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Volete far crescere dei piccoli prostituti? Spingete i figli a “relazionare”

29 Marzo 2017

Relazionarsi è un’attitudine. Ce l’hai o non ce l’hai. Nel grande mondo di chi “non ce l’ha”, qualcuno ogni tanto prova il grande sbarco. Prova a sfilarsi dalla sua condizione un po’ sfigata, per vivere l’altra. L’altra è ottantaottantacinque per cento fuffa improduttiva, ma non importa: resta un quindici-venti di “roba” seria da aggredire e devi esserci se vuoi che una buona occasione possa trasformarsi in solida realtà. Chi relaziona invece in modo militare vive un «prova a prendermi» continuo e costante, è già predisposto sin dalle prime ore dell’alba, perché relazionarsi è un vero, secondo mestiere (ammesso che tu abbia il primo). Spesso è l’unico mestiere. In fondo il buon Nanni aveva già visto e detto tutto.

 

 

Chi non relaziona, chi non ne ha attitudine, non è automaticamente più virtuoso. Né moralmente più apprezzabile. Del resto, di che menare vanto se mandi costantemente a cagare ora questo ora quello? È piuttosto una condizione dell’anima, come ce ne sono tante altre. È la tua vita, l’hai scelta per te, mica dev’essere un rito collettivo. Ecco, forse chi non relaziona una cosa buona ce l’ha: non è consociativo, non pretende consenso, non gli interessano gruppi di riferimento, piccoli popoli adoranti.

L’unica, grande, enorme questione che la metafora del calcetto ci pone davanti agli occhi è, semmai, cosa dire a chi verrà dopo di noi. Noi ormai siamo persone fatte, i nostri ragazzi forse ancora no. La tentazione, da quel che si percepisce in giro, è che chi non relaziona e ha passato una vita a non relazionare, oggi sia assalito dal dubbio d’aver sbagliato. È un dubbio impuro, perché inquinato alla radice: deriva dal lavoro giovanile che non c’è, vero tormento collettivo. Non è un dubbio in purezza. Persone che solo attraverso il merito hanno conquistato qualcosa, anche fosse solo un dignitosissimo posto di lavoro, temono che il merito non sia più sufficiente in questa Italia. Se poi te lo certifica il ministro, meglio mi sento. Per cui, volgersi al proprio bimbetto e sollecitarlo alla relazione. Ad uscire dal guscio, a “fare cose”, “vedere gente”. Fare cose e vedere gente è bellissimo, intanto. Ma sempre che non sia scientifico, strategico, mirato. C’è una scena ne «La grande bellezza» che in qualche modo ha un’attinenza precisa con la questione di cui parliamo. Dopo aver fatto l’amore, Isabella Ferrari dice a Jep che si fa continuamente un sacco di foto, tutti i momenti, e che i suoi amici di Facebook dicono che sono bellissime: “Le vuoi vedere?”. Jep non si nega, ma appena lei si allontana per prendere il computer, si riveste e lascia la casa: «La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare»

 

https://www.youtube.com/watch?v=APjToLWwh3U

 

Il punto in fondo è semplice e anticiparne la consapevolezza di qualche anno rispetto ai 65 di Jep Gambardella non sarebbe poi tanto male. Perchè costringerti a fare una cosa che non ti va di fare, perchè andare a una cena con gente di cui in realtà hai scarsa considerazione, perché bere pinte di caffè ruffiani, perché congegnare le giornate sugli spostamenti degli altri in modo da incontrarli “casualmente”, perché rovinarsi il fegato con le probabili umiliazioni di complemento? È persino faticoso dover dire che altrove hanno il coraggio civile di assumerti senza neppure averti visto in faccia, ma avendo semplicemente approfondito le tue proprietà professionali. Se poi invece tutto questo ti piace moltissimo e scopri con il passare dei giorni che non faresti altro nella vita, bene, hai trovato la tua strada. Auguri.

E a proposito di umiliazioni. Nel sistema di relazione è un sentimento che fa parte del gioco, da una parte c’è un potente, dall’altra un (molto) meno forte, al quale tocca il peso della condivisione quasi totale delle coglionate del potente (il problema è esattamente questo: condividere le coglionate. Perché le cose intelligenti si condividono in sé. Qui sta il piccolo dramma umano). Vi rimanderei a una memorabile sequenza di «Una vita difficile», capolavoro di Dini Risi, in cui Magnozzi da giovane giornalista di belle speranze si è trasformato nel segretario tuttofare di un industriale di “relazione”.

 

 

Una vera buona scuola porterebbe i ragazzi a Roma per ammirare certe piazze, piazze meno architettoniche dove si esercita l’arte della relazione, dove si camuffano storie, si ingigantiscono meriti, si maneggiano appalti, luoghi eletti per distorcere quella bubbola sempre più stinta delle pari opportunità, che qualche anima bella si ostina pervicacemente a sostenere. Per cui, cari genitori, se questa è ciò che pensate utile per i vostri ragazzi, mettete tranquillamente nel conto di formare dei sottomessi, dei piccoli, insignificanti, prostituti intellettuali tra le braccia di modesti potenti. Ne vale davvero la pena? Per chiudere in maniera leggera, come direbbe la Gialappa: «Chi dice ai suoi figli che le relazioni sono belle è un sacripante!». Per me, più modestamente, è solo una povera anima.

 

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