Lavoro
Ultime picconate all’art. 18 (intervista a R. Quber)
Si può subire un licenziamento disciplinare giudicato illegittimo da un tribunale e perdere comunque il lavoro? Ebbene sì, grazie alla riforma del governo Monti e a una serie di recenti pronunciamenti della Cassazione.
Nel bailamme sviluppatosi intorno ai successivi interventi sullo Statuto dei Lavoratori in materia di tutela dai licenziamenti illegittimi, prima con Monti e poi con Renzi, un paio di cose ci avevano assicurato: che nulla sarebbe cambiato per i licenziamenti disciplinari (quelli legati a infrazioni delle regole aziendali) e che chi aveva un vecchio contratto di fatto il peggio se lo sarebbe scampato. Ma alcune sentenze pronunciate dalla Corte Costituzionale nel 2018 introducono invece un’interpretazione restrittiva della riforma Fornero del 2012 e smentiscono le rassicurazioni che ci aveva dato la politica.
A far emergere questa novità è un episodio che se non fosse costato il posto a una lavoratrice potrebbe ricordare un film di Alberto Sordi. La donna è una dipendente di ACAM Ambiente, Gruppo ACAM, la multiutility spezzina da un anno circa acquisita da IREN (quotata in Borsa, ma formalmente controllata dai comuni di Genova, Torino e dell’Emilia). L’anno scorso la lavoratrice viene licenziata perché sorpresa a ritirare cassette di plastica da un fruttivendolo durante un turno in cui avrebbe dovuto raccogliere altro tipo di rifiuti e in cambio avrebbe anche ricevuto un compenso ‘in natura’ (qualcuno ha parlato di due banane). A denunciarla il presidente di ACAM Ambiente e un dipendente della società (nonché assessore comunale all’ambiente, che continua a lavorare in azienda), i quali sostengono di essersi trovati a passare di là fortuitamente. La lavoratrice ha impugnato il licenziamento disciplinare e ai primi di marzo il Tribunale di La Spezia ha dichiarato che il provvedimento è illegittimo, ma non ha proceduto al reintegro nel posto di lavoro, limitandosi a riconoscerle un indennizzo di 21 mensilità.
Per capire come sia possibile perdere il posto di lavoro per un licenziamento disciplinare giudicato illegittimo dalla magistratura ci siamo rivolti a Roberto Quber, legale della lavoratrice spezzina, chiedendogli come sia possibile che in un ambito in cui ci era stato spiegato che nulla sarebbe cambiato in realtà sia cambiato tutto.
Come si può perdere il posto di lavoro in questa maniera?
Ecco, vorrei partire proprio con una premessa. Faccio l’avvocato del lavoro da circa 15 anni, prima ho fatto il dirigente d’azienda e in questi anni ho potuto osservare che ci sono procedimenti giudiziari che comportano degli effetti sociali, spesso si tratta di veri e propri drammi umani. In casi come questo bisogna tenere presente questo aspetto e avere presente che la riflessione non può esaurirsi semplicemente sul piano giuridico, ma c’è anche dell’altro.
Allora, ci spieghi in termini semplici la sentenza e, aldilà del caso specifico, il suo significato più generale.
Certo. La riforma Fornero, cioè la legge 92/2012, ha riformato l’articolo 18 per tutti i lavoratori. Il contratto a tutele crescenti, quello che di fatto toglie l’articolo 18 solo per i nuovi contratti, arriverà 3 anni dopo col famoso Jobs Act. La riforma Fornero prevede che in caso di licenziamento disciplinare il reintegro si applichi o quando il fatto è insussistente o quando sia irrilevante dal punto di vista disciplinare e quindi, essendo il licenziamento una punizione sproporzionata rispetto all’infrazione, sia applicabile una sanzione conservativa, cioè senza perdita del posto di lavoro, sulla base delle tipizzazioni previste dalla contrattazione nazionale di categoria. Che cosa significa quest’ultima formula? Significa che affinché un lavoratore licenziato illegittimamente perché l’infrazione non è grave possa essere reintegrato, bisogna che nel suo contratto nazionale di categoria ci sia scritto espressamente che per punire il comportamento che gli è stato contestato può essere adottata una sanzione diversa dal licenziamento. Altrimenti, anche se un tribunale riconosce che il licenziamento è illegittimo, il lavoratore può ottenere solo un indennizzo tra le 12 e le 24 mensilità. Fin qui c’era un peggioramento della norma, certo, ma eravamo ancora relativamente tranquilli.
Perché?
Perché la giurisprudenza fino a qualche tempo fa adottava un criterio interpretativo analogico. Mi spiego: in tutti i contratti nazionali ci sono degli esempi di infrazioni e di relative sanzioni conservative di intensità crescente: ad esempio per un ritardo di 5 minuti si può avere un richiamo orale, per un ritardo ripetuto un richiamo scritto, per un’assenza ingiustificata una multa e così a salire. Insomma si citano alcune delle infrazioni più comuni e si indicano le relative sanzioni. Nella pratica quando capitava una violazione non citata espressamente nel contratto si procedeva per analogia, cioè a violazioni ‘analoghe’ a quelle per cui era prevista espressamente dal contratto una certa sanzione si applicava la medesima sanzione. L’anno scorso però è intervenuta una serie di sentenze della Cassazione, emesse tra maggio e dicembre – nel nostro caso il giudice ne ha citate tre – che di fatto cancellano il principio dell’interpretazione analogica. In sostanza quindi o il contratto nazionale di categoria dice espressamente che per una determinata infrazione si può applicare una sanzione conservativa oppure, anche se il giudice dichiara il licenziamento illegittimo, non può reintegrare il lavoratore a cui è stata contestata quell’infrazione. E al licenziato spetta solo l’indennizzo.
