Macroeconomia
L’unica soluzione possibile per far volare ancora Alitalia
L’idea (industrialmente balzana) di nazionalizzare Alitalia coinvolgendo per di più le ferrovie e le poste è passata in sordina, mentre l’attenzione dei media si concentrava sulle baruffe governative relative alla prossima legge di stabilità.
Sembra però che nella missione di Di Maio in Cina, il dossier Alitalia sia ben in evidenza e il che apre prospettive diverse da quelle che sembrano prevalere negli annunci del governo.
Alitalia è sempre stata – non foss’altro per la localizzazione fisica dei suoi headquarters– un campo di notevoli intromissioni politiche. Questo ha fatto sì che, almeno negli anni precedenti, l’avvento della cordata dei Capitani Coraggiosi di Berlusconiana memoria (2009), il vettore nazionale sia stato un buon esempio di “raccomandificio”.
Successivamente alla decisione, economicamente scellerata, dell’allora neo (ri)eletto Berlusconi di rifiutare l’offerta presentata da Air France/KLM, il costo del lavoro di Alitalia si è stabilizzato ad un livello inferiore a quello della stessa compagnia francese, di Lufthansa e di British Airways ed è sostanzialmente allineato a quello della low costspagnola Vueling, aggirandosi oggi nell’intorno del 17% (Il Fatto, 6 giugno 2017). Un buon punto di partenza anche se varrebbe la pena di scavare un po’ più a fondo.
Se consideriamo il costo per chilometro volato, se cioè guardiamo alla produttività del personale, qui, pur non disponendo di dati fattuali, la musica pare cambiare. Secondo indicazioni numericamente non confermate, questo secondo e ben più rilevante fattore, sposterebbe Alitalia decisamente più in basso nella classifica, in termini di competitività. Difficile quindi affermare che il costo del lavoro sia oggi il vero punto debole di Alitalia anche se i miglioramenti possibili potrebbero essere notevoli. Non è neppure un problema di mercato che per il momento continua a crescere (+ 6.2% 2017 sul 2016, fonte ENAC) anche se con unosharesempre maggiore dei passeggeri italiani ad appannaggio delle low cost, Ryan air in primis. I veri problemi sono oggi rotte ed aerei, come è stato ben sintetizzato da uno studio pubblicato recentemente dal Corriere della Sera (Leonard Berberi – I numeri della crisi di Alitalia) che fa eco ad uno studio molto più approfondito della Università Statale Milano Bicocca (“Alitalia ed il mercato del trasporto aereo”).
Nel mondo del trasporto aereo oggi in Europa guadagna chi opera con uno di due modelli di business ben chiari e non sovrapponibili: esclusivamente su rotte a corto o medio raggio con il sistema low cost (Ryan Air, Easyjet, Vueling solo per fare i nomi più conosciuti) oppure, il modello dove il corto e medio raggio sono utilizzati come feeders, al meglio in precario equilibrio economico, per il lungo raggio, per il momento ancora generatore del vero profitto. Questo è il modello di business delle tre grandi compagnie Europee: IAG (British Airways che ha acquistato anni fa anche Iberia oltre altre compagnie locali), Lufthansa che ha acquisito, spesso dalle procedure fallimentari quali quella in cui si trova oggi Alitalia, svariate compagnie europee (una volta “di bandiera” quali Swiss, Austrian, LOT ed infine la vecchia “promessa sposa di Alitalia” Air France che ha incorporato KLM. Tali compagnie hanno anche spesso un ruolo preminente nei grandi gruppi di alleanze internazionali – Alitalia fa parte di Skyteam – che a tutti gli effetti sono nate per fidelizzare la propria clientela ma che, nel tempo, si sono evolute al fine di coprire quante più destinazioni possibili senza farsi eccessiva concorrenza ed ottimizzando quindi investimenti e costi di struttura.
Questo modello al momento ha poche eccezioni, tra cui quello forse più eclatante è il caso di Emirates. Questa, pur non avendo un vero mercato domestico, fa, nella sostanza, da collettore dell’intero bacino di utenti del Golfo nonostante la presenza di alcune compagnie quali Etihad e Saudia. Emirates ha cioè sviluppato un modello di business incentrato su un esteso network di rotte a lungo raggio a cui associa l’offerta di un livello di servizio decisamente superiore a quello dei concorrenti e, spesso, di prezzi inferiori per i passeggeri che accettano di utilizzare l’hub di Dubai come porto di transito verso le destinazioni più disparate.
