Appalti
Taxi, ragioni e soluzioni
Le ragioni dietro la regolamentazione del servizio taxi
Dal manuale dell’economista, lo stato dovrebbe regolamentare un mercato quando esso presenta caratteristiche tipiche di un monopolio naturale, quindi, in sintesi, costi fissi alti non recuperabili, e costi variabili bassi.
Per quanto riguarda il servizio taxi, i costi fissi non sono né alti né irrecuperabili, mentre i costi variabili, anche se difficile da calcolare, sono relativamente alti. In primo luogo, dunque, la regolamentazione non risponde a requisiti economici, quanto al fine di garantire un servizio con determinati standard e accessibile a tutti i cittadini. Inoltre, per assicurarsene la presenza e per scongiurare l’insorgere di una concorrenza distruttiva tra gli operatori, occorre garantire che i tassisti abbiamo un livello di reddito adeguato (Kang, 1998).
Per ottenere tutto ciò, lo stato fissa delle regole su chi possa essere conducente di un taxi e su quali requisiti egli debba rispettare, per poi fissare prezzi massimi, orari di lavoro, ecc. Il processo può però essere influenzato da ideologie politiche, necessità e, purtroppo, anche corruzione e forza delle lobby. È infatti possibile che si creino delle regulatory captures (Stigler, 1975), per cui le aziende regolamentate possono esercitare pressione sui regolatori per ottenere condizioni più favorevoli, col pericolo della creazione di sussidi diretti, barriere all’entrata o fissazione dei prezzi (Stigler, 1971).
Il mercato dei taxi in Italia: quando è il processo legislativo a creare incentivi di lobbying
Nel nostro paese, il servizio di taxi e quello di NCC (noleggio con conducente) sono disciplinati dalla legge quadro n. 21/929 e dal decreto Bersani (2006). Si è sancito che il rilascio ufficiale delle licenze per l’esercizio della professione spettasse alle amministrazione comunali tramite bandi pubblici, ma che la loro trasferibilità potesse regolarsi tra privati. La trasferibilità svolge anche la funzione di liquidazione per la cessazione dell’attività. Tuttavia, anche a causa del ridotto numero di licenze concesse tramite bando pubblico ogni anno, si è venuto a creare un mercato secondario. Il prezzo di tali attestati è aumentato esponenzialmente, erigendo barriere all’ingresso sempre più alte sia sul mercato principale (quello dei taxi) sia sul suo principale sostituto (quello del NCC). La fissazione del prezzo a livello comunale ha ulteriormente rafforzato la posizione di chi già aveva la licenza, portando di fatto ad un sussidio diretto (Stigler 1971).
Il primo tentativo di arginare queste rendite e liberalizzare il mercato si ha con il decreto Bersani (2006), nato con l’obiettivo di aumentare l’offerta per ridurre le tariffe. Tuttavia si è giunti a un risultato opposto: l’aumento del servizio attuato in alcune grandi città è stato ottenuto concedendo incrementi tariffari, e dunque penalizzando nuovamente il consumatore.
La questione si è ulteriormente complicata negli ultimi anni, con l’avvento di Uber, la cui espansione è per ora frenata dai già menzionati interessi privati della categoria. Perciò oggi in Italia Uber è presente solo come operatore NCC, proprio quella tipologia di servizio che il recente emendamento Lanzillotta si proponeva di rendere più concorrenziale.
Possibili soluzioni
Qualsiasi soluzione accettabile dovrebbe avere due caratteristiche: portare ad una maggiore liberalizzazione e indennizzare i tassisti nella transizione. Si potrebbe operare in diversi modi: un aumento consistente del numero delle licenze taxi, una maggiore concorrenzialità degli NCC, o una completa deregolamentazione (una soluzione alla UberPop). In ogni caso l’offerta di trasporto aumenterebbe drasticamente e sia il valore delle licenze dei tassisti, sia il costo delle corse scenderebbero.
Partendo dal presupposto che un aumento dell’offerta avrebbe conseguenze molto positive per i consumatori (aumento della platea di utenti e costi più bassi) e comporterebbe una serie di esternalità positive (riduzione del traffico e dell’inquinamento), resta il fatto che la maggior parte dei tassisti si è indebitata per comprare la licenza.
C’è quindi bisogno di compensare la perdita di valore che la licenza subirebbe in caso di liberalizzazione. Per non gravare sulla fiscalità generale, l’indennizzo dovrebbe essere finanziato dalla liberalizzazione stessa. Potrebbe quindi essere erogato sotto forma di nuove licenze vendibili, ma concesse gratuitamente ai tassisti già possessori, oppure mediante redistribuzione fra i tassisti dei proventi dalla vendita all’asta di nuove licenze.
Molto di quanto elencato sopra, almeno negli obiettivi, era contenuto nel già menzionato decreto Bersani (2006). Purtroppo gli effetti non sono stati rilevanti: gli strumenti, in mano ai singoli comuni, si sono rivelati troppo deboli e sostanzialmente inefficaci. Rimane la possibilità che un’implementazione centralizzata, con queste modalità, possa resistere alle pressioni di categoria che attanagliano i comuni, e ottenere un migliore risultato. Ne sapremo qualcosa di più il mese prossimo, quando arriverà l’atteso decreto ministeriale per superare l’emendamento Lanzillotta: le premesse non sono le migliori.
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