Senza entrare nel merito dell’episodio spezzino, lei pensa che ci sia un modo per rispondere a questo orientamento in termini giuridici?
Sì e l’idea su cui sto procedendo, aldilà dei tecnicismi, è che l’orientamento espresso dalla Cassazione ponga un problema di legittimità costituzionale, perché, a mio avviso, va a ledere il principio dell’uguaglianza formale dei cittadini davanti alla legge, sancito dall’articolo 3, comma 1 della Costituzione.
In che senso?
Facciamo un esempio concreto. Io sono un lavoratore di un’azienda di materie plastiche e il mio capo un giorno mi dice di fare ordine sulla mia scrivania, perché siamo in un open space e ne va dell’immagine aziendale. Io gli rispondo che ora ho da fare e che le pulizie le faccio dopo. Dal punto di vista legale si potrebbero ravvisare nel mio comportamento gli estremi dell’insubordinazione. Nel contratto della gomma-plastica non è prevista una sanzione conservativa per l’insubordinazione, per cui, pur essendo la mia una violazione lieve della disciplina aziendale, posso essere licenziato, illegittimamente, e non avere comunque diritto al reintegro. Andiamo oltre. Domani la stessa cosa succede a un mio collega, che non dice nulla, ma prende e se ne va a casa infuriato. Abbandona il posto di lavoro senza giustificazione. Il contratto nazionale in questo caso prevede espressamente che l’azienda lo multi. A questo punto se il mio collega impugna il licenziamento e il giudice riconosce che esso è illegittimo, lui, a differenza di me, ha diritto a rientrare nel suo posto di lavoro. Il ragionamento può essere esteso a comportamenti identici di lavoratori a cui si applicano contratti differenti, che il giudice potrebbe trattare in modo differente in base a ciò che c’è scritto nei loro rispettivi contratti.
Questo sul piano legale. E dal punto di vista sindacale che cosa si può fare? Bisognerebbe introdurre nei contratti collettivi una casistica minuziosa che riduca al minimo la possibilità di non perdere il diritto al reintegro?
Il suggerimento che mi sentirei di dare ai sindacati è quello di introdurre dei codici disciplinari nazionali concordati nei diversi settori. Mi rendo conto che si tratta di una proposta che, a rigor di logica, va nella direzione opposta a quella che dovremmo percorrere. Abbiamo più di 150 contratti nazionali, per cui in realtà dovemmo cercare di semplificare invece di complicare ulteriormente la situazione aggiungendo anche 150 codici disciplinari. Ma purtroppo è il risultato di una situazione concreta. Se si vuol risolvere il problema non vedo molte alternative.
Insomma quando la politica ha messo mano all’articolo 18 ci avevano detto che per i lavoratori con vecchi contratti, già in essere al momento delle riforme, e per i licenziamenti disciplinari sarebbe rimasto sostanzialmente tutto come prima. Pare che non sia così… Non le sembra una notizia che travalica la cronaca locale?
La realtà è che oggi anche un lavoratore con un vecchio contratto può essere tranquillamente messo fuori dal posto di lavoro con un licenziamento disciplinare, anche se questo è illegittimo. E che la sentenza della causa di cui mi sto occupando cita almeno tre casi in cui è già successo. Ma mi sembra che non ci sia una sufficiente consapevolezza della portata di queste decisioni a livello nazionale, anche nel sindacato. Per questo spero che il lavoro che stiamo facendo serva anche a far sì che questa consapevolezza si diffonda a livello nazionale.
Non c’è che da augurarsi, insieme a Quber, che le cose vadano effettivamente così, anche perché il riferimento generico alla contrattazione nazionale pone ulteriori problemi. Secondo un recente rapporto del CNEL in Italia negli ultimi anni è esploso il fenomeno dei contratti-pirata, accordi collettivi che aziende non iscritte alle grandi associazioni di categoria sottoscrivono con sindacati con un pugno di iscritti allo scopo di ottenere condizioni più favorevoli. Se consideriamo anche questi il totale dei contratti collettivi attualmente depositati arriva non ai 150 citati da Quber, ma a quasi 900, di cui solo un terzo firmato da CGIL CISL e UIL. Se a influire sull’applicabilità della tutela reale dai licenziamenti illegittimi è un generico riferimento alla ‘contrattazione’ nazionale, allora vuol dire che le aziende hanno la possibilità di costruirsi dei contratti su misura, non solo per abbattere il costo del lavoro, ma anche per godere della possibilità di licenziare in modo arbitrario. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa chi, anche a sinistra, negli anni passati spiegava che non era il caso di preoccuparsi.
L’intervista è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 22 marzo 2019
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