Finanza

A chi piace lo Spread in Europa

13 Settembre 2016

Periodicamente nel dibattito sul problematico futuro dell’Unione Europea (Ventotene docet) rispunta come un tormentone la narrativa sulle “riforme strutturali”. Il Presidente Draghi le ripropone come misura definitiva per poter superare definitivamente la crisi ad ogni discorso ufficiale. Anche  l’8 settembre scorso a Francoforte si è riparlato con forza di interventi strutturali nel discorso con cui Draghi ha lasciato invariati i tassi di interesse, pur lasciando aperti tutti gli spiragli per un ulteriore abbassamento o per un potenziamento del Quantitative Easing.

È chiaro che le riforme sul piatto sono parecchie e non sono certo tutte uguali. Particolare trazione stanno avendo le riforme urgenti su temi delicati quali la gestione del debito pubblico e delle crisi bancarie. Clausole restrittive sui titoli di Stato ed aspre regole prudenziali nel settore bancario: primo sponsor la Bundesbank ma ora anche il governo tedesco, per mano del Consiglio degli esperti economici, rincara la dose con una proposta che con tutta probabilità riporterebbero lo spread in primo piano. Il caro vecchio spread, messo ora (temporaneamente) nel dimenticatoio grazie alle misure non convenzionali  di Draghi (OMT, TLTRO e Quantitative Easing, cfr. Figura 1), potrebbe uscirne rafforzato.

Figura 1

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Vediamo meglio di cosa si tratta. La vecchia proposta della Bundesbank, che viene rilanciata ora dal governo tedesco, prevede che ogni nuova emissione di titoli governativi dell’Eurozona abbia una clausola di ristrutturazione automatica del debito in caso di richiesta formale di bail-out al fondo Salva-Stati, l’ESM. Si tratta tecnicamente di un’operazione di reprofiling, con un allungamento delle scadenze di almeno 3 anni e la sospensione delle cedole ancora da pagare, già applicato (con esito discutibile) nel caso della ristrutturazione del debito greco nel 2012. Ma c’è di più: se dopo il programma di assistenza finanziaria i Paesi in difficoltà non dovessero risolvere i propri problemi, il debito verrebbe forzatamente ridotto tramite un haircut, cioè un taglio, più o meno drastico, del valore nominale (nella vicenda greca fu intorno al 50%, in pratica un default assistito).

Per capire dove possano essere i benefici di simili clausole e chi possa averne utilità, è necessario evidenziare che con questa modalità di ingaggio, il Fondo ESM risulterebbe più protetto perché non dovrebbe sborsare i fondi necessari a rifinanziare il debito in scadenza del Paese in difficoltà. Invece i detentori di titoli di Stato sarebbero messi peggio, dato che sarebbero esposti completamente al rischio di credito del governo. In altre parole, i benefici derivanti dalla presenza del fondo ESM sarebbero completamente annullati e per gli Stati varrebbe una disciplina del bail-in (come quella delle banche) che tradotto vuol dire cavarsela da soli. Inoltre, il maggiore rischio sui titoli di Stato implicherebbe la richiesta di un maggiore rendimento volto a compensare il rischio aggiuntivo cui è esposto l’obbligazionista, con conseguente aumento della spesa per interessi sul debito.

Ça va sans dire, la “riforma” a firma tedesca andrebbe a penalizzare quei Paesi che hanno una più elevata probabilità di richiedere l’aiuto dell’ESM (e l’Italia è sicuramente nella lista); al contrario la Germania otterrebbe i maggiori benefici poiché i suoi titoli sono percepiti come safe haven, e dunque non subirebbero nessuna crescita dei rendimenti. Anzi, il rischio più basso sostenuto dall’ESM ridurrebbe le perdite potenziali della Germania in forza del suo ruolo di maggiore garante del Fondo.

È evidente che un aumento dei rendimenti sui titoli di Stato dei Paesi Periferici ed una discesa dei titoli tedeschi implicano un solo risultato: una nuova impennata dello spread.

