Lavoro
La favoletta dei 300 giovani che ogni giorno aprono una nuova “impresa”
Comincio a credere che la verità sulla mia generazione non la dirà nessuno. Non la dirà la politica che ormai ha deciso di cavalcare l’onda della crisi, degli abusi, del malcostume per giustificare tagli e cambiamenti determinanti per la vita dei cittadini, spesso ignari e quindi inconsapevoli. Non la diremo noi, i diretti interessati, i choosy, i bamboccioni, e chi più ne ha più ne metta. E non la dice l’indagine del Censis per il Padiglione Italia di Expo, che invece andrebbe interpretata, approfondita, localizzata. La ricerca, resa nota anche dall’Ansa, racconta, con un certo fervore, senza le dovute distinzioni ed accortezze, di un allegro gruppo di smanettoni iperconnessi ad Intenet disposto a tutto, che si sta abituando al precariato, a mansioni non corrispondenti al grado di studi ed esperienze, che rinuncia ai diritti sindacali, lavora in nero, oltre gli orari di lavoro, di notte, nel week end e che, notizia delle notizie, sta risollevando l’economia del Paese. Pare, difatti, che nel secondo trimestre del 2015 siano nate quasi 32.000 nuove imprese (più di 300 imprese al giorno) guidate da giovani.
Un quadro confortante, secondo voi?
Per quel che ne so io la mia generazione abbraccia una fascia di persone molte diverse per cultura, provenienza, possibilità economiche. Una generazione che è cresciuta serena, con tutti gli agi e che adesso scava tra i resti di un lauto banchetto. Ci chiamano stacanovisti, i disposti a tutto: ovvio, dal momento che trovare un lavoro (adempiere delle mansioni ed essere pagati) è diventata una scommessa, l’ansia preminente, il pensiero fisso, l’incubo peggiore. E mentre il Governo spinge su stage e tirocini svilendo il potere contrattuale dei trentenni e insistendo con incentivi e slogan sull’autoimprenditorialità (che non è il male, anzi, ma nemmeno la soluzione o l’unica carta da ficcare nel mazzo sul tavolo), qualcuno preferisce levarsi il sassolino dalla scarpa e provare ad essere imprenditore di se stesso. Tuttavia, fatti salvi quelli che davvero maturano idee utili e sviluppano progetti che si rivelano vincenti, c’è da chiedersi se 300 imprese traccino sul serio il sentiero verso il futuro, un futuro degno di questo nome. Perché per avere senso la parola futuro dovrebbe abbinarsi ad altre, come retribuzione, casa, indipendenza, crescita, prospettive.
Ma davvero ci stiamo abituando al precariato? Quale ragazzo, a meno che non lo scelga, può dire di essersi rassegnato ad essere un’ombra, a non contare in una società dove alla fine dei giochi e delle chiacchiere, checché ne raccontino, valgono ancora la busta paga, i risparmi e la propria forza economica?
Una forza che la mia generazione non ha. La maggior parte arranca, si butta, improvvisa. Prova a vivere comunque, a sfuggire al peggio, se possibile. E allora ecco che fare impresa, tentare di uscire dal limbo certe volte diventa un espediente come un altro.
D’altronde quel numero (300 imprese al giorno nel solo secondo trimestre del 2015) è rivelatore.
Intendiamoci: fare impresa è una scelta bellissima, encomiabile, ma difficile. Essere imprenditori non è un gioco. E non è nemmeno l’unica alternativa possibile alla disoccupazione, aggravata da politiche che stanno sfilacciando il rapporto lavorativo, dalla mancanza di credito e di liquidità, dalla globalizzazione selvaggia, mentre i bisogni a livello territoriale e prossimi alle comunità, alla gente restano comunque irrisolti.
La mia è una generazione disorientata, che credeva di vivere ancora meglio dei padri e invece sta peggio dei nonni. Siamo schiavi, a volte ridicoli (sempre on line, sempre on line). Ma questo, ahimè, non ce lo dirà nessuno.
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