Macroeconomia

Certificati di Credito Fiscale: la “Moneta Fiscale” può risultare utile?

24 Luglio 2017

Mentre l’Europa cerca di far fronte alle innumerevoli (anche se non necessariamente impossibili) sfide che le si parano davanti, l’opinione pubblica, sul tema Euro(pa) si/no, diverge sempre di più. Infatti, nonostante il peggio della tempesta sembri essere passato, la mancanza di slancio politico da parte delle istituzioni europee si riflette soprattutto sui paesi ‘ove la crisi ha impattato con maggiore forza, che versano ancora in una situazione economica debole e poco soddisfacente. Il nostro paese non ne è esente. La crescita stenta a ripartire, e di conseguenza consumi ed investimenti non sono sostenuti dalla necessaria fiducia per essere effettuati.

Non è pertanto un caso che l’insofferenza cresca tra la popolazione, e che la stessa sino ad ora sia stata catalizzata da parte di partiti anti-sistema contro le stesse fondamenta dell’Europa, con risultati a volte inaspettati.

In questo contesto, è stato recentemente rispolverato l’istituto della Moneta Fiscale (in Italia da parte del Movimento 5 stelle).

Sino ad ora i maggiori dibattiti a livello europeo si sono rivelati di natura dicotomica e riferiti prevalentemente al dualismo maggiore/minore integrazione.

Il merito di questa proposta è offrire una soluzione velocemente applicabile e che possa agevolare le manovre degli stati.

Come possono intervenire gli Stati affaticati dall’ultima crisi, ancora vincolati dal totale monopolio centralizzato della politica monetaria ma consapevoli dell’inutilità dell’uscita dall’Euro? Semplice (almeno a detta loro): i GOVERNI CENTRALI potrebbero emettere CCF, strumenti finanziari che conferiscono al portatore il diritto a una riduzione di tasse, tributi e ogni altra obbligazione a favore dello Stato, a partire da due anni dall’emissione dei titoli e pari al valore nominale dei titoli stessi. Vi è un sottile riferimento a “helicopter money”, ma contrariamente a quest’ultimo non prevede alcuna creazione di moneta e quindi agisce nel rispetto del monopolio monetario BCE.

Guardiamolo più da vicino.

 

Come funzionano i CCF?

Per Moneta Fiscale intendiamo qualunque titolo che lo Stato si impegna ad accettare per l’adempimento di obbligazioni fiscali (tasse, imposte, contributi ai sistemi sanitari e pensionistici pubblici, eccetera). E’ un diritto di riduzione degli importi dovuti, quindi un diritto a beneficiare di uno sconto fiscale.

La Moneta Fiscale non rappresenta moneta legale: nessuno, né in Italia né tantomeno in altri paesi dell’Eurozona, è obbligato ad accettarla come forma di pagamento, e lo Stato non si impegna a convertirla in moneta legale. La moneta legale rimane l’euro. Inoltre, non avendo un valore intrinseco, viene definito forfettariamente un controvalore con l’euro secondo un rapporto 1 ad 1.

Oltre alla funzione già anticipata, i CCF permettono la monetizzazione attraverso il loro scambio su un mercato secondario: chi li vende monetizza (come in una normale asta finanziaria) e chi li compra (o riceve direttamente dallo Stato) può alleggerire la spesa per tassazione.

L’idea di base è che l’emissione di questi strumenti sia indirizzata a famiglie ed imprese, in modo tale da “convertirli” in euro e spenderli in consumi o per recuperare competitività.

 

I possibili aspetti positivi

Parrebbero esserci presupposti incoraggianti per l’adozione di questa misura.

I fautori della proposta assicurano che, siccome tale strumento non si configura come passività finanziaria, la spesa pubblica non aumenta e di conseguenza nemmeno il debito. E’ quindi ragionevole pensare che parte dei finanziamenti ad alcuni comparti di spesa pubblica diminuiranno. In tal modo l’efficienza allocativa della stessa spesa pubblica migliorerebbe, incanalando di più e meglio le risorse ‘ove ve ne sia bisogno (ad occhio: istruzione e politiche di contrasto alla povertà).

