’Italia ha vissuto negli ultimi anni e che invece si è concetrato su temi utili solo alla campagna elettorale. A mio avviso, infatti e con poche eccezioni, una parte importante del sistema bancario continua a vivere un problema radicale legato al modo in cui il sistema “eroga il credito”. E’ in questo caso interessante citare il lavoro di Schivardi, Sette e Tabellini (Credit Misallocation During the European Financial Crisis- Luiss Accademy , 3/17) in cui vengono sottolineati tre elementi chiave di quanto accaduto in Italia negli ultimi 10 e più anni. Con una sintesi, che certamente non fa giustizia al lavoro molto più articolato dei tre economisti, i principali risultati della ricerca possono essere cosi riassunti: primo, le banche sottocapitalizzate sono state meno propense a tagliare il credito alle imprese non viabili (i cosiddetti zombies di cui ha parlato anche il Wall Street Journal in un recente articolo sulle aziende italiane in crisi); secondo, la “credit misallocation” ha provocato un incremento delle difficoltà di accesso al credito per le imprese sane e ridotto, invece, la probabilità che le imprese zombies uscissero (finalmente e definitivamente) dal mercato, con un conseguente danno per il sistema produttivo in generale e per la competitività dello stesso; terzo ed ultimo, nonostante gli effetti negativi della “credit misallocation”, questa non ha (per fortuna) influito in modo drammatico, sui tassi di crescita delle imprese più sane. Mi corre l’obbligo di segnalare che il documento contiene molti altri spunti interessanti, sebbene non sia questa la sede per approfondirli. Ciò che conta qui è mettere in luce la prima evidenza: il credito è stato (in generale) mal concesso.
Proviamo dunque a chiederci perché ciò sia avvenuto e, quindi, se il risultato del lavoro della Commissione Banche possa essere strutturalmente efficace, al di là delle polemiche e delle convenienze dei diversi partiti che la compongono. Chiediamoci insomma se e come possa davvero consentire di evitare in futuro gli errori del passato. Perché è evidente che le ragioni della cattiva concessione del credito siano in realtà strutturali e tipiche di un economia estremamente “localistica” e relazionale, propria di un paese, quale è il nostro, in cui a dispetto della dimensione dell’ economia nazionale, il sistema imprenditoriale è tuttora caratterizzato dal “nanismo” e la sottocapitalizzazione, con la diretta conseguenza che l’accesso al credito resta legata pressoché esclusivamente al mercato bancario. Mercato, quest’ultimo, che, in aggiunta alle proprie limitazioni – anche culturali – , quindi si trova a dover operare ammortizzando una serie di disfunzioni che conseguono al capitalismo familiare e relazionale.
Sul Corsera, Federico Fubini rifletteva in proposito con un interessante articolo il 18 dicembre scorso: “Incarichi ai “soliti” per 446 anni. Ecco il potere nelle banche locali”. Le scelte di credito di molte delle banche italiane (per numero non sempre, per fortuna, per importanza o per dimensioni degli attivi) sono state palesemente gestite su base relazionale, anziché sulle analisi dei bilanci, sulla capacità di leggere i business plan in modo critico ed indipendente, sulla conoscenza del business o del settore, del cliente/debitore e, cosa assolutamente da non sottovalutare, sulla effettiva disponibilità, o forse è meglio dire mancanza, di capitale di rischio in misura adeguata.
Dal mio osservatorio parziale e limitato, in quanto mi occupo essenzialmente di aziende in crisi più o meno gravi, posso solo confermare che il sistema delle imprese italiane soffre di sottocapitalizzazione ma, ciò nonostante, il sistema di governance comune permette ai detentori del (poco) equity di continuare a gestire le aziende anche quando, avendolo azzerato a causa delle perdite, non dovrebbero più farlo. In generale se confrontiamo la struttura del capitale della media azienda italiana con quella delle aziende che operano nei mercati più evoluti, la percentuale di vero capitale di rischio (l’equity) è decisamente insufficiente a “garantire” le diverse forme di debito che le imprese assumono, permettendo strutturalmente alla proprietà – come dice Fubini: spesso gli imprenditori che siedono nei consigli delle stesse banche – di giocare con i soldi degli altri che, a seconda dei casi, sono le banche e quindi i risparmiatori o, quando le cose vanno male, quelli del contribuente. Se la Commissione Banche volesse veramente fare un servizio al paese, nonostante il periodo elettorale, a parer mio dovrebbe portare avanti proposte di cambiamenti strutturali e ancor più importante, culturali, che certamente potrebbero incontrare l’ostilità e l’ostruzione di molti (i poteri forti?). Mi riferisco, per esempio, ad interventi come l’introduzione di regole sui parametri minimi per la concessione del credito. Così come avviene nel caso delle banche, che sono obbligate ad avere requisiti minimi di capitale per poter operare, la concessione di credito non dovrebbe essere ammessa in assenza di una capitalizzazione minima (il cosiddetto debt/equity ratio) accettabile. Un’ipotesi di questo tipo, tra l’altro, avrebbe molteplici risultati positivi, sullo sviluppo del nostro sistema economico, a cominciare dallo spinta allo sviluppo di un mercato dei capitali meglio strutturato e più consono alle diverse fasi della vita delle imprese – seed capital, venture capital, fondi di investimento, quotazioni in borsa – tutti elementi che, tra l’altro, porterebbero quasi automaticamente a sistemi di governance più trasparenti e moderni di quelli oggi esistenti. Inoltre sarebbero verosimilmente forieri di una spinta verso integrazioni, fusioni, incremento negli investimenti in capitale di rischio da parte degli stessi imprenditori. Effetti virtuosi che oggi, data la scarsità di investitori istituzionali e considerati anche i rischi di tipo giudiziario (lo shadow management) a cui gli istituti di credito sono (teoricamente) esposti, non possono essere efficacemente promossi.
