Lavoro

Vittimisti e Speranzosi: i numeri della ripresa in Italia

3 Giugno 2015

Si fa presto a parlare di ripresa, ancor di più se – dati alla mano – non ci si sofferma sul significato effettivo dei termini chiamati in causa per definire lo stato di occupazione.

Come mai sembra essersi creato un cortocircuito fra quanto viene comunicato dai media e quello che ogni giorno sperimentiamo nella vita reale? Stiamo vivendo una fase di ripresa oppure stanno solo cercando di convincerci della cosa?

Occupazione, disoccupazione, inoccupazione sono le parole chiave del “discorso sul lavoro” che ogni giorno anima i quotidiani, ma spesso vengono interpretate in modo approssimativo polarizzando la percezione dei lettori fra sentimenti di scoramento e sconforto per un’economia al tracollo e una completa fiducia nella ripresa. La realtà invece possiede un’ampia gamma di sfumature intermedie ed è in questa “medietà” che si aggira, allo stato attuale, una buona fetta dei nuovi lavoratori dipendenti e autonomi italiani.

Per lo stato italiano infatti sei considerato inoccupato se, non avendo mai svolto alcuna attività lavorativa, sei alla ricerca di un lavoro da più di 12 mesi. Sei invece disoccupato se hai svolto attività lavorativa riconosciuta (non vale quella “in nero”) e hai perso il lavoro, se hai un reddito lordo da lavoro dipendente che non supera gli 8000 euro lordi l’anno (4800 lordi in caso di lavoro autonomo), se hai lavorato solo per 8 mesi (4 se sei al di sotto dei 25 anni o se sei in possesso di diploma universitario fino ai 29 anni compiuti). Tutto il resto rientra nella categoria dell’occupazione. Ciò significa che, ad esempio, un lavoratore autonomo che matura un guadagno annuo di 5000 euro lordi è considerato occupato, così come un dipendente da 8500 euro annui.

Questo a fini statistici sia per quanto riguarda i dati occupazionali, sia per quanto riguarda i report di scuole superiori e università (spesso presentati in sede promozionale durante le giornate di orientamento) sull’indice di occupazione dei vari corsi di studio.

Nessun dato falso, nessun errore in quanto riportato dai media: l’economia italiana negli ultimi mesi è in ripresa.

Quindi come mai i giovani rimangono in casa con i genitori o vengono da loro costantemente sostenuti? Come mai tante attività continuano a “patire la crisi” perché a fronte di una ripresa dell’occupazione manca una parallela ripresa dei consumi? Siamo forse un popolo di vittimisti?

Uscendo per un momento dallo psicologismo di chi definisce l’Italia un paese “vecchio” e per questo incline a conservare il patrimonio più che a investirlo qualora si renda disponibile, forse occorrerebbe fare qualche riflessione sulla “qualità” – e non solo sulla quantità – dell’occupazione in Italia.
Considerando infatti che a fini statistici (e per i centri dell’impiego) una persona impiegata (full time o part time) con stipendio di 9000 euro lordi l’anno è occupata, non risulta difficile capire in quale punto si crei la sfasatura fra percezione e realtà. Con 9000 euro lordi l’anno non si può essere autonomi. Calcolando infatti il costo della vita (affitto, alimentazione, vestiario, servizi di trasporto e comunicazione), anche senza includere beni non di prima necessità (dimentichiamoci pure vacanze, palestre, ristorazione, cultura) e le entrate effettive mensili, con uno stipendio del genere non si sopravvive. A meno che non si sia inseriti in una rete familiare di sostegno, il che significa mancata autonomia. Lo stesso vale per i lavoratori autonomi, solo che la cifra è – in questo caso – al ribasso.
Allo stesso modo, per quanto riguarda invece la “falla” nei report occupazionali delle università, si dovrebbe approfondire la qualità dell’impiego del laureato in rapporto al suo percorso formativo. Un laureato in giurisprudenza che lavora come commesso part time in un supermercato – ad esempio – e guadagna 10000 euro l’anno, è considerato occupato e finirà nei valori “positivi” del corso di laurea in rapporto all’indice laureati/occupati. Ma c’è bisogno di una laurea in giurisprudenza per essere assunti in quel ruolo? O meglio, la laurea in giurisprudenza è stata condizione sine qua non per l’assunzione?
La mancata analisi dei numeri porta infatti a uno scollamento nella percezione della situazione economica generale, ma – allo stesso tempo e forse cosa ben più grave – ad indirizzare in modo errato le scelte dei più giovani. Il disorientamento nell’informazione, non adeguatamente compensato da politiche di orientamento al lavoro e alla formazione, genera dunque una frattura, che si acuisce – man mano che si avanza con l’età – in frattura generazionale e mancata comprensione del problema di un welfare completamente in carico alle famiglie.
Appare dunque evidente e urgente l’avvio di un dibattito approfondito e non puramente statistico sui “numeri” dell’occupazione in Italia (dimenticandoci per un momento delle facilonerie da bar e della polarizzazione fra “vittimisti” e “speranzosi”). Occupazione che cresce sì (e questo è già un ottimo risultato), ma non si capisce in “che verso”.

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