Certo alla Bundesbank ed al gruppo di esperti del governo tedesco piace l’idea di trasferire i rischi, preferibilmente lontano dalla loro economia. D’altronde l’attuale architettura del Quantitative Easing con la discussa ripartizione del rischio fra le Banche Centrali Nazionali dell’Eurozona è un’idea partorita proprio come “risultato dello sforzo della Bundesbank per prevenire una mutualizzazione occulta dei debiti pubblici attraverso l’utilizzo dei bilanci delle banche centrali”. Si tratta della famigerata capital key che sta creando tanti grattacapi al programma di acquisto titoli di Draghi. Peccato che questa regola rischi di far “saltare” letteralmente il QE per via della scarsità di titoli tedeschi da acquistare, secondo alcuni esperti addirittura entro fine 2016. Nei mesi scorsi sono circolate insistentemente voci che vedevano rimosso il criterio della capital key. Anche se sono state prontamente smentite dai proclama ufficiali, quelle voci si stanno riproponendo insistenti.

Difficile dire che sorte potrà toccare alla “riforma” dei titoli di Stato. Allo stato attuale non sembra che le chances di successo siano tantissime, visto lo stop che la Germania ha dovuto incontrare sull’altra chiacchieratissima “riforma” sponsorizzata da Schäuble che avrebbe colpito i titoli di Stato e cambiato la loro valutazione nel bilancio delle banche. Complice lo shock Brexit, il ministro Padoan ha avuto gioco facile nel convincere l’Eurogruppo a rimandare la proposta tedesca al 2019. Attualmente la normativa comunitaria prevede che i titoli governativi siano considerati come “privi di rischio” e non richiedano assorbimento di capitale, cioè l’appostamento di riserve di liquidità da utilizzare in caso di eventuali perdite: quindi non c’è spread almeno nei bilanci delle banche. La riforma dovrebbe porre dei pesi differenziati sui titoli a seconda della loro rischiosità. Anche in questo caso, ciò implicherebbe una discriminazione in senso sfavorevole per i titoli dei Paesi periferici; le banche dovrebbero dunque aumentare le proprie riserve di liquidità o essere costrette a ridurre la quota di titoli governativi nazionali in portafoglio.

Facciamo un esempio. Nel 2015 circa il 95% del portafoglio di titoli governativi detenuto da tutto il sistema bancario italiano, pari a 615 miliardi di € era composto da BTP. Supponendo per i titoli governativi italiani una ponderazione per il rischio (il c.d. “risk weighting”) standard al 50%, la riforma di Schäuble  comporterebbe richieste di capitali freschi necessari a rimpinguare le riserve per le banche italiane pari ad almeno di 23 miliardi. Considerato il livello quasi record delle sofferenze lorde ad agosto 2016 (202 miliardi) e la situazione border-line di tutto il sistema bancario nazionale che nei prossimi mesi dovrà mettere a segno aumenti di capitale per un importo complessivo di oltre 10 miliardi, non c’è dubbio che ulteriori, pesantissime ricapitalizzazioni metterebbero un freno alla stitica ripresa del credito che osservavamo solo qualche settimana fa.

D’altronde anche se la macchina “bellica” delle riforme made in Germany è temporaneamente in stand-by, io non starei così tranquillo. Il peso istituzionale tedesco continua a tenere in stallo il Fondo interbancario europeo di garanzia sui depositi, che sarebbe di vitale importanza per stabilizzare la situazione delle malandate banche nostrane.

Una cosa è certa: il motivo per cui gli esperti economici tedeschi hanno diffuso ora il loro report sul progetto di ristrutturazione dei debiti pubblici modello-Grecia è che (almeno sulla carta) il QE di Draghi è agli sgoccioli. Mancano infatti pochi mesi alla fine ufficiale del programma (marzo 2017). E allora o la BCE continuerà a “dopare” l’Eurozona inondando le banche di liquidità che non rende ma contiene (si fa per dire) il loro fabbisogno di capitale o il re si mostrerà nudo e lo spread riesploderà. Magari stavolta per meno tempo. Perché, come pensiamo in molti, al di là delle proposte tedesche, è evidente che la rete di sostegno dell’ESM ha falle troppo grosse per aiutare efficacemente un Paese con un debito-monstre come quello italiano. Questo vuol dire che – dopo aver bruciato i fondi dell’ESM con buona pace della Germania – il rischio di default potrebbe comunque palesarsi dietro l’angolo. A meno che– non si accetti di avere una BCE un po’ meno avversa al rischio del debito pubblico dei Paesi Periferici, facendo saltare la capital key.

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