Un secondo suggerimento potrebbe essere relativo alla modifica del sistema legislativo (civile ma anche penale) che, se da un lato dovrebbe comunque penalizzare – come ogni dottrina economica suggerisce – i detentori dell’equity, quando le cose vanno male, azzerandone di fatto e di diritto il valore (ad esempio assegnando al vecchio equity i certificati partecipativi che invece oggi finiscono nelle mani dei creditori che sono invece i “veri padroni” delle aziende in crisi) – dall’altro potrebbe permettere ai vecchi o ai nuovi creditori delle aziende in crisi, di subentrare nel controllo. Questo, a sua volta, permetterebbe a chi detiene il vero interesse economico di scegliere a chi affidare la guida strategica ed operativa del debitore in crisi, senza il rischio di essere perseguito qualora i salvataggi non andassero a buon fine. In pratica, non solo si penalizzerebbero economicamente gli azionisti delle aziende che non ripagano il debito, ma verrebbe garantito – come accade in tutti i sistemi a capitalismo evoluto – il meccanismo per cui, a cattivi risultati vengano associati cambi radicali di governance aziendale. Uno studio della Bocconi di un paio d’anni fa evidenziava come i cambi nei consigli di amministrazione nelle aziende oggetto di ristrutturazione in Italia siano una minoranza e quelli del CEO ancora meno! Questo cambiamento strutturale e culturale diventa ancora più importante, e da qui l’importanza di una presa di posizione più incisiva da parte della Commissione, in una fase in cui, dopo aver – parzialmente – smaltita la sbornia degli NPL (con i relativi costi per gli azionisti delle banche stesse che sono stati, loro sì – correttamente – penalizzati), le banche dovranno ora affrontare il problema degli UTP (unlikely to pay) che da soli valgono oltre 120 miliardi di euro. Si tratta di aziende ancora vive, ma la cui sopravvivenza e continuità dipenderà da soluzioni studiate caso per caso, che spesso dovranno passare per un processo di cambiamento, accorpamento, fusione, liquidazione parziale, che solo un management professionale e specializzato, indipendente, libero da vincoli con il passato e con una logica di intervento incisiva, seppur pro-tempore, potrà’ portare avanti in modo efficace.
Al di là delle schermaglie politiche che ne hanno definito troppo spesso l’attività e la comunicazione che ne è conseguita, l’auspicio è dunque che la relazione finale della Commissione Banche, anziché concentrarsi sulla “pagliuzza” dei possibili conflitti di interesse, dei possibili mancati controlli, dei conflitti tra regulators, su cui, in caso di comportamenti patologici, dovrà nel caso intervenire la magistratura (e si spera in tempi non biblici), si possa concentrare sulla “trave” delle regole e della cultura, ahimè profondamente errata, del capitalismo nostrano a cui dovranno seguire – difficile determinare quale sia l’uovo e quale la gallina – le future modalità della concessione del credito. Rendere obbligatorio un sano rapporto tra debito ed equity, dove il vero capitale di rischio deve fare la sua parte ed a fronte di questo dovere avere i relativi diritti, favorendo così lo sviluppo di mercati più evoluti del capitale di rischio, concedere ai creditori il potere di assumere il controllo del debitore prima di arrivare al punto di non ritorno della crisi, senza ritardi, remore o timori di interventi della giustizia penale, favorire lo sviluppo nelle banche di una cultura dell’analisi del business plan, sono tutte proposte che, se ben strutturate ed implementate potrebbero fare del lavoro della Commissione una opportunità da non perdere. In sintesi una serie di provvedimenti che, nel loro insieme, permettano un rapido ed efficace allocazione della governance a chi effettivamente rischia il capitale, lasciando sì libera scelta al mercato ma mettendo anche tutti gli attori in condizione di difendere i propri interessi in condizioni di equilibrio. Un ultimo spunto: non dimentichiamoci che negli USA – il mercato più evoluto del capitale anche se ovviamente non perfetto – i CEO delle aziende cambiano mediamente ogni 4 anni!
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