Macroeconomia
Bad Bank europea: è così che non ci travolgeranno gli NPL, un’altra volta?
Da qualche giorno si è tornati a parlare di bad bank. Non a livello nazionale, bensì a livello europeo – anche se Banca d’Italia ha recentemente pubblicato un interessante, seppur non del tutto condivisibile, studio sui livelli di recupero mostrate dalle banche italiani nel decennio 2006/15 – . Questo dibattito, molto tecnico e di scarso interesse per la maggioranza del pubblico, pare dimenticare molte delle ragioni che stanno alla base della attuale situazione di eccesso di crediti incagliati ed andrebbe inserito, invece, in quello più ampio, sul ruolo che è stato e che potrebbe essere in futuro ricoperto dalle banche: in Italia (ed in generale in Europa) i principali fornitori del capitale di rischio che manca e, conseguentemente, anche i principali generatori di NPL.
A rischio di diventare ripetitivo, ribadisco la mia posizione in merito: non credo che la costituzione di una bad bank sia di per sé un buon modo per far ripartire il ciclo del credito: se da un lato potrebbe rappresentare la possibilità per le banche europee di disfarsi a prezzi sussidiati di una pesante zavorra, contribuendo a guardare con meno preoccupazione al futuro ed ai prossimi aumenti di capitale, dall’altro, non si capisce perché le banche, una volta alleggerite, dovrebbero poi necessariamente riaprire i rubinetti del credito a debitori con dubbia capacità di rimborsare. A meno che, non si voglia spingere il sistema, con un provvedimento di questo tipo, a generare la prossima ondata di NPL.
Dunque, sono due gli aspetti del problema che, seppur legati tra di loro, vanno, a mio avviso, considerati indipendentemente l’uno dall’altro. Da una parte abbiamo i prezzi sussidiati che la bad bank necessariamente implica, e dall’altra, come far ripartire un circolo virtuoso (e non vizioso) del credito.
Sul primo punto (i prezzi sussidiati) lasciatemi dire che, ovunque si sia costituita una bad bank – e solo per evitare il rischio di essere accusato di possibili conflitti tengo a precisare che Alvarez & Marsal, il gruppo per cui lavoro, ha attivamente partecipato alla creazione delle maggiori bad banks europee – la principale ragione per la costituzione di tali strutture è stata proprio quella di contribuire a ridurre la differenza tra i valori di carico ai cui le banche, spesso venditrici obbligate, avevano a bilancio le posizioni e il prezzo riconosciuto dal mercato e, di conseguenza, a lenire, almeno parzialmente le perdite sulle cessioni delle sofferenze. La logica delle Bad Banks è, d’altra parte, sempre stata quella di “parcheggiare” i debiti inesigibili in una entità diversa e separata, in attesa di tempi migliori, intendendo con ciò un miglioramento dei prezzi di mercato vigenti o di quelli impliciti degli per gli assets sottostanti, nel caso di crediti garantiti da beni reali. Esempio tipico è la Sareb spagnola in cui sono confluiti gran parte dei crediti legati al mercato immobiliare quando questo si è del tutto arenato. Quello che però mi preme sottolineare, che non tutti, pare, vogliano accettare, è che la Bad Bank altro non è che un sussidio, neanche troppo implicito, che il sistema ( inteso come chi?) garantisce a chi ha sbagliato a concedere i crediti (quindi le banche stesse) e, a chi ha definito le politiche di accantonamenti che gli erogatori di credito avrebbero dovuto considerare a fronte della rischiosità dei loro impieghi (quindi sia le banche che il regolatore stesso).
A questo proposito è interessante analizzare quanto emerge dallo studio di Banca di Italia “I tassi di recupero delle sofferenze – Note di stabilità finanziaria e vigilanza N° 7 Gennaio 2017” che, a sua volta, si basa sui dati della Centrale Rischi: in esso si evidenzia come nel decennio 2006 – 2015 il tasso medio di recupero delle posizioni (NPL) chiuse, si sia attestato al 43%. In realtà tale valore è un mix tra un 55% per i crediti assisti da garanzie reali ed un 36% per le altre posizioni. Banca d’Italia, a dire il vero con un po’ di malizia, la stessa che ha forse accompagnato i recenti commenti sul tema del Governatore Visco, evidenzia un ampio gap tra il tasso medio di recupero e quel 23% che viene indicato come il valore che mediamente è stato riconosciuto da chi ha acquisito portafogli di NPL dalle banche. Certamente, come rileva lo studio anche con apprezzabili considerazioni tecniche, il gap è notevole ma, visto che siamo in teoria in un mercato aperto e libero, mi pare che nessuno si ponga il problema del perché la libera concorrenza non faccia sì che questo si vada progressivamente riducendo a causa della concorrenza. Chi ha cercato di proporsi come investitore alternativo ed a condizioni migliori (per le Banche), come il fondo Atlante, ha finito per essere esso stesso fonte di perdite e svalutazioni nei bilanci dei propri azionisti (sempre le Banche oltre che la CdP). Peraltro, se i tassi di ritorno che gli investitori oggi interessati chiedono, fossero così attraenti, non si giustificherebbe la quasi totale assenza di investitori italiani nel settore (attenzione investitori, non servicer, che è molto diverso). Visto il volume di risparmio oggi in cerca di rendimento – in Italia così come all’estero – se i prezzi a cui gli NPL possono essere acquistati fossero così interessanti, perché dunque non assistiamo al fiorire di nuovi operatori specializzati pronti a mobilitarsi per acquistare questo ben di Dio e quindi a far salire i prezzi? Siamo davvero sicuri che il mercato si sbagli e che i fondi locusta siano solo degli approfittatori? Io non credo e, per il momento i fatti lo dimostrano.
