Lavoro

Una buona scuola prepara al mondo del lavoro. Anche senza alternanza

17 Ottobre 2017

Cari studenti che protestate, dire che siete “studenti e non operai” e che “lavare i piatti non è formativo” è una cagata pazzesca ed è offensivo nei confronti di chi, ogni giorno, va in fabbrica o a lavar piatti per sbarcare il lunario. Imparare a usare le parole giuste per protestare: anche questo può essere formativo. Su tutto il resto – tuttavia – avete ragione. E le ragioni sono piuttosto semplici.

L’alternanza scuola lavoro nasce, anche per colmare un divario rispetto ad altri paesi europei (che però, ricordiamolo sempre, hanno sistemi scolastici in larga parte differenti dal nostro come programmi, tempi, progettazione), per fornire ai ragazzi delle competenze professionalizzanti e avvicinarli in questo modo al mercato del lavoro. Secondo i sostenitori della bontà di questa operazione – che a tratti fa sorgere il dubbio abbia solo arricchito il mare in cui datori di lavoro poco corretti vanno ad attingere risorse a basso o nullo costo per le loro imprese – il lavoro insegnerebbe ai ragazzi cose che la scuola non può veicolare. Il lavoro dunque, a prescindere dalla mansione svolta e dall’attinenza con il percorso di studi (ci si chiede che significato abbia per il percorso di un geometra andare a preparare caffè o per un aspirante cameriere ritrovarsi in un ufficio a preparare liste di distribuzione per newsletter) trasmetterebbe ai ragazzi dei valori utili per il loro percorso formativo. Analizziamo quali e se, davvero, non sono veicolabili attraverso un percorso scolastico serio e rigoroso.

Etica del lavoro, precisione, puntualità.

Fin dai primi giorni di scuola mi hanno insegnato che l’insegnante ha ragione e bisogna rispettarlo, che si devono rispettare le regole date dalla scuola, i compagni e gli spazi comuni. Che bisogna dare il meglio usando la propria testa e cercando di collaborare con i compagni.

I compiti vanno svolti, tutti e per tempo.

Sempre fin dai primi anni di scuola mi hanno insegnato che le scadenze vanno rispettate. Se non vengono rispettate la “pena” varia da un brutto voto alla bocciatura.

Pazienza e costanza.

In questo senso posso dire che mi ha insegnato di più in termini di “pazienza” il costante studio di inutili materie come il latino e il greco, di quanto abbia fatto qualsiasi altro lavoro abbia svolto negli ultimi dieci anni. Mi ha insegnato a sopportare la frustrazione di un risultato che non corrisponde a quanto sperato in base all’impegno profuso, mi ha insegnato il valore del mantenere l’impegno anche di fronte alla frustrazione, mi ha insegnato a stare con le chiappe parcheggiate sulla sedia fino a quando il compito non fosse terminato. Anche se il compito era ripetitivo e poco stimolante come ripetere all’infinito un paradigma.

Svegliarsi e non dormire sugli allori.

Sapete quante ore frontali di lezione segue uno studente di un istituto tecnico commerciale? Dalle 32 alle 36 a seconda dell’indirizzo. Quante ore uno studente di liceo artistico? Di media 35. Va meglio al liceo classico, con una media di 31 ore. Considerato che un lavoratore del pubblico impiego di media lavora 36 ore a settimana e nel settore privato circa 40 (generalizzo) verrebbe da dire che gli studenti un lavoro lo fanno: studiare. E che chi lo fa seriamente non dorme sugli allori o si culla nel privilegio del dolce far niente, ma è impegnato come un lavoratore standard. Qualcuno potrebbe obiettare che studiare non è come lavorare: avete ragione, io preferisco decisamente il lavoro. Mi pagano e a fine giornata non devo fare i compiti a casa.

Capire che buona parte di quanto appreso a scuola è inutile nel mondo del lavoro e agire con conseguente umiltà.

E allora perché studiare? Il messaggio non è dei migliori. Anche perché si potrebbe dire la stessa identica cosa di molti impieghi. Per il mio attuale lavoro non è stato più utile imparare a catalogare libri durante gli anni in cui ho lavorato come bibliotecaria di quanto sia stato imparare a scrivere un testo formale in una corretta lingua italiana. Mail formali ne devo mandare tutti i giorni, di libri non ne catalogo più da una vita. Quindi i due anni spesi in biblioteca sono stati inutili? Assolutamente no. Mi hanno insegnato molto in termini di competenze tecniche, ma anche e soprattutto relazionali. Lo stesso discorso però potrei fare ripensando agli anni del liceo. E l’umiltà la impari quando dopo un compito andato bene ti presenti all’interrogazione con atteggiamento da saputello e torni al posto con un quattro.

Quindi in sintesi? In sintesi – forse – il Ministero della Pubblica Istruzione si dovrebbe occupare in primis di tenere alta la qualità dell’insegnamento nelle nostre scuole, ponendo particolare attenzione alla valorizzazione del ruolo dei docenti come autorità competenti per la formazione – non solo “di materia”, ma anche sociale e valoriale – dei ragazzi. Elevare gli standard qualitativi anche attraverso una modifica culturale rispetto alle tendenze che si sono diffuse negli ultimi anni a mediare, al ribasso, con le famiglie, in termini di percorso e valutazione del risultato scolastico. Non disperdere in mille rivoli progettuali le energie che vanno spese nel percorso curricolare. Pretendere dal corpo docente competenza, ma riconoscerla anche, evitando di dare eccessivo spazio a tutti quei ricorsi ed esposti da parte di chi, magari perché il livello scolastico del figlio è stato valutato negativamente, cerca quotidianamente di imporre le sue opinioni su una materia di cui non ha alcuna cognizione. Un buon sistema scolastico prepara in modo efficace all’inserimento in un contesto lavorativo, di qualsiasi tipo esso sia. Poi ben vengano i tirocini, ma quando effettivamente veicolano competenze pratiche utili al percorso. Altrimenti, senza finalità formative, il tirocinio si chiama lavoro. E il lavoro, cerchiamo di non dimenticarlo mai, si paga.

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