Il modello del lungo raggio rischia però ora di subire una trasformazione radicale simile a quella vissuta dal traffico aereo di corto e medio raggio in Europa, a causa dell’operatività delle nuove low costsul lungo raggio (dallo scorso anno Norwegian Air vola da Madrid e recentemente anche da Roma con prossime aperture anche da Milano così come da altri hub europei sugli USA).
Stiamo quindi assistendo all’insorgere di nuovi modelli di business che potrebbero portare radicali cambiamenti nel settore ed alla necessità di futuri adeguamenti anche per i modelli che per il momento hanno mostrato di funzionare con successo.
Se torniamo alla storia di Alitalia, non possiamo passare sotto silenzio il fatto che i Capitani Coraggiosi abbiano invece indirizzato Alitalia verso un modello non competitivo e che alla fine si è rivelato fallimentare, focalizzato sul corto raggio. Hanno in sostanza indirizzato una compagnia con una struttura di costi decisamente non lowa competere con le low cost. Le ragioni di questa scelta sono ascrivibili a molti fattori tra cui il principale è probabilmente legato mancanza di liquidità di un azionariato lungi dall’essere strategico e quindi incapace di mettere a disposizione le risorse necessarie ad investire in aerei e nella logistica necessaria a servire un ampio network di lungo raggio. Ancora oggi, nonostante gli indubbi passi avanti, la struttura dei costi di Alitalia è legata a quelle delle linee aeree tradizionali e per di più penalizzata dall’eccessivo costo degli aerei, per la maggioranza in leasing; la palese conseguenza è che Alitalia non potrà mai competere con una vera low cost. Anche il tentativo di appoggiarsi ad un network più esteso – quello di Etihad – è fallito visto che la stessa Etihad non è mai riuscita a fare veramente concorrenza a Emirates e che quindi l’ipotesi di usare Alitalia come feeder del network di Etihad non ha mai veramente funzionato.
Se quindi, come si desume dai numeri, lungo raggio ed investimenti in aeromobili e network sono i principali problemi del vettore italiano, è decisamente difficile comprendere come, l’entrata nel capitale di FS e di Poste (che già fu obbligata ob torto collo a (ri)metterci dei soldi qualche anno fa) possa risolvere i problemi di Alitalia.
Peraltro, anche l’eventuale entrata nel capitale di una linea aerea cinese – che pare essere nei piani dell’attuale governo e che quindi giustifica la supposta attenzione del vice premier Di Maio nel corso del suo recente viaggio cinese e che, ai sensi della vigente legge europea, non potrebbe comunque che acquistare il 49% di Alitalia – non si vede come potrebbe risolvere i due problemi chiave. Non dimentichiamo poi che il medesimo progetto era già stato accarezzato e successivamente abbandonato dal Governo Prodi che, a suo tempo, aveva inviato il suo emissario Tononi in avanscoperta con i principali player cinesi.
Capisco che l’offerta di Lufthansa, sintetizzabile in un “siamo disponibili a comprare solo dopo che Alitalia sarà stata ripulita” possa non apparire come entusiasmante, ma temo che sia ormai l’ultima spiaggia per garantire una qualche forma di sopravvivenza alla (ex) compagnia di bandiera. Entrare a far parte di un gruppo come quello di Lufthansa, e farlo in fretta prima che i tedeschi cambino idea, anche a causa delle menzionate evoluzioni del mercato, potrà non piacere ai dipendenti di Alitalia ed al nostro governo sovranista e che aborrisce la dipendenza da un concetto paneuropeo – figuriamoci quello di un padrone tedesco – ma pare veramente essere l’unica possibilità di preservare un minimo di valore. Difficile infatti vedere Salvini e Di Maio “vendere” alle loro rispettive basi elettorali come una vittoria, la vendita di Alitalia a Lufthansa. Eppure, priorità elettorali a parte, pare difficile pensare veramente di presentare ai cittadini che hanno già dovuto sopportare costi che, stime indipendenti, valutano in eccesso in 10 miliardi di Euro (dati approssimativi e non confermati) e che ancora oggi, viaggiano ad oltre 80 milioni di Euro l’anno per la cassa integrazione dei dipendenti messi a riposo, il conto di una nazionalizzazione di Alitalia che è invece quello che l’entrata nel capitale di FS e di Poste rappresenta. Lufthansa potrebbe essere l’ultima chance per far volare ancora Alitalia, meglio valutarla… tenendo i piedi per terra.
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