Proviamo ora ad approfondire le differenze che potrebbero distinguere un <<circolo virtuoso del credito>> dal suo contrario, il <<circolo vizioso>>: qual’è il vero motivo che impedisce una ripartenza del ciclo del credito – che peraltro mi pare ultimamente stia comunque dando qualche segno di vita? Io credo che non sia tanto la mancanza della disponibilità a concedere nuovi prestiti, cosa che, casomai, ne sarebbe la conseguenza, ma sia invece la scarsa competitività – fatte ovviamente le debite e per fortuna ancora numerose eccezioni – di una parte non irrilevante del tessuto economico di un paese, l’Italia, e più in generale di un continente, l’Europa. Con una popolazione vecchia (che quindi consuma poco se non servizi, quali quelli sanitari e pensionistici, per lo più a carico della comunità), con un mercato del lavoro ingessato e non competitivo, con una propensione all’investimento ed all’innovazione modesta (dove in Europa si può trovare un equivalente di una Silicon Valley?), con aziende mediamente di dimensioni limitate rispetto ai competitors internazionali pare infatti difficile presentarsi agli erogatori di credito con un profilo creditizio interessante.
In questo quadro le nostre banche (ma non solo esse) – che non dimentichiamolo rappresentano la maggioranza dello stock di capitale investito in una economia storicamente sottocapitalizzata che, per ragioni ataviche (ed ahimè spesso patologiche) mai si è voluta aprire alla trasparenza necessaria allo sviluppo di un vero mercato dei capitali – hanno due grandi responsabilità: la relativa mancanza di una visione di business di medio periodo. Detta brutalmente, esse hanno una (relativamente) scarsa capacità di guardare al proprio debitore in un’ottica industriale e di sviluppo e gestione del business. Con il progressivo cambio del modello organizzativo (chi come me è vecchio ricorderà i c.d. settoristi che sapevano tutto o quasi del settore in cui operavano i propri clienti) la volontà prima di tutto di chiedere e poi di valutare in modo autonomo e critico un business plan è progressivamente venuta meno. A ciò consegue, quasi inevitabilmente, una scarsissima spinta a forzare i propri clienti verso modelli di business più moderni, aperti, manageriali, tesi alla aggregazione non di tipo federale (tipo i distretti) ma al consolidamento di un settore facendo evolvere le tante piccole aziende in veri campioni nazionali di dimensioni paragonabili a quelli dei leader di mercato, al superare insomma il vecchio detto del <<piccolo è bello>>.
Viceversa, le banche potrebbero svolgere un compito nel proprio interesse ed, al contempo, di quello del Paese. Dovendo, ahimè, parzialmente farsi carico di un ruolo che, in un mercato dei capitali aperto e trasparente, dovrebbe toccare agli azionisti di maggioranza e di minoranza, compresi i cosiddetti <<fondi activist>>, ora molto in voga, le banche, potrebbero essere il motore di fondo di un cambio di cultura ormai assolutamente necessario per <<stare sul mercato>>.
Ma vi immaginate un banchiere che risponda ad un imprenditore nostrano bisognoso di un finanziamento a medio lungo termine: “vuoi un prestito? ebbene prima di dartelo voglio vedere un piano industriale (fatto da un terzo indipendente), che mi dimostri che tra x anni starai ancora sul mercato, che permetta all’azienda di posizionarsi a livello di prodotto e dimensionale in modo competitivo con i principali concorrenti internazionali, che magari preveda un percorso di crescita attraverso fusioni o acquisizioni che le permettano di avere una massa critica sufficiente per non essere esposto alla prima flessione del mercato. E, nel frattempo, fammi capire che sei disponibile ad aprire il capitale a nuovi soci, magari quotandoti, e possibilmente a delegare la gestione a manager esterni e professionali…che, a differenza dell’azionista di maggioranza, se sbagliano, possono essere sostituiti.”
Prevengo la critica di molti amici banchieri che, sono sicuro, ribatteranno, teoricamente a ragione, che questo non è il compito di un creditore, bensì quello degli azionisti e, per quanto di propria competenza – che non è marginale – di un governo che eserciti le sue funzioni di definizione di politica economica. Purtroppo mi pare sia evidente come, in assenza di questo tipo di sollecitazioni da parte di coloro che oggi in Italia sono i principali, per non dire quasi gli unici, portatori di capitale, le scelte conseguenti alle prevedibili risposte non soddisfacenti, qualora si privilegiasse l’interesse degli azionisti delle aziende di credito, potrebbe essere solo una: la non riapertura del credito se non ai pochi che lo meritano davvero. Ma se guardiamo solo gli aumenti di capitale che il sistema bancario italiano ha intrapreso o sta per intraprendere come conseguenza di questa mancanza di leadership economica e culturale, direi che la capacità di erogare maggior credito che tutti auspicano sta rischiando, a meno di un radicale cambiamento delle logiche e della cultura sottostante la attività dell’erogazione del credito, di condurci invece a preparare il terreno alla prossima ondata di NPL, che, tanto per cambiare, finirà per gravare ancora una volta sulla comunità (Banca MPS e banche venete docet).
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