Lavoro
Vi meritate l’alternanza scuola-lavoro: adesso, pretendetela
Prendiamo sul serio le ragioni che qualche giorno fa hanno spinto gli studenti medi (e universitari) a scendere in piazza a manifestare contro l’alternanza scuola-lavoro e diamo risposte all’altezza delle loro richieste.
Pretendete che le vostre scuole siano preparate per mettervi nelle condizioni di poter accedere nel migliore dei modi all’esperienza di alternanza scuola-lavoro.
Pretendete di essere coinvolti nella definizione dei progetti di alternanza e assumetevi la responsabilità di prepararvi per farlo.
Pretendete che in piazza non si dica «siamo studenti non siamo operai», perché gli operai non se lo meritano. Né quelli di oggi, che alcuni di voi conoscono solo per sentito dire. Né quelli di ieri, che si sono battuti per provare a darvi un futuro migliore: «anche l’operaio vuole il figlio dottore», è stata una delle sintesi più efficaci di quel movimento di idee.
Pretendete che vi venga spiegato qual è «il nesso tra gli studi scientifici e la cottura di un hamburger»: non cadete nell’imperdonabile errore di dare per scontato che questo nesso è necessariamente assente e leggete con attenzione la riflessione che qualche giorno fa Massimo Gramellini ha fatto sul Corriere della Sera.
L’alternanza scuola-lavoro è una strada da percorrere senza indugio, ma va collocata nella giusta prospettiva: un po’, perché i nostri teenager se lo meritano e un po’ per porre fine alla proliferazione di luoghi comuni d’altri tempi.
Il lavoro è uno stare in situazione
L’esperienza lavorativa non si riduce alla mera trasposizione di un insieme di saperi appresi in una specifica situazione.
Anche nei mestieri più ripetitivi e meno ricchi di contenuto, il risultato dell’attività lavorativa dipende dall’interazione con altre persone, dalla disponibilità ad aiutare e a farsi aiutare, dalla capacità di mettersi nei panni degli altri, di capire gli altri, di farsi capire e di rispondere alle esigenze dei vari interlocutori con cui ci si relazione (il capo, il collega, il cliente; il simpatico e l’antipatico e così via).
Queste abilità, spesso riassunte nel concetto di soft skills, si devono sperimentare in situazioni reali.
Per i teenager, anche se l’alternanza scuola-lavoro portasse solo questo beneficio, sarebbe un risultato più che accettabile, perché le soft skill saranno sempre più importanti.
La socializzazione occupazionale
In letteratura è nota la distinzione tra socializzazione anticipatrice e socializzazione occupazionale: la prima definisce gli orientamenti e gli atteggiamenti delle persone sulla base di modelli cognitivi radicati al di fuori del lavoro; la seconda permette di adeguare i giudizi alla realtà professionale.
Sperimentandosi nell’ambiente di lavoro, i teenager (ma anche i ventenni) possono farsi un’idea di come si svolgono concretamente i processi di lavoro, al di là della narrazione che giunge loro per interposta persona.
L’alternanza scuola-lavoro aiuta a ponderare le decisioni post-diploma e anche se portasse solo questo beneficio, sarebbe un risultato più che accettabile.
I contenuti dell’alternanza e le esperienze (quasi) plug-and-play
Duecento ore per i licei e quattrocento ore per gli istituti tecnici e professionali. In entrambi i casi, da realizzare in tre anni. Questa è l’alternanza.
La ricerca del best fit tra studente, luogo di lavoro e durata dell’esperienza è probabilmente uno dei punti più critici per rendere efficace l’alternanza.
Il contenuto di un progetto di alternanza scuola-lavoro della durata di 200 ore non può avere lo stesso contenuto di uno della durata di 400 ore. Figuriamoci se le 200/400 ore vengono ripartite in tre anni, con durata media di 70/130 ore (da poco meno di due a poco più di tre settimane).
Basterebbe definire il risultato atteso (in termini di apprendimento e di esperienza) in modo coerente con la durata dell’esperienza e tenendo conto che un teenager che entra per la prima volta «da protagonista» in un luogo di lavoro ha bisogno di un po’ di tempo per capire il contesto in cui si trova.
Quando la durata è breve, servono progetti «plug-and-play» facili da comunicare a studenti e aziende, facili da gestire e semplici da misurare. All’allungarsi della durata, il contenuto del progetto evolve di conseguenza e può diventare molto challenging, demanding e appealing per tutte le parti in gioco.
Non ci credete? Provo a convincervi con quello che succede nelle Università che partecipano al progetto «Vivi tre giorni da manager», in cui studenti magistrali trascorrono tre giorni (esattamente tre, non uno in più) al lavoro con manager di imprese, enti e istituzioni pubbliche.
A fare cosa? Seguono letteralmente queste persone nello svolgimento dell’attività quotidiana, partecipando ai meeting, entrando nei luoghi di produzione e supportando l’attività operativa.
A cosa serve? Ne ho parlato l’altro giorno con una mia laureanda che sta vivendo questa esperienza con il direttore generale di un’azienda di distribuzione: «Oggi è stato il primo dei tre giorni. Ho partecipato a una lunghissima e accesa riunione di budget, raccogliendo un mare di appunti: ho finalmente visto cosa voglia dire in pratica saper gestire le diverse esigenze dei commerciali che seguono mercati diversi e arrivare a una decisione unitaria». Non si dica che è poco, perché non lo è.
La solitudine dei professori
Non tutte le scuole hanno esperienza nello sviluppo di attività di collaborazione per il lavoro con aziende, enti e istituzioni dei loro territori.
Quando si dice scuola, in realtà ci si riferisce ai professori che hanno il compito di far accadere il match tra le aspettative di studenti e di chi li dovrà ospitare per un’esperienza di lavoro.
Non lasciamoli soli e, soprattutto, non esponiamoli al rischio di vedersi additati come corresponsabili delle inevitabili criticità che l’alternanza porta con sé.
Anche un cheesburger può farvi emozionare
«Girare il mondo per entrare al McDonald’s ed emozionarci contando i cetriolini di un cheesburger a Milano, a Londra o a New York?», si chiedono gli studenti con gli occhi fuori dalle orbite.
«Sì, proprio così. Se riuscirò a farvi provare emozioni come questa vi si aprirà un mondo di significati», incalza il professore.
Quel professore sono io e questo è una delle provocazioni che uso nel mio corso di organizzazione aziendale all’Università, per mettere subito in chiaro un aspetto che è una (quasi) ovvietà: ciò che si insegna non serve solo a fare, ma anche a interpretare per fare di più o diversamente o meglio.
Insomma, per me è chiarissimo «il nesso tra gli studi manageriali e la cottura di un hamburger»: ma lo è stato anche per Mohamed, uno dei miei brillanti studenti che me lo ha confermato con un messaggio che racchiude un sacco di significati.
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