Inoltre potrebbe essere un buon espediente per sostenere la domanda aggregata, fondamentale per rafforzare la crescita economica: la riduzione del cuneo fiscale potrebbe spingere le famiglie a consumare parte del risparmio che viene generato.

E’ stata anche dibattuta la possibilità di remunerare i lavoratori attraverso questi strumenti. Dal momento che il mercato dei CCF è accessibile a tutti, ne possono usufruire anche le imprese, con lo scopo di abbattere il costo del lavoro (tuttavia, già molto basso nel nostro paese). In tal modo il CLUP ( costo del lavoro per unità di prodotto) diminuirebbe, migliorando la competitività delle imprese e favorendo nuovi investimenti.

 

Non è El Dorado: cosa non quadra

Seppur vi siano diversi aspetti appetibili, questa soluzione non è priva di incertezze ed opacità.

In primo luogo, dato che sono privi di valore intrinseco, sono strumenti fiduciari: è chiaro che il loro appealing può essere minato da un qualsiasi evento che metta in discussione la fiducia dei mercati nei confronti dello Stato. Il valore effettivo di scambio potrebbe diminuire di molto se non azzerarsi, rendendo tale misura del tutto inefficace.

Tuttavia il dibattito più serrato lo si ha circa gli effetti che tale misura ha sul debito. Se da un lato è stata ribadita la neutralità dei CCF rispetto al debito, dall’altro lato ancora molti addetti ai lavori non sono convinti di ciò.

Giuseppe Maria Pignataro (qui) fa notare che, seppur il ricorso a questi strumenti non venga contabilizzato come debito, alla loro scadenza lo Stato dovrebbe comunque fronteggiare un onere sulle proprie finanze pubbliche (minori entrate!). I keynesiani più ottimisti potrebbero pensare che la perdita possa essere rifondata dal circolo virtuoso innescato dai maggiori consumi ed investimenti. Questo keynesianismo “meccanico” non è plausibile: basti pensare che, almeno per ora, la congiuntura economica non è poi così rassicurante da garantire una propensione al consumo delle famiglie e delle imprese così elevata, tale da compensare la perdita di entrate statali di cui sopra.

Anche a livello di politica comunitaria la misura potrebbe incontrare qualche resistenza. A partire dalle istituzioni, che potrebbero vedere nell’adozione dei CCF una non troppo velata delegittimazione del proprio ruolo. Difatti, l’adozione di tale misura implica almeno in parte una forma di protesta nei confronti di alcuni aspetti critici della “convivenza comunitaria”: la non sostenibilità dei parametri di Maastricht, l’assenza di politiche economiche europee d’impatto su disoccupazione e povertà, l’intransigenza a volte eccessiva della Commissione. Per quanto condivisibile, questa presa di posizione non solo lederebbe alla figura delle istituzioni extra nazionali (che di conseguenza reagirebbero), ma potrebbe innescare un circolo vizioso di azioni e discrezionalità da parte dei singoli stati che metterebbe a dura prova la tenuta dell’intera struttura dell’Europa.

 

Seppur risulti interessante per le sue implicazioni macroeconomiche, molti non condivido numerosi aspetti impliciti nell’adozione di questa misura (Ivan Invernizzi di rete MMT lo ha spiegato durante la nostra intervista ). Le problematiche economiche riguardano l’incertezza della manovra, non disponendo di dati certi sull’applicazione dei CCF il rischio è quello di fare un “buco nell’acqua”. Il rischio politico, invece, è di perdere di vista il reale obiettivo che al momento dovrebbe essere perseguito a livello europeo per l’economia: un percorso di riforma che renda più equo e sostenibile per tutti i membri la permanenza nell’Eurozona. Non saranno infatti le prese di posizione univoche ed una tantum a permettere di proseguire il percorso verso questa concezione dell’Europa.   I tempi sono maturi, l’auspicio è che le istituzioni europee tornino a dialogare in maniera costruttiva al fine di trovare soluzioni concrete ai problemi che affliggono il nostro continente. Domani (metaforicamente parlando) potrebbe essere troppo tardi per